Interventi

Emergenza coronavirus: considerazioni politiche

22 Marzo 2020
corona virus


Interroghiamoci sul significato e, soprattutto, sulle conseguenze che la pandemia da Covid-19 sta portando con sé.
Naturalmente, eviteremo di prendere in esame fantasiose quanto improbabili e ingenue tesi complottistiche e dietrologiche – che, ad esempio, vedono la diffusione del virus come un attacco portato all’economia cinese, nella più ampia prospettiva della guerra tra imperialismi, oppure come il virus diffuso da una Spectre per condurre indisturbata speculazioni finanziarie e borsistiche, e poi, magari, arricchirsi con la vendita del vaccino.

Per prima cosa, il Covid-19 dice molto chiaramente come, in una società globalizzata, un virus diffuso in una sola regione della Cina in meno di due mesi possa diventare un problema globale, una pandemia capace di segnare la vita degli abitanti di diversi continenti. In realtà, da un punto di vista scientifico, non è ancora certo se a diffondersi in Europa sia stato lo stesso ceppo del coronavirus manifestatosi in Cina, oppure una variante autoctona; su questo punto le informazioni disponibili non permettono di fare chiarezza ma che ci sia stata o no una mutazione del virus, ciò non toglie nulla alla sua capacità di diffondersi in modo radiale in tutto il globo.

A partire da questa constatazione, la cosa più interessante da fare è condurre un’analisi dei meccanismi, palesi e in filigrana, che vengono messi in atto dai vari Stati, in particolare dall’Italia, come reazione al virus e poi considerare le conseguenze che se ne possono trarre.
Innanzitutto, si possono riconoscere tre tipi di approccio messi in atto dai vari Paesi. Quello cinese (seguito, con sfumature e tempi diversi, ad esempio, da Italia, Spagna, Francia e USA) basato sulla segregazione forzata di intere aree del paese e con una regolamentazione della vita del Paese stesso gestita “per decreto” dal vertice politico. Quello della Corea del Sud, dove l’utilizzo delle tecnologie e di una componente investigativa molto sofisticata e diffusa (oltre che invasiva…) ha permesso di individuare e isolare le sole aree frequentate dagli infettati prima che entrassero in quarantena e quindi non ha posto dei veri e propri limiti alla vita sociale, ma ha permesso che fossero gli stessi abitanti a gestirla in modo sano. Tra l’altro, in questo paese c’è stato uno dei rapporti più bassi tra deceduti e infettati. Il terzo approccio è quello della Gran Bretagna; oltremanica, il Primo Ministro sfacciatamente indica la necessità di non porre limiti al mondo produttivo, finanziario e commerciale, in una parola di non limitare il profitto, e di conseguenza di non opporsi alla diffusione del virus, lasciando che la popolazione sviluppi naturalmente gli anticorpi. E poco male se le fasce più deboli della società saranno condannate alla morte o comunque alla sofferenza. Insomma, una riedizione del darwinismo sociale tanto caro alle destre. Le forti critiche, al momento, hanno portato Boris Johnson solo ad ammorbidire nella forma, non nella sostanza, la linea del governo ma è molto prossima la capitolazione della sua linea e l’adeguamento al modello cinese.

Prendiamo in esame il primo approccio e guardiamo nel dettaglio quanto sta accadendo in Italia. Innanzitutto, emerge una seria difficoltà nel gestire le informazioni e soprattutto nel saper “maneggiare” correttamente i numeri. Sentendo i telegiornali o, peggio ancora, facendo ricerche su Google, si trovano numeri, statistiche e dati che dicono tutto e il contrario di tutto. E questo è un problema perché genera confusione: si passa da visioni apocalittiche a quelle che inducono a uscire subito di casa perché il virus è innocuo o comunque “meno pericoloso dell’influenza che nel 1967…”.

Ci sono poi altri numeri che i gestori dell’informazione (televisiva o cartacea che sia) maneggiano con molta oculatezza: sono quelli che riguardano la sanità. Da una parte non si può che essere oltremodo grati per l’abnegazione con cui medici, infermieri e tutto il personale sanitario stanno affrontando questa emergenza. Costretti a turni massacranti di 12 ore, a procurarsi lividi sul viso per mascherine occhiali indossati ininterrottamente, a doversi mettere il pannolone perché di tute bianche monouso ce ne sono poche e non possono permettersi di cambiarle per poter andare in bagno. L’informazione mainstream non ci fa mancare reportage e testimonianze sull’aspetto “umano”, sull’eroismo italiano. Molto meno anzi, sostanzialmente quasi per niente, si parla del perché tutto il personale sanitario sia costretto a questo immane sacrificio. Non si parla, poi, del perché la mortalità in Italia sia stata e continui a essere percentualmente maggiore che in altri paesi colpiti dal virus.

Non si parla del perché in nove giorni, dal 9 al 18 marzo, il tasso di mortalità sia aumentato di due terzi, passando dal 5% all’ 8,3% dei contagiati. Nella tabella riportata alla fine sono stati riportati alcuni dati elaborati a partire dai numeri comunicati dal “Coronavirus Resource Center” della Johns Hopkins University & Medicine. Supposto che i dati dei decessi iraniani possano essere stati sottostimati dal “regime”, la situazione italiana si presenta comunque come la più allarmante.

Per rispondere all’obiezione di coloro che hanno maggiore sensibilità nell’analisi dei numeri – se in italia il tasso dei decessi è andato crescendo, considerato che gli altri paesi europei sono “più indietro” di noi con la diffusione del virus, è legittimo aspettarsi che quando, col passare dei giorni, anche da loro il numero totale di contagiati salirà, anche il tasso dei decessi si allineerà al nostro – basta osservare, ad esempio, che la Spagna al 18 marzo ha circa 13.900 contagi e un tasso di decessi del 4,5%. L’Italia tra l’11 e il 12 marzo ha avuto sostanzialmente lo stesso numero di contagiati degli spagnoli, ma noi avevamo il 6,7% di decessi, cioè quasi il 50% in più del tasso iberico.

Per completare l’analisi, però, dovremmo almeno incrociare questi dati con l’età media degli abitanti di ciascun paese, perché il virus aumenta la sua aggressività in modo non lineare con l’età della persona colpita. Non addentriamoci però in questo ambito perché ci allontaneremmo troppo dallo spirito di questo testo, che non vuole e non può essere un articolo scientifico sul virus ma mira a fare delle considerazioni sociali e politiche su di esso. Insomma, le analisi statistiche ci servono non per dimostrare teorie scientifiche ma per avvalorare riflessioni politiche.
Lasciamo quindi sullo sfondo il nostro tasso di mortalità come quello più alto, o tra i più alti, a livello mondiale; appare comunque lapalissiano che stiamo pagando duramente, in termini di vite umane, gli oltre venti anni di tagli sconsiderati alla sanità pubblica. Stiamo pagando con il contagio di ben 2.629 operatori sanitari e la morte di 14 di loro l’aver permesso che la Sanità pubblica fosse trattata come una margherita cui staccare un petalo dopo l’altro, a tutto vantaggio di quella privata che ha ottenuto enormi profitti grazie al fiume di denaro pubblico finito nelle tasche delle Sette Sorelle della sanità privata – nomi noti (Carlo De Benedetti, Gianfelice Rocca, Giuseppe Rotelli, Giampaolo Angelucci) e meno noti (Ettore Sansavini, Emmanuel Miraglia, Maria Luisa Garofalo) – a cui si aggiunge, immancabile, la Grande Madre, la Chiesa cattolica. Il legame di molti di questi nomi con Confindustria, Unicredit e con l’editoria (Corriere della Sera, La Repubblica, L’Espresso, Il Riformista, Libero) ci fa capire come la Sanità privata sia parte integrante del salotto buono della borghesia italiana.

Ricordiamo, en passant, che tutto ha inizio nel 1992, quando l’allora Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo – sì proprio lui, il collega di Duilio Poggiolini – con la riforma che porta vergognosamente il suo nome equiparò pubblico e privato, aprendo alla voracità del capitale privato le porte della salute pubblica.

Vogliamo e dobbiamo soffermarci sulle responsabilità politiche dell’attuale stato di crisi sanitaria, sulle responsabilità politiche di un numero così spropositato di vittime; per giunta, dobbiamo avere chiaro che sarebbero molte di più se la quasi totalità degli operatori (medici, infermieri, etc.) non si stessero immolando loro stessi per sopperire alle ingiustificabili falle della nostra sanità. Basti dire che il Servizio Sanitario Nazionale, solamente negli ultimi 10 anni, ha perso 8.000 medici, 13.000 infermieri e oltre 70.000 posti letto. Per giunta, il totale dei posti in terapia intensiva offerti oggi del SSN sono scesi a 6,2 ogni 100.000 abitanti (arrivano a 8,5 se includiamo anche quelli delle strutture private) mentre nel 1980 erano circa 20. Tanto per intenderci, la Germania, oggi, ne ha 35 ogni 100.000 abitanti e si è data l’obiettivo di raddoppiare questo numero per poter fronteggiare adeguatamente il coronavirus.

Bisogna aggiungere altro per convincersi che la salute è troppo preziosa per lasciarla nelle mani del privato? Per capire che è stato delinquenziale da parte dei governi di centrodestra e centrosinistra realizzare tutto questo? Solo negli ultimi dieci anni, i due schieramenti hanno tagliato oltre 34 miliardi di euro al SSN.

Se procediamo nell’analisi dei meccanismi messi in atto dal governo per fronteggiare l’emergenza, al di là della becera retorica del “tutti uniti sconfiggeremo il virus”, i fatti mostrano chiaramente come si stia scaricando sui lavoratori, e gli operai in particolare, il rischio di contrarre l’infezione. Di quelli del comparto sanitario e del loro sacrificio abbiamo parlato ampiamente; consideriamo ora tutti gli altri, con particolare riguardo ai salariati. Nonostante l’emergenza, la produzione non può fermarsi – non solo per il comparto alimentare e le attività strategiche. Spesso i padroni non intendono spendere per garantire la sicurezza dei lavoratori; ciò determina un “rischio di sciopero”, con lo stop della produzione e quindi dei profitti. Per scongiurare questa eventualità, è sceso in campo Landini che, con Furlan e Barbagallo, ha firmato l’accordo governo-Confindustria-sindacati per cercare di tagliare le gambe alle legittime rivendicazioni e proteste dei lavoratori in difesa della loro salute e del loro salario.

Dal punto di vista del mondo del lavoro, il peggio arriverà finita l’emergenza sanitaria. La chiusura forzata per un lungo periodo dettata dall’emergenza porterà al fallimento di diverse attività commerciali, artigiane e della piccola imprenditoria con il conseguente licenziamento di tutti i lavoratori. Molte altre, probabilmente, riusciranno a restare in vita con il piano “Cura Italia” che prevede aiuti per le imprese mentre per i lavoratori è previsto un uso diffuso e generalizzato della cassa integrazione. L’enorme numero di persone che dovrà far ricorso a tale ammortizzatore sociale necessariamente porterà a uno svuotamento delle casse dell’INPS. E come tutti i conti, soprattutto quelli più salati, anche questo, pesantissimo, tenteranno di farlo pagare ai lavoratori: risanare l’INPS con nuovi innalzamenti dell’età pensionabile e con l’ulteriore diminuzione dell’assegno pensionistico.

Prima di concludere, è importante considerare un risvolto “in filigrana” relativo alla gestione dell’emergenza Covid-19. La dura lotta contro il virus è stata definita una “guerra”. Non è un caso che molti capi di governo e di Stato (Conte e Macron in primis) usino questo termine in modo ossessivo. Finita di fatto la guerra al terrorismo ecco scoppiata, per loro fortuna, una nuova guerra; quindi si può fare appello all’unità di patria per uscirne vincitori. E in un periodo di guerra va da sé che nessuno deve mettersi di traverso: il paese non può essere scosso da alcuna protesta sociale, anzi, per creare lo spirito di unità nazionale contro il “nemico invisibile” spopola l’appello per cantare dai balconi l’inno nazionale…

Se prima dell’emergenza generata dal virus la crisi capitalistica (economica e ambientale) aveva acceso la protesta sociale (seppure in misura diversa) nei vari paesi, lo scoppio della guerra contro il Covid-19 permette di vietare fisicamente qualunque forma di protesta o manifestazione, permette di relegare tutti nelle proprie case, permette di delegare operazioni di polizia all’esercito; insomma, si garantisce per decreto la pace sociale, nonostante la situazione per i lavoratori stia assumendo toni sempre più cupi. La speranza per i potenti è che questa inazione, questa passività e questo isolamento sedimentino nelle persone.

Naturalmente, con ciò non si vuole minimamente sottostimare i rischi connessi alla diffusione del virus, né tantomeno rivendicare una più libera circolazione delle persone. Stiamo solo portando delle doverose considerazioni politiche sulla realtà dei fatti.

Potremmo dire che il Covid-19 ha reso esplicito, a livello fisico, la condizione interiore che caratterizza l’uomo contemporaneo in quanto appartenente alla società capitalistica, ovvero la sua condizione di solitudine, isolamento, frammentazione, allontanamento dal prossimo. Presupposti, questi, che motivano e spiegano, da un punto di vista psicologico, il fenomeno del disimpegno e del riflusso di coscienza di classe dei lavoratori salariati e dei proletari in particolare che ha segnato questi ultimi quarant’anni.

I marxisti rivoluzionari, oggi più che mai, devono portare avanti un duro lavoro controcorrente, volto a conquistare le avanguardie più coscienti del mondo del lavoro all’interno dei settori più battaglieri. Solo così, una volta che inizieranno a scoppiare in modo disordinato rivolte spontanee, scioperi e proteste per il diffondersi e il radicalizzarsi della crisi economica amplificata esponenzialmente dall’emergenza virus, essi potranno adoperarsi per sviluppare un processo di raccordo delle proteste, per la loro unificazione in un moto insurrezionale che possa assumere carattere rivoluzionario, portando all’abbattimento del modo di produzione capitalistico e alla sua sostituzione con una società di tipo radicalmente opposto, che al centro abbia l’“uomo” e non il profitto, una società basata sulla libertà e l’uguaglianza sociale, in una parola, la società socialista.

Massimo Cappellani
corona virus 2

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