Interventi

Una recensione di Hammamet di Gianni Amelio

21 Febbraio 2020
Hammamet


Già prima dell’uscita, l’ultima fatica di Gianni Amelio si è inevitabilmente trovata all’interno di un dibattito eccedente il cinema e incentrato sulla necessità di rivalutare Bettino Craxi. Ma dal momento in cui il film è passato nei cinema, gli opinionisti a getto continuo se ne sono distaccati, perché non sono stati in grado di trovarvi materiali utili alle loro disinvolte rivisitazioni storiche.
In realtà, sulla base della pluridecennale attività del regista, non ci si poteva aspettare un film politico nel senso tradizionale e didascalico della definizione. Anche quando Amelio ha voluto comunicarci un’autentica passione civile, lo ha fatto nei modi di un cinema alieno da eccessive sottolineature, che molti hanno definito "sussurrato".
A ben vedere, poi, Hammamet conferma una precisa vocazione: quella di chi esplora strade nuove senza sbandierarlo. Si pensi a un film giustamente celebrato come Così ridevano (1998), incentrato su due fratelli siciliani trasferitisi nella Torino di fine anni ’50. Qui l’autore scardinava la narrazione classica con un ardito uso di quelle eclissi temporali che sono tratto tra i più tipici del cinema della modernità. L’equilibrio che ne veniva fuori, apparentemente precario, non portava con sé scompensi, perché sostenuto da un sottile afflato poetico. Con Hammamet si contribuisce invece alla ridefinizione del film biografico, come testimonia anzitutto quella che potrebbe sembrare una clamorosa contraddizione. Ossia, la scelta di un’aderenza totale alla fisicità di Craxi da parte di Pierfrancesco Favino, in un’opera in cui le vicende dell’ultima fase del leader del PSI sono ricostruite con notevoli infedeltà.

In molti biopic hollywoodiani (si pensi al recente Stanlio e Ollio di John S. Baird), nella ricerca della somiglianza ci si ferma molto prima. Qui, al prodigio del trucco, che nasconde totalmente le fattezze dell’attore, si aggiunge l’attentissimo lavoro di quest’ultimo sulla gestualità, la voce e le pause del parlato del noto esponente politico. Però appunto, scrivendo il film, Gianni Amelio e Alberto Taraglio hanno lavorato molto di fantasia, come vedremo anche per fedeltà ai tempi tipici del regista. Ciò non crea stridori, e per un motivo molto semplice: le persone di enorme popolarità, quando vengono restituite con la massima fedeltà fisica, non fanno che accentuare il loro lato iconico, emancipandosi ulteriormente dalla realtà.
Certo, il personaggio che abbiamo qui di fronte deriva direttamente da Craxi e dalle vicende che hanno funestato la parte finale della sua esistenza. È un uomo di potere senza più potere che ha mantenuto, nel cosiddetto “esilio” tunisino, la propria arroganza e la naturale disposizione al comando. E che continua a non ascoltare gli altri, mantenendo l’indole che, nell’incipit del film, lo ha portato ad ignorare gli avvertimenti del più fidato dei suoi compagni, Vincenzo Sartori (Giuseppe Cederna), che ha cercato di metterlo sull’attenti circa i controlli giudiziari subiti dal PSI.
Ma la rievocazione è così libera che viene definita una figura di figlia dal nome diverso da quella reale: Anita, interpretata da Livia Rossi. Un personaggio volto a richiamare uno degli aspetti essenziali della poetica di Amelio: lo scandaglio dei rapporti più intimi, attuato progressivamente, attraverso momenti in cui affiorano sotterranei palpiti. Significativa, in tal senso, è la scena in cui Anita taglia i capelli al padre, che tocca il cuore anche per la perfetta intesa tra i due attori. Su questo piano, peraltro, il film avvince e convince sempre, mentre minore è l’impatto del versante che il regista stesso ha qualificato in diverse interviste come prettamente politico.
Al fine di distanziarsene, egli si è preoccupato di realizzare la parte dei discorsi di Craxi in un formato diverso dal resto del film, usando l’escamotage di una sorta di video-intervista rilasciata a Fausto, l’instabile figlio del compagno Vincenzo Sartori. Ma a tratti questa soluzione pare quasi uno scrupolo eccessivo, perché i discorsi sul fatto che la politica non si può fare senza soldi, che la magistratura non ha punito il principale partito dell’opposizione, ecc. teoricamente potrebbero costituire una semplice appendice ad altri dialoghi del film, in cui la politica è comunque presente, seppur in termini più mediati.
Alla fine, quel che emerge nella video-intervista è sempre il Craxi che ha la sua verità e che non si dialettizza con nessuno.

Ma se Amelio, in qualche modo, si preoccupa di suggerire un distacco da alcune dichiarazioni del suo personaggio, va detto che nel film non manca la spinta al giudizio politico aperto. L’acre moralismo degli anni ’90, gli eccessi del giustizialismo di massa – indotto dai media – vengono richiamati in due momenti. Nel primo, una comitiva di turisti italiani in Tunisia riconosce il leader socialista e gli ai avvicina contestandolo con i rozzi argomenti del senso comune dell’epoca. Nel secondo, inserito nella bella sequenza del sogno del Craxi morente, Bettino incontra il padre. E insieme assistono a un esempio di avanspettacolo sui politici che rubano: un’esibizione d’infimo livello in cui si addita al pubblico un’immagine dello stesso leader socialista sofferente. In quest’abile riproduzione di uno show modello Bagaglino si ha anche una testimonianza di quanto, nel corso del tempo, il cinema di Amelio sia diventato più composito ed elaborato, dunque capace di accostare al “sussurro” nuove modalità espressive. Forse perché sempre più consapevole dei propri mezzi, l’autore si concede ogni genere di divagazione. Come quando richiama alcuni classici del cinema hollywoodiano, visti in TV dalla moglie di Craxi (Silvia Cohen). In questo caso si sfiora il vezzo cinefilo, ma magari c’è dell’altro se la musica di un melò fiammeggiante di Douglas Sirk (Secondo amore del 1952) si sovrappone all’immagine, filtrata dal vetro, del “miracolo” del protagonista che riesce a camminare bene nonostante la gamba malata.

In sostanza, per l’autore non si tratta solo di esternare le proprie ossessioni cinematografiche, ma anche di rivendicare il carattere affabulatorio della sua rievocazione. Questa scioltezza registica si traduce anche in sequenze di grande maestria: su tutte, per pienezza di senso e valore cinematografico, segnaliamo quella della spiaggia amata dal leader perché da essa si può vedere l’Italia. Un momento chiave del film, nel quale molto emerge del rapporto tra il leader e i suoi cari: la moglie, la figlia, il nipote, ma anche un piccolo miracolo tecnico-espressivo. Ammirevole non solo per la limpida luce di Tunisia catturata dal direttore della fotografia (che è poi il figlio adottivo del regista: Luan Amelio Uikaj), ma anche perché vi si dimostra quanta vita, quanto movimento possano passare in ogni singola inquadratura, anche fissa.
Accanto a queste finezze esecutive, da sottoporre all’attenzione di aspiranti cineasti, non mancano passaggi meno persuasivi, forse perché non adeguatamente pensati in sede di sceneggiatura. Parliamo in particolare del finale, col nuovo incontro in qualche modo metaforico tra Anita e Fausto, che è finito in una clinica psichiatrica. In una forma macchinosa, che non disveliamo, si suggerisce il passaggio di Anita da figlia amorosa, a tutto disposta per salvare il padre, a sua erede nel senso più profondo.
Ma anche con queste cadute non si può negare che i diversi personaggi del film siano centrati. Né si può esagerare con la nenia, da più parti sentita, sulla mancanza del quadro storico. Senza porsi il problema di proporci grandi affreschi, il film evoca il clima del tempo per varie vie e talvolta per tocchi lievi, ad esempio mediante trasmissioni della TV italiana viste ed ascoltate nel dorato rifugio di Hammamet. O in un dialogo con un esponente democristiano venuto in visita, sagacemente caratterizzato da Renato Carpentieri, che rimanda a un diverso modo di misurarsi con Mani Pulite: assieme realista e lealista (nel senso di rispettoso della forma e del decoro istituzionale).
Certo, difficilmente Hammamet potrà assumere, nel tempo, il rilievo dei film biografici del grande Francesco Rosi, che riuscivano a porsi al centro del dibattito politico come di quello estetico. Però ci pare che il film abbia una sua importanza, che forse in futuro gli verrà riconosciuta anche dagli stroncatori attuali. Perché il suo approccio inconsueto alla biografia di un uomo illustre potrebbe contribuire a liberare, almeno in parte, un genere che sempre più si sta rinchiudendo in logori schemi.

Stefano Macera

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