Interventi

I marxisti rivoluzionari e i movimenti democratici

A proposito del dibattito sulle sardine

18 Gennaio 2020
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Il rapporto del marxismo rivoluzionario con i movimenti non direttamente classisti è questione antica come il movimento operaio.

Già Marx ed Engels si occuparono in forme diverse del tema. Ad esempio criticando l'impostazione “operaista” di Lassalle, che vedeva al di là degli operai solo una indistinta massa reazionaria, sottolineando la valenza strategica del rapporto tra movimento di classe e la “guerra dei contadini” (Engels); definendo un approccio anticapitalista sul tema dell'ambiente (Il Capitale); elaborando la relazione tra rivoluzione socialista e movimento di liberazione delle donne, a partire dal riconoscimento della oppressione femminile come oppressione di genere non riducibile alla sola oppressione di classe (L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Questo già basterebbe per smentire ogni scuola teorica che nel nome del marxismo pretenda di occuparsi esclusivamente delle lotte economiche dei salariati.


LENIN E IL RIFIUTO DELL'ECONOMICISMO

Ma furono soprattutto il bolscevismo e la Terza Internazionale dei suoi anni rivoluzionari a sviluppare un approfondimento decisivo sul tema strategico dell'egemonia e della costruzione di quello che Gramsci chiamò “blocco storico” alternativo. Il concetto di egemonia non fu un'invenzione di Gramsci, ma una elaborazione di Lenin, e proprio contro ogni deformazione economicistica del marxismo. Il Che fare? in particolare – da molti ritualmente citato ma in proporzione inversa al suo studio – chiarì che il compito dei rivoluzionari non era dare un significato politico alle lotte economiche, non era accodarsi alla spontaneità di quelle lotte, ma quello di portare in ogni lotta la coscienza politica rivoluzionaria. E non solo in ogni lotta operaia, ma in ogni movimento di massa contro l'autocrazia, fosse pure il più arretrato e immaturo. Valeva per il movimento degli studenti, per il movimento dei contadini, per i movimenti delle nazionalità oppresse dallo zarismo, persino per i movimenti municipali degli zemstvo. Il problema non era separare la classe operaia e la sua avanguardia dai movimenti popolari e democratici non classisti, ma portare in ognuno di essi il punto di vista di classe e rivoluzionario, lottare in ognuno di essi per l'egemonia della classe operaia e del programma anticapitalista. È appena il caso di ricordare che la Rivoluzione di ottobre ebbe successo anche per la capacità del bolscevismo di costruire l'egemonia di classe sulla massa contadina, nel movimento delle donne, nei movimenti per l'autodeterminazione nazionale.

I primi quattro congressi dell'Internazionale comunista (1919-1922) ripresero ed elaborarono nella direzione sua propria questa tradizione del bolscevismo, sia in relazione ai movimenti di liberazione nazionali antimperialisti nei paesi coloniali e semicoloniali, sia in rapporto alla complessità della rivoluzione in Occidente. Il pensiero autentico di Gramsci (non del Gramsci reinterpretato da Togliatti) si mosse nel solco di questa impostazione leninista, come dimostrano le tesi di Lione nel 1926.

Perché questo lungo richiamo storico in premessa? Perché quel patrimonio è andato in larga misura disperso, prima per mano della socialdemocrazia e dello stalinismo, poi in varia forma dalle ideologie del riflusso. Ed oggi in particolare, il ritorno di mitologie ideologiche staliniane, sovrapponendosi ai sedimenti culturali del riflusso, tende a riproporre in alcuni ambienti di avanguardia proprio le posizioni economiciste che Lenin combatté. Manifestazioni di massa per l'ambiente? Movimento democratico delle sardine? Nel migliore dei casi sono movimenti che non si occupano della condizione operaia, e di cui dunque gli operai non si devono occupare. Nel peggiore dei casi, ma non infrequente, sono "movimenti creati dal nemico", di volta in volta individuato nella UE, o nelle multinazionali, o negli Stati Uniti, o nella globalizzazione, confondendo l'ovvio interessamento della borghesia per questi fenomeni di massa nel tentativo di lisciar loro il pelo e addomesticarli con la natura e le domande dei movimenti in questione. Da qui il rifiuto di ogni impostazione che ponga l'esigenza di un intervento di classe all'interno di quei movimenti in una logica di contrasto dell'egemonia borghese liberale e di costruzione di una egemonia di classe alternativa. Si è distinto in tutto questo Marco Rizzo (non il FGC, ad essere onesti), ma anche una galassia di sigle minori dell'arcipelago classista, che a volte mettono in un unico calderone movimenti democratici e movimenti reazionari rappresentando entrambi come “movimenti del sistema” da distinguere dai “movimenti antisistema”.


MOVIMENTI DEMOCRATICI E MOVIMENTI REAZIONARI

La distinzione tra i movimenti democratici e i movimenti reazionari è invece di importanza decisiva.

Naturalmente, non tutti i movimenti di massa sono progressivi per il solo fatto di essere di massa. Non c'è bisogno di scomodare al riguardo l'analisi del fascismo e del nazismo. È sufficiente leggere alcune dinamiche dell'ultimo decennio. La sollevazione di Piazza Maidan in Ucraina nel 2013 fu una sollevazione sicuramente di massa, dominata dalle pulsioni vandeane della campagna sotto la direzione di piazza di organizzazioni reazionarie (Svoboda) o apertamente fasciste. Le manifestazioni di massa della MUD in Venezuela contro Maduro tra il 2016 e il 2018 conobbero una vasta partecipazione popolare, ma ebbero in forma diversa una natura controrivoluzionaria. Su scala ben più ridotta, anche l'Italia ha conosciuto nel secondo dopoguerra movimenti reazionari con base di massa: dalla rivolta del “boia chi molla!” di Reggio Calabria nel 1970, direttamente guidata dai fascisti, alle manifestazioni anticomuniste della “maggioranza silenziosa” a Milano degli anni '70 a base piccolo-borghese/popolare, sino ad arrivare in anni recenti al movimento dei forconi, diretto da forze sociali piccolo-borghesi proprietarie e scalato da ambienti fascistoidi.

Se un movimento, al di là delle sue dimensioni e composizione, è dominato da una pulsione reazionaria riconoscibile è naturale che le avanguardie classiste non solo si tengano fuori da questi movimenti, ma ne denuncino la natura e cerchino di promuovere nelle forme possibili una contromobilitazione. Il fatto che vi siano al mondo e in Italia organizzazioni rivoluzionarie che hanno sostenuto questi movimenti o addirittura li hanno salutati come l'inizio della rivoluzione socialista non cambia di una virgola questa realtà. Semmai dimostra la confusione ideologica che si è fatta largo anche in ambienti insospettabili. La stessa confusione, peraltro, che si registrò a sinistra sulla natura del grillismo.


LE RIVOLUZIONI ARABE: BATTAGLIA PER L'EGEMONIA CONTRO LE DIREZIONI LIBERALI O DISERZIONE CONTRO LE RIVOLUZIONI?

Ma il cuore della discussione vera ha ruotato attorno alla posizione da assumere verso grandi movimenti di massa sospinti da pulsioni democratiche e progressive, al di là della natura delle loro direzioni. Movimenti che talvolta hanno conosciuto una radicalizzazione rivoluzionaria.

È il caso in tempi recenti delle rivoluzioni arabe, nella loro dinamica sussultoria e contraddittoria (Tunisia, Egitto, Siria, Libia nella prima ondata; Algeria, Sudan, Libano, Iraq nella seconda ondata, ancora in pieno corso). Sollevazioni popolari contro regimi dittatoriali che da molto tempo avevano disperso ogni connotazione antimperialista, per quanto distorta. Sollevazioni sospinte in primo luogo da rivendicazioni democratiche elementari, ma egemonizzate da direzioni liberali e filoimperialiste che le hanno portate alla disfatta, a volte combinandosi con l'intervento militare diretto dell'imperialismo (Libia, Siria). In questo quadro il posizionamento doveroso dei leninisti era quello di sostenere apertamente le sollevazioni democratiche e legare le rivendicazioni democratiche a una prospettiva di classe anticapitalista, in aperto contrasto con le direzioni liberali e filoimperialiste di quelle sollevazioni. Perché solo una direzione alternativa, classista e rivoluzionaria, avrebbe potuto dare una prospettiva vincente alle loro stesse aspirazioni democratiche. Invece abbiamo assistito in ambienti ideologici stalinisti ad un posizionamento opposto: l'appoggio imperialista alle direzioni liberali è stato assunto a “prova” dell'assenza di rivoluzioni, e l'inevitabile deriva controrivoluzionaria della loro parabola è stata esibita a conferma retrospettiva della propria analisi. Secondo questa teoria, le rivoluzioni o nascono “comuniste” o non sono rivoluzioni. E siccome nel mondo reale le rivoluzioni non nascono “comuniste”, al diavolo le rivoluzioni.

Secondo questa logica i bolscevichi avrebbero dovuto disertare le prime grandi manifestazioni democratiche di massa del 1905 guidate dall'ambiguo prete Georgij Gapon e dalla sua petizione allo Zar, per poi giustificare a sconfitta avvenuta la propria diserzione. Inutile dire che la politica di Lenin fu opposta: inserimento pieno e da subito nella sollevazione di massa nonostante il carattere equivoco ed ultraarretrato della sua prima leadership, e battaglia per la conquista della direzione del movimento. Peraltro la stessa Rivoluzione d'ottobre non a caso portò a compimento una rivoluzione iniziata a febbraio attorno a rivendicazioni democratiche. Il capolavoro del bolscevismo fu quello di affermare l'egemonia di classe nel vivo del movimento reale, non certo il separarsi da questo. Perché la politica dei rivoluzionari è sempre quella di entrare con entrambi i piedi in tutti i movimenti di carattere progressivo, anche i più spuri, per affermare l'egemonia del proprio programma, non quella di tenersi al di fuori per commentare il programma degli altri.


NO GLOBAL, GIROTONDI, POPOLO VIOLA... UNA DISCUSSIONE CHE HA VENT'ANNI

In Italia la discussione sul posizionamento verso movimenti democratici non direttamente classisti ha investito a più riprese il dibattito di avanguardia degli ultimi vent'anni.
Penso alla discussione sul movimento "no global" dei primissimi anni 2000, antiliberista ma non classista, egemonizzato da ambienti intellettuali piccolo-borghesi, pacifisti, umanitari, che ebbe nella Rifondazione di Bertinotti la propria sponda politica.
Penso al movimento dei cosiddetti girotondi nel 2002, antiberlusconiano e di pressione critica verso i Democratici di Sinistra (“Con questi dirigenti non vinceremo mai!”).
Penso al "popolo viola" del 2009/2011, radicalmente antiberlusconiano, che aveva in Antonio Di Pietro la principale figura di riferimento.

Verso questi movimenti – tra loro diversi ma animati da una pulsione progressiva – si manifestò ogni volta una duplice posizione: da un lato la posizione ingenuamente entusiasta di chi vedeva in essi il nuovo e l'avvenire (spesso in alternativa al “vecchio” movimento operaio), e dunque si sdraiava sulla loro spontaneità (cioè sulle loro direzioni); dall'altro la posizione di chi in ragione del carattere non classista dei movimenti se ne teneva fuori, smarcandosi in apparenza da sinistra, in realtà disertando la battaglia per l'egemonia. Il brillante risultato di queste due posizioni, nel loro combinato disposto, fu abbandonare i movimenti alle loro direzioni riformiste governiste (PRC) o liberalprogressiste (DS), o giustizialiste manettare (Italia dei Valori), direzioni che proprio in quanto borghesi li usarono prima per i propri scopi politico-elettorali e poi diedero loro il ben servito.

Non è il caso di trar lezione dall'esperienza?


IL MOVIMENTO DELLE SARDINE TRA AUTORAPPRESENTAZIONE E REALTÀ

L'attuale discussione sul movimento delle “sardine” dispone dunque di un ampio retroterra. La discussione è ampia, ed è un bene. Ma colpisce, in un vasto commentario, l'approccio idealistico al tema. Un approccio che invece di leggere e indagare la natura obiettiva di questo movimento lo confonde con la sua autorappresentazione ideologica. Che poi, come per ogni movimento, è quella espressa dalle sue leadership, strutturate o informali che siano. Da qui un curioso paradosso: proprio i liquidatori più sprezzanti delle “sardine” finiscono con l'essere gli involontari apologeti dei loro leader; nel senso di assumere comunicati, posizioni, posture di Mattia Santori e dei suoi amici come il paradigma interpretativo del movimento. Le cose sono invece assai più complicate. Lo sono per ogni dinamica di movimento, a maggior ragione per un movimento così informe e fluido come quello in questione.

Le posizioni e posture dei leader delle sardine sono chiare nella loro evanescenza. Ignorano i riferimenti di classe, e più in generale la dimensione sociale dei problemi. Sono indeterminati ed evasivi persino sul terreno delle rivendicazioni democratiche. Manifestano una evidente subalternità al PD, a una visione bipolare dello scontro politico, ad una rappresentazione liberalprogressista dell'Unione capitalistica Europea, di conseguenza all'attuale governo padronale. I legami col PD sono iscritti peraltro nella biografia professionale di Mattia Santori, a partire dalla collaborazione con istituti di ricerca di impronta prodiana. La stessa genesi emiliana del fenomeno è inseparabile anche dall'azione di supporto elettorale al centrosinistra nella partita delle elezioni regionali (kermesse a sostegno di Bonaccini) su una linea di frontiera obiettivamente strategica per il PD. L'apertura di Santori al progetto di nuovo PD non ha bisogno di interpretazioni sofisticate, né francamente ha bisogno di interpretazione l'ampia sponsorizzazione mediatica del fenomeno sardine da parte della stampa borghese liberale e dei gruppi dirigenti del centrosinistra. È naturale. I politici borghesi fanno il loro mestiere, cercano di sussumere nella propria orbita tutto ciò che si muove nella società. Perché non dovrebbero farlo nei confronti di un personale dirigente del movimento che è uscito culturalmente dalle sue scuderie, che fiancheggia elettoralmente il PD, che porta e diffonde una visione del mondo “pace e amore” estranea alla dimensione stessa del conflitto?

Tuttavia meraviglia che spesso l'analisi si concluda qui invece di partire da qui.
Perché un gruppo di amici al bar, più o meno fiancheggiatore del PD, riesce a trascinare in pochissimi giorni una presenza di piazza di centinaia di migliaia di persone, spesso giovani o giovanissimi, con una dinamica di propagazione e partecipazione infinitamente superiore a quella di ogni altra iniziativa della sinistra politica, o sindacale, o di movimento?
Pensare che tutto questo sia organizzato dal PD significa ignorare la natura stessa del PD, oltre che la sua condizione: quella di un partito liberal-borghese privo da tempo di strutture collaterali di massa capaci di ampia mobilitazione, e per di più in crisi progressiva di credibilità e di fascinazione presso la sua stessa base elettorale. Davvero c'è chi pensa che Nicola Zingaretti possa trascinare la partecipazione entusiasta e di piazza di masse di giovani? Lo stesso vale per l'Unione Europea, più volte additata in queste letture come la mano nascosta che tira le fila di tutto. Una Unione Europea del capitale finanziario dilaniata da mille contraddizioni interimperialiste, priva persino di una maggioranza parlamentare definita, da quindici anni incapace di issare una qualsivoglia bandiera popolare minimamente attrattiva, sarebbe capace di orchestrare dietro le quinte, in due settimane, una mobilitazione di centinaia di migliaia di giovani in Italia? Suvvia.

Sono interpretazioni grottesche che non reggono la prova della logica, oltre che della evidenza. A volte nascono da un retroterra culturale di destra, l'eterno fantasma del complotto pluto-giudaico-massonico vestito ogni volta di panni diversi (basta fare un giro sui social per trovarne tracce riconoscibili). A volte nascono invece da un retroterra ideologico di matrice stalinista, portato a vedere l'occulta mano del nemico in ogni movimento che non si controlla, e dal quale difendere il proprio partito; una visione poliziesca della storia che non ha nulla da spartire né con la storia reale né soprattutto con la politica rivoluzionaria. L'elemento comune è la rimozione della realtà e della fatica stessa di comprenderla.


LE DOMANDE E IL CONTESTO DEL MOVIMENTO

Vediamo allora di mettere un po' d'ordine nel ragionamento.

Il movimento delle sardine è la risultante di una domanda e di un contesto, che vanno visti nella loro relazione dialettica.

La domanda è, in primo luogo, la confusa volontà di contrapposizione alla destra reazionaria di Salvini, alla sua realtà e alla sua minaccia. Questa destra è all'opposizione in Parlamento ma è largamente egemone nel senso comune popolare, per responsabilità del centrosinistra, del PD, e delle sinistre che hanno fatto negli anni i suoi reggicoda. La sua parabola non è declinante ma ascendente, e per di più è segnata nella sua composizione interna dalla rapida crescita della sua componente estrema, di matrice fascistoide (Giorgia Meloni). Le manifestazioni delle sardine, al di là del loro rivestimento ideologico, sono un atto di rifiuto e di ribellione a questa destra e alla sua ascesa. Si può non vedere in questo elemento un fattore in sé positivo?

In secondo luogo, la volontà di contrapposizione alla destra non resta confinata nello spazio virtuale di facebook, ma invade materialmente centinaia di piazze. Di più: la ricerca della proiezione di piazza, della relazione fisica delle persone, muove proprio dal rifiuto della passività della rete, della solitudine di mille atomi dispersi e dunque privi di una volontà collettiva. In un certo senso la celebrazione della piazza come luogo di incontro e relazione è la principale espressione del movimento, la sua cifra. Se centinaia di migliaia di giovani escono dalla propria passività e per contrapporsi alla destra reazionaria, ritrovano le piazze e spesso le scoprono per la prima volta, siamo in presenza di un fatto progressivo inequivocabile.

In terzo luogo, la volontà di contrapposizione alla destra non si affida passivamente al PD, non si risolve solamente in un'indicazione di voto, si esprime anche nell'invasione di campo di un proprio diretto protagonismo. L'invasione delle piazze è anche questo. È la manifestazione in nuce di una critica del PD e del centrosinistra, dell'incapacità dei loro partiti di far da argine alla destra: da qui l'evocazione di una mobilitazione diretta capace di erigere finalmente questa barriera e segnare una svolta. Non cogliere questa contraddizione significa non solo fare un regalo al PD e al suo disegno di controllo del movimento, ma ignorare uno dei fattori propulsivi di quest'ultimo.

Questi elementi nel loro insieme rivelano una pulsione democratica come spinta dominante del movimento delle sardine. Non riconoscere questa pulsione democratica, limitandosi alla critica del manifesto ideologico di Mattia Santori, o addirittura assumere quel manifesto come prova della natura reazionaria del movimento – perché pure questo è accaduto, anche in ambienti rivoluzionari – significa rimpiazzare il metodo marxista con un metodo idealista: dedurre l'essere dalla coscienza che ha di sé, invece che indagare questa coscienza nei suoi fondamenti materiali e sociali.


LE SARDINE E LA CRISI DEL MOVIMENTO OPERAIO ITALIANO

Naturalmente, la coscienza che un movimento ha di sé è tutt'altro che un fatto secondario. L'egemonia ideologica liberal-borghese sul movimento delle sardine è anzi un fatto di massima rilevanza. Anzi, dal punto di vista di una politica rivoluzionaria è l'elemento centrale di analisi e soprattutto di battaglia politica. Ma capire le ragioni di questa egemonia, il rapporto di queste ragioni con lo scenario politico e storico generale, è decisivo proprio per impostare la battaglia.

Qui entra in gioco l'elemento del contesto. Il contesto che fa da sfondo alle sardine, influenza il loro immaginario, aiuta le rappresentazioni ideologiche dei loro leader, è la crisi profonda del movimento operaio italiano, la crisi più acuta e prolungata tra tutti i maggiori paesi capitalistici del continente; una crisi di mobilitazione, di coscienza, di rappresentanza. Non considerare questo elemento significa privarsi di una chiave di lettura decisiva.

I movimenti democratici non possono mai essere letti fuori dal riferimento alla lotta di classe e alla sua dinamica. In una fase di ascesa e radicalizzazione della lotta di classe, il movimento operaio e le sue ragioni sociali tendono ad emergere come riferimento egemone dei movimenti democratici, portandovi la propria simbologia e richiamo. I movimenti democratici degli anni '70 in Italia su divorzio, aborto, rivendicazioni di genere, antimilitarismo, antifascismo, erano attraversati in forme diverse da richiami di classe perché il movimento di classe e di massa dominava la scena politica. In una fase di arretramento del movimento operaio, tanto più se prolungato e profondo, accade invece il contrario. L'irriconoscibilità delle ragioni di classe, o il loro capovolgimento di segno nella torsione dei populismi reazionari, produce un arretramento del senso comune che lascia il segno in ogni movimento. I movimenti non sono come noi li vorremmo né come sarebbe giusto che fossero. Riflettono in varie forme il contesto oggettivo entro cui si muovono. Coloro che rimproverano alle sardine di non avere riferimenti sociali vedono l'effetto senza risalire alla causa.

Le sardine non nuotano in un mare indistinto, nuotano in un mare ricoperto di rifiuti tossici depositati nella lunga stagione del riflusso: emarginazione delle ragioni del lavoro e dei suoi diritti, rappresentazione del precariato come condizione naturale, dissoluzione ideologica delle classi in un "popolo" indistinto, polarizzazione tra europeismo e sovranismo, rigetto post-ideologico delle culture “novecentesche” (quelle a sinistra, perché a destra è un altro discorso), crollo di riconoscibilità della sinistra politica, rifiuto o diffidenza verso i partiti in quanto tali... Questo contesto prolungato di fase non impedisce il sorgere di movimenti democratici, né sminuisce la loro importanza, anzi in un certo senso l'accresce. Ma sicuramente non può non influire sui caratteri di questi movimenti, sul loro immaginario, vocabolario, simbologia. Così è stato in parte per i movimenti democratici di avanguardia della precedente stagione antisalviniana (movimenti antirazzisti, femministi, antifascisti), così è in particolare per il movimento delle sardine, sicuramente il più arretrato nella sua coscienza tra i movimenti democratici degli anni recenti, e tuttavia non casualmente il più ampio come bacino di massa, dunque il più esposto per le sue stesse dimensioni alla pressione negativa della situazione generale.

Il movimento esprime la contrapposizione alla destra col vocabolario che trova sul mercato corrente, con tutte le confusioni ed aporie: "Bella ciao" assieme all'inno di Mameli, generico civismo contro xenofobia, bandiera europea contro sovranismo, rifiuto delle bandiere di partito a difesa della propria unità, non riconoscibilità della bandiera rossa in quanto “bandiera di parte”. L'egemonia liberale nel movimento delle sardine si nutre di questi ingredienti, a loro volta portato dell'arretramento di classe. Mattia Santori è, se vogliamo, lo specchio antropologico di tutto questo. Il PD fa leva su questa egemonia per ridurre le sardine a terreno di pascolo elettorale, a partire dall'Emilia. La proposta di Nicola Zingaretti mira esplicitamente a incorporare il movimento al PD. L'apertura di Santori a Zingaretti, e l'annunciata scadenza paracongressuale del movimento, porranno il rapporto col PD come tema centrale di confronto.


COMBATTERE L'EGEMONIA DEL PD. L'ESEMPIO DI PIAZZA SAN GIOVANNI A ROMA

Ma se il PD fa leva sugli elementi di arretratezza del movimento e sulle ambizioni dei suoi dirigenti, i rivoluzionari debbono far leva sulla sua pulsione democratica per contrastare l'egemonia del PD, perché pulsione democratica ed egemonia del PD misurano una contraddizione. Si può non vederlo?

Roma, 14 dicembre, Piazza San Giovanni. In una piazza di 40000 sardine pigiate, tra molti “Bella ciao” e uno sgradevole inno di Mameli, Mattia Santori legge il proprio decalogo all'insegna del bon ton istituzionale contro i “toni gridati” di Salvini. Il nulla. Ma non può non toccare il tema migranti, centrale nel sentimento democratico della piazza. «Modificare i decreti sicurezza» esclama cercando l'applauso. Ma in un frammento di secondo la piazza plaudente lo interrompe gridando in coro: «Cancellare, non modificare!». L'urlo inaspettato costringe Santori alla rettifica istantanea: «Va be', cancellare... d'accordo». Ecco, nella cruna dell'ago di questo piccolo episodio di cronaca si esprime un fatto politico di fondo: la contraddizione plateale tra la pulsione democratica del movimento e la politica del PD, tra la rivendicazione democratica più elementare – la cancellazione delle misure odiose di Salvini – e una politica che le preserva.

È una contraddizione oggettiva e soggettiva al tempo stesso.
Una contraddizione oggettiva, perché il PD non vuole e non può cancellare i decreti sicurezza, al di là di operazioni maquillage. Perché il PD è anche l'eredità di Minniti che il M5S custodisce e blinda. La conferenza stampa del Presidente del Consiglio il 28 dicembre è stata peraltro inequivoca: i decreti sicurezza rimangono.
Ma è anche una contraddizione soggettiva: nonostante l'arretratezza profonda della coscienza politica del movimento, la sua sensibilità democratica urta con la politica liberale e reazionaria del PD. E pone problemi alla leadership. L'episodio di Piazza San Giovanni è rivelatore, come lo sono i risvolti del giorno successivo, nell'incontro dei 150 “coordinatori” locali, dove il problema della democrazia del movimento contro la centralizzazione bolognese non è solo un problema di democrazia, è l'espressione della diffidenza verso il PD, e verso una leadership subalterna al PD. Si tratta allora di entrare in questa contraddizione con una politica attiva, che costruisca coscienza: se vuoi contrapporti a Salvini devi opporti a un governo che difende le sue peggiori misure. Punto. Piazza San Giovanni ha dimostrato che questa contraddizione può essere terreno di battaglia all'interno delle piazze stesse. Se un gruppo di cinquanta "sardine nere" animato da Potere al Popolo (assieme ai compagni e compagne di Città Futura, Sinistra Anticapitalista, PCL) ha fatto da detonatore del pronunciamento di piazza sui decreti sicurezza, quale effetto potrebbe produrre un intervento concentrato, diffuso, metodico, in tante piazze di tutte le organizzazioni di classe?


PORTARE TRA I GIOVANI IL RIFERIMENTO DI CLASSE

Peraltro, non c'è solo la questione democratica. Anche nel più arretrato dei movimenti democratici con base di massa non può non affacciarsi, in forme diverse, la questione sociale.

La leadership del movimento riflette una composizione piccolo-borghese, relativamente benestante, di elevata scolarizzazione, priva in apparenza di preoccupazioni sociali rilevanti. Ma lo spaccato di gioventù che popola le piazze è fatto anche di giovani precari supersfruttati, di studenti che non reggono il caro affitti, di lavoratori condannati ad una faticosa sopravvivenza dalla realtà quotidiana del capitalismo e dalla sua crisi. Le leggi votate dal PD, e ciclicamente dalla sinistra cosiddetta radicale, hanno scolpito la vita di questa massa di giovani, ne siano essi coscienti o meno (a partire dal pacchetto Treu del 1997). Introdurre in quelle piazze la questione sociale è anche sviluppare la loro coscienza politica. La stessa domanda democratica va ricondotta, col linguaggio dovuto, ad una prospettiva di classe anticapitalista. “Siamo tutti uniti contro Salvini. Ma chi ha regalato alla demagogia reazionaria di Salvini il consenso di milioni di operai, se non le politiche del PD e della sinistra che si è prostrata ai suoi piedi? Non è possibile far argine a Salvini senza rompere col PD e le sue politiche”. Questa verità elementare nuota oggi controcorrente rispetto alla coscienza arretrata della maggioranza del movimento, ma una minoranza può comprenderla e farla propria. Conquistare quella minoranza, piccola o grande che sia, e avvicinarla al movimento operaio, è parte della battaglia per una egemonia alternativa nella gioventù.

I movimenti non sono mai una realtà uniforme, sono sempre una realtà stratificata. Non solo in termini sociali, ma anche in termini di coscienza, radicalità, disponibilità alla lotta. L'interrogativo retorico se sarà possibile o meno egemonizzare un movimento di giovani così moderato è obiettivamente mal posto. Ogni previsione non solo è impossibile ma rimuove il problema. Il problema è quale politica le avanguardie di classe debbono sviluppare tra i giovani e nei loro movimenti. Se si persegue realmente una prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria reale, e non la custodia conservativa del proprio orticello, occorre muoversi sempre in una logica maggioritaria, cioè nella logica della conquista della massa. È una questione di metodo, non di previsione. E la conquista della massa muove sempre dalla conquista dell'avanguardia. Puntare a conquistare l'avanguardia è anche puntare a conquistare la parte più avanzata dei movimenti democratici come il movimento delle sardine, non abbandonandolo al PD e/o a Mattia Santori ma lavorando ad una egemonia alternativa.

Non ci interessa il futuro delle “sardine” in quanto tali (probabilmente destinate alla dissoluzione come ogni bolla democratica di movimento), ci interessa il futuro di una prospettiva anticapitalista. E dunque la conquista ad una prospettiva anticapitalista di ciò che si muove nella società e nei movimenti da un versante progressivo. L'esatto opposto di quel che fa la borghesia.


INTERVENTO NELLA CLASSE E NEI MOVIMENTI DEMOCRATICI, LA CONQUISTA DELLA GIOVENTÙ, LA COSTRUZIONE DELL'ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONRIA

“Dedichiamoci al coordinamento unitario delle sinistre di opposizione piuttosto che alle sardine” si sente in diversi commenti. Ma perché mettere in contraddizione compiti diversi e complementari dell'avanguardia?

Il coordinamento delle sinistre di opposizione attorno a campagne unitarie classiste è un terreno importante di impegno del nostro partito, che ha dato e dà un contributo decisivo in questa direzione, perché la classe lavoratrice è e resta il soggetto centrale di una prospettiva rivoluzionaria capace di successo – contro tutte le tesi disfattiste che sono circolate negli ultimi trent'anni – e perché solo una ripresa di lotta della classe lavoratrice potrà aprire uno scenario politico e culturale nuovo capace di riverberarsi sul senso comune maggioritario della società, e dunque su ogni dinamica di movimento. E tuttavia per quale ragione un fronte di unità d'azione sul terreno dell'opposizione di classe non dovrebbe porsi il compito di intervenire anche su movimenti democratici che di classe non sono per costruire egemonia alternativa? Peraltro una delle campagne promosse dalla assemblea nazionale del 7 dicembre rivendica l'abolizione dei decreti sicurezza. Perché non investire questa campagna anche in un movimento che formalmente avanza la medesima richiesta, salvo subordinarsi alle pressioni del PD?

La questione va posta inoltre anche da un altro lato.

Non tutto si riduce alla ripresa del movimento di massa della classe, a differenza di quanto pensano i cultori dei movimentismo. La questione cruciale in ultima analisi è sempre quella della direzione politica dei movimenti. Il biennio rosso, la sollevazione partigiana, la grande ascesa del 1969/'76, furono tutti grandi movimenti di classe e di massa, capaci di polarizzare spontaneamente blocchi sociali alternativi più o meno estesi. Ma furono dispersi ogni volta dalle loro direzioni maggioritarie: dall'intesa tra CGL e Giolitti, dall'unità nazionale tra Togliatti e De Gasperi, dal compromesso storico tra Berlinguer e Andreotti. Ogni volta l'assenza di una egemonia alternativa fu la tomba dei movimenti di massa.

A sua volta la costruzione di una direzione alternativa passa per la selezione che si compie nell'avanguardia prima della svolta di massa, perché poi è troppo tardi. Una selezione che è innanzitutto la formazione di avanguardie politiche complessive capaci di padroneggiare l'intera tastiera della politica rivoluzionaria, che comprende anche la capacità di relazione con tutti i temi e le istanze poste da movimenti non direttamente classisti. Movimenti a volte di portata strategica per una prospettiva di rivoluzione, come il movimento di liberazione della donna e il movimento contro la devastazione ambientale, ma anche movimenti, più o meno arretrati, di carattere democratico. Gli uni e gli altri, guarda caso, movimenti oggi prevalentemente di giovani.

Conquistare l'avanguardia della gioventù, sviluppare la sua coscienza, formare i suoi elementi migliori è lavorare non solo per una direzione alternativa dei movimenti giovanili, ma anche indirettamente per una direzione alternativa della classe. La storia dei partiti rivoluzionari di classe è spesso passata per un'accumulazione preventiva tra le file dei giovani, in particolare studenti. Fu così per i rivoluzionari russi, che polarizzarono a fine Ottocento migliaia di giovani intellettuali e studenti provenienti dalla vecchia tradizione populista, che si avvicinarono alla classe e al marxismo. La stessa estrema sinistra (centrista) dei primi anni '70 in Italia si costruì innanzitutto sulla giovane generazione studentesca del '68, che fu centrale per la sua proiezione nella classe. Ciò che allora mancò fu un'organizzazione marxista rivoluzionaria capace di dare a quei giovani i necessari strumenti teorici, politici, programmatici della politica rivoluzionaria, con un effetto di inevitabile dispersione di un enorme patrimonio di energie nei mille rivoli dello spontaneismo e del neostalinismo (maoismo).

Costruire l'organizzazione marxista rivoluzionaria d'avanguardia tra i lavoratori e i giovani è l'obiettivo centrale del PCL. Per questo vogliamo intervenire su ogni movimento progressivo dei giovani, fosse pure il movimento delle sardine, evitando la sua celebrazione – tipica di chi vede ogni volta in ciò che si muove il nuovo treno della storia – come anche la postura settaria di chi si tiene fuori dalla mischia perché non è di suo gradimento.

Sempre che il problema sia di trasformare il mondo, non di commentarlo. Che certo è infinitamente più semplice.

Marco Ferrando

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