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8 marzo: per un femminismo anticapitalista e rivoluzionario!

Basta emergenze e repressione scaricate sulle spalle delle donne!

7 Marzo 2020
8_marzo_2020


Anche quest’anno il movimento femminista Non Una di Meno ha lanciato una mobilitazione in occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna: l’8 marzo una giornata di iniziative e manifestazioni e il 9 marzo una giornata di sciopero. Anche quest’anno lo sciopero è stato sostenuto da diverse sigle del sindacalismo di base, di fronte alla puntuale completa passività dei sindacati confederali, che in piazza per l’abrogazione del precariato e per la tutela delle lavoratrici, così come dei lavoratori, proprio non vogliono scendere. Si conferma in particolare la pesante responsabilità della burocrazia della CGIL, che organizza la maggioranza delle lavoratrici italiane, e che coerentemente con la sua linea concertativa con governo e padronato, rifiuta di assumere un programma e una strategia conflittuale nell’ambito della condizione delle lavoratrici salariate.

E anche quest’anno, come quelli passati, non ci sono motivi per stare allegre.
Tutte le leggi sulla precarietà del lavoro, il Jobs Act, la legge Fornero, sono saldamente al loro posto, e non c’è ovviamente da farsi illusioni: il governo M5S-PD segue coerentemente la linea reazionaria del precedente.
Sono ancora al loro posto i Decreti sicurezza di Salvini, che in realtà cancellano la protezione umanitaria, e sono veri e propri provvedimenti di segregazione, oppressione razziale e polizia sociale.
Anche se gli elementi più vistosamente fanatici del precedente governo giallo-verde non sono (momentaneamente) più al governo, non si fermano neanche le politiche di attacco ai consultori, agli spazi delle donne e all’autodeterminazione della nostra salute e della nostra vita riproduttiva.
Le donne continuano a morire con fastidiosa pervicacia per mano di mariti, ex, conviventi e famigliari, e il Codice Rosso non è che un cerottino su un’emorragia. L’inasprimento delle pene e le nuove fattispecie di reato (revenge porn, sfregio del viso) non proteggono le donne dalla violenza patriarcale. Continuano anche le aggressioni e le discriminazioni contro le persone LGBT*QIA+, e tutte le forme di violenza e oppressione che subiscono, a partire dalla patologizzazione psichiatrica.

Davanti agli attacchi quotidiani che le donne subiscono a 360 gradi, non ci resta che un’unica arma per l’autodeterminazione: non un reddito di cittadinanza, non un’elemosina di Stato slegata dal lavoro, non uno stipendio da casalinga, ma il lavoro e la sua difesa, con tutti i diritti collegati che ci sono stati rubati.
Solo con un lavoro dignitoso, con un salario equo (e pari a quello maschile!) possiamo pensare di mantenere la nostra indipendenza economica e sociale. E quando il lavoro manca, vogliamo un sussidio di disoccupazione dignitoso!

L’arma dello sciopero è da sempre quella che più impensierisce patriarcato e capitale, perché è bloccando la produzione che diamo un segnale chiaro a chi controlla le nostre vite e lo colpiamo dove fa male, nel suo profitto di rapina sociale. Lo "sciopero dal lavoro riproduttivo" o l’astensione dai consumi o dai lavori di cura ci ritroveranno forzatamente ai nostri posti il giorno dopo. Non c’è rivoluzione individuale che possa impensierire il patriarcato.

Lo Stato borghese utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione per spezzare le lotte che mettono in discussione il sistema capitalistico e patriarcale, e tutte le forme di organizzazione della classe lavoratrice e delle masse popolari. Non è mancata infatti la strumentalizzazione dell’allarme sanitario per la Covid-19 al fine di reprimere le iniziative dell’8 e lo sciopero del 9 marzo. Il governo, col pretesto di evitare assembramenti, ha immediatamente decretato la sospensione di tutte le manifestazioni organizzate, all’interno di un sistema di misure per il contenimento del contagio, razionalmente contraddittorie (vietate, appunto, le manifestazioni, ma consentite le aggregazioni negli esercizi commerciali), ma evidentemente coerenti con un modello di società fondato sul profitto. Per impedire lo sciopero è intervenuta invece prontamente la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali – che coinvolge molti settori lavorativi, pubblici e privati – prima con un «fermo invito» a non effettuare scioperi fino al 31 marzo, poi con una comunicazione in cui si richiamavano diverse violazioni relative ad «avvenimenti di eccezionale gravità» e finanche «calamità naturali», in seguito alla quale diverse sigle sindacali sono arrivate a revocare lo sciopero.
Da una parte la repressione del diritto di sciopero in nome dell’emergenza sanitaria, dalla parte opposta la grave ricaduta sulle lavoratrici e sui lavoratori delle misure prese – di cui è chiara la natura di classe – per contenerla: la sospensione dell’attività lavorativa senza copertura salariale; l’intensificarsi dell’attività lavorativa nella sanità pubblica e nelle imprese di pulizia e sanificazione; la scarsità di misure di sicurezza nei luoghi di lavoro o l’arbitrio aziendale nel loro utilizzo; l’aumento del lavoro di cura dovuto alla chiusura delle scuole e alla maggiore attenzione verso persone anziane o malate, più vulnerabili se soggette al virus.

Tra le misure adottate dal governo merita una particolare attenzione, in relazione all’occupazione femminile, l’utilizzo dello smart working (lavoro agile), che ha dato ampio spazio anche in questa occasione ai suoi sostenitori e che rischia di favorirne l’ulteriore consolidamento. Lo smart working, cioè una modalità di prestazione lavorativa svincolata dal luogo e dall’orario di lavoro, viene comunemente propagandato come la soluzione ideale per rispondere al principio, così definito, di “conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. Dunque una soluzione ideale per le lavoratrici, sulle cui spalle grava il peso del lavoro di cura.
In realtà si tratta di un passo indietro, perché in fondo ripropone, dietro l’uso dei nuovi mezzi informatici e comunicativi, un modello, quello del lavoro a domicilio, che precede la nascita dell’industria manifatturiera, e in cui la manodopera femminile, guarda caso, è sempre stata la più impiegata. Un modello che demolisce il concetto di orario di lavoro sostituendolo con quello di produttività, che implica il controllo a distanza e mette a rischio i parametri di sicurezza sul lavoro, ma che soprattutto cancella la dimensione sociale (e conflittuale) del lavoro, rinchiudendo le lavoratrici all’interno delle proprie case, e rendendole oppresse dal doppio lavoro, produttivo e di cura.
Al contrario, le lavoratrici non devono essere costrette a “conciliare” vita e lavoro, ma devono liberarsi del peso del lavoro di cura attraverso la sua socializzazione, un obiettivo che può essere raggiunto solo con una lotta anticapitalista e rivoluzionaria.

Solo se la lotta femminista si salda senza tentennamenti alla lotta anticapitalista è possibile ottenere questa e tutte le rivendicazioni che ogni anno facciamo, nella prospettiva di un rovesciamento totale di questa società che partorisce figli sani ma assassini. Occorre sradicare insieme patriarcato e capitalismo se vogliamo fermare i femminicidi, l’oppressione di genere e le mani di clero e fanatici sul nostro corpo e sulle nostre decisioni.

Finché nella società esisterà qualche forma di sfruttamento, la donna sarà la prima a subirla: dobbiamo eliminare ogni traccia di oppressione, dell’uomo sulla donna e del capitale su entrambi; per farlo non c’è altra strada che un programma di rivendicazioni rivoluzionario e sovversivo, che si prefigga di parlare di socializzazione del lavoro domestico, di abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali, di aborto libero e gratuito, di contraccezione gratuita e garantita, della nazionalizzazione dei servizi sociali e di un welfare che non sia sulle spalle delle donne, di erogazione massiccia di spazi e soldi alle donne che si autorganizzano.
Non ci interessa l’uguaglianza e la parità se queste sono l’uguaglianza e la parità con un maschio sfruttatore, inquinatore e assassino.
La nostra parità sarà realizzata in una società diversa, libera dal capitalismo e dal patriarcato, e quindi dallo sfruttamento di una classe sull’altra, di un gruppo etnico sull’altro, di un genere sull’altro.

Partito Comunista dei Lavoratori - commissione donne e oppressioni di genere

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