Prima pagina

Libertà di stampa in Italia: il monopolio del capitale

14 Dicembre 2019
agnelli_Repubblica


La notizia è del 30 novembre: John Elkann ha "scalato" il gruppo Gedi. La CIR Group spa (Compagnie Industriali Riunite), holding della famiglia De Benedetti, aveva confermato: «Ci sono in corso discussioni con Exor [la holding lussemburghese degli Agnelli-Elkann] per una possibile operazione di riassetto»; oppure, come ha scritto La Repubblica, quotidiano di punta del gruppo, «la holding CIR è in trattativa con Exor per vendere la quota di controllo di Gedi». Senza contare il fatto che John Elkann è già vicepresidente del gruppo.
Le vicende familiari di due lignaggi del tutto rilevanti del capitalismo italiano si riflettono sulle sorti dell’informazione nazionale.
L'interlocuzione tra le parti è cominciata, a quanto pare, a causa di litigi familiari dei De Benedetti. Secondo la ricostruzione del Messaggero, oltre al tentativo di scalata degli Agnelli-Elkann ci sarebbe anche l’interesse di più parti, come il fondo Peninsula di Luca Cordero di Montezemolo e Flavio Cattaneo, così come del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré, a cui si rimanda all’articolo del 2017 di Marta Gatti pubblicato sulla rivista Nigrizia.


GIGANTE GEDI: TRE QUOTIDIANI E UN CROGIOLO DI TESTATE

Numeri e nomi a parte, il Gruppo Gedi ed Exor hanno per diverso tempo rispettivamente confermato il reciproco interesse nella fase di interlocuzione in atto. Già prima della scalata della Giovanni Agnelli BV, questa era azionista per il 6,9% di Gedi. Al momento, come riportato da Repubblica in un articolo del 29 novembre, il capitale ordinario della società era così suddiviso: «Cir 43,78% (pari al 45,753% della quota sul capitale volante), Exor 5,992% (pari al 6,262 della quota volante)».
Il gruppo editoriale in oggetto, tuttavia, non è solo «Repubblica», «La Stampa» e «Il Secolo XIX», che di per sé rappresenterebbe una fetta imponente dell’informazione, o come si è soliti dire in questi decenni disgraziati, del “mercato dell’informazione”. Rappresenta, tuttavia, anche una porzione imponente del flusso di notizie (senza calcolare tutti gli inserti dei quotidiani prima citati) che passano attraverso i giornali e periodici a diffusione nazionale e a pubblicazione settimanale, mensile o bimestrale, quali: «Il Tirreno», «Il messaggero» (Udine), «Il Piccolo» (Trieste) , «La Provincia» (Pavia), «Il Mattino» (Padova), «La Gazzetta di Mantova», «La Nuova Ferrara,», «La Nuova Venezia», «Il Corriere delle Alpi» (Belluno), «La Sentinella» (Ivrea), «La Tribuna» di Treviso, «La gazzetta di Modena», la «Gazzetta di Reggio» (Reggio Emilia)»; «L’Espresso», «National Geographic», «Mind», «Limes» «Le Scienze», «MicroMega», «Travellers» passando per le testate nazionali digitali come «Huffington Post Italia», «Mashable Italia», «Business Insider» e il portale «Kataweb», senza contare le emittenti radiofoniche (Deejay, Capital, m2O). Un impero dell’informazione che può vantare 648,7 milioni di euro di ricavi.


RCS: L'OCCHIO DEL CAIRO

Andando ad esaminare gli azionisti di un altro colosso dell’informazione italiana, che da anni si contende il primato con Gedi, notiamo che l’azionista di maggioranza è Urbano Cairo col 59,831%, seguito da Mediobanca e da Diego Della Valle (rispettivamente aventi il 9,930% e il 7,624%), non meno importanti gli ultimi due azionisti: Unipol (4,891%) e la China National Chemical Corporation (4,732%).
Il gruppo Rcs, tuttavia, rappresenta anche un colosso transnazionale, detenendo «El Mundo», «Expansiòn» e «Marca», così come gestendo le seguenti pubblicazioni quotidiane a diffusione nazionale e digitale: «Corriere della Sera» (con relativi inserti «Economia», «La Lettura», «Corriere Salute», «Corriere Innovazione» e la Tv Corriere Tv), «Diritti e risposte», «La Gazzetta dello Sport», «Buone notizie», «Il rumore della memoria» e il portale di Milena Gabanelli «Dataroom».
Le testate locali che fanno capo al gruppo sono: «Corriere di Bergamo», «Corriere di Bologna», «Corriere di Brescia», «Corriere Fiorentino», «Corriere Milano», «Corriere Roma», «Corriere del Mezzogiorno», «Corriere Torino», «Corriere Veneto» senza contare i periodici cartacei e digitali (1).
Ultimo dato importante, l’apertura della casa editrice Solferino, parte del gruppo stesso, ça va sans dire.

Se ci limitassimo a prendere in esame solamente i casi più grandi dei gruppi industriali legati all’informazione, ci si renderebbe presto conto che la libertà d’informazione è del tutto legata al profitto e ad interessi che tutto concernono tranne quello che dovrebbe guidare un quotidiano o un periodico. Fornire, cioè, una lettura di quel che accade, dare una propria interpretazione sui fatti, fornire la base per la formazione di una propria opinione in lettori che non sempre sono “addetti ai lavori” di quel che accade nelle stanze della politica o dei retroscena legati a questo o quel personaggio politico, e avviare un dibattito che sia il più aperto e scevro dalle posizioni da “tifoseria” di questi ultimi venti/trent’anni.

La funzione della carta stampata è, nel corso degli anni, diventata del tutto altra rispetto a come la si intendeva negli anni ’80 o ’90, o come poteva essere quella di partito, quando questi non erano semplicemente dei comitati elettorali permanenti e attenti solo alla mediaticità del piatto di pasta mangiato dal leader su Instagram o della foto con il tenero asinello postata su Facebook.
Di fronte alla volontà di soppressione del finanziamento pubblico all’editoria, che certamente ha generato casi tutt’altro che onorevoli riguardo al suo utilizzo, l’informazione dell’Italia del 2000 rappresenta il prodotto della transnazionalizzazione delle imprese che traggono profitto dall’informazione e che gestiscono quotidiani e periodici in base all’utile che ne ricavano.
I giornali diventano, così, delle veline che molto spesso riempiono le proprie pagine di retroscena e di interviste ben calibrate a personaggi in cerca di ribalta, o che devono porre in essere il proprio pensiero in articoli che spesso non arrivano al concetto e si limitano a rimanere sulla superficie delle cose.
Il pensiero diventa unico, ed è quello del capitalismo e dei suoi alfieri. Con buona pace di Giorgia Meloni, che ritiene come il pensiero unico sia quello LGBT. Il quotidiano resta un vettore di notizie, le quali debbono, necessariamente, possedere "notiziabilità", altrimenti non presentano alcun margine di interesse da parte di chi la pubblica. E se non possiede interesse (leggi: possibile ritorno di profitto) per chi la pubblica, automaticamente non è da proporre al lettore.

L’interesse delle aziende transnazionali ad avere un proprio gruppo editoriale sta nel fatto che, più o meno, i maggiori gruppi industriali di ogni paese hanno un legame con il mondo dell’informazione: la compenetrazione tra aziende, holding, banche, società assicurative e quant’altro, rende estremamente complicato il districarsi del lettore tra le pagine dei giornali e tra le notizie proposte: discernere la veridicità dei fatti con quanto accaduto nella realtà (vedi Arthur Schopenhauer, “Velo di Maya” e affini), formarsi un’opinione che non sia già nell’alveo di quelle già pre-confezionate dai quotidiani nazionali (e anche locali, come abbiamo visto) è molto complicato, per non dire impossibile.

L’interconnessione degli interessi dei gruppi industriali nel creare profitto là dove ci dovrebbe essere un interesse pubblico sovrasta qualsiasi buona intenzione, di cui la strada del capitalismo (non già del proverbiale inferno) è lastricatissima: le grandi acquisizioni da parte di aziende transnazionali o holdings rappresentano il volto più spietato della distorsione delle coscienze nel nostro paese. Non più formazione, bensì aprioristica distorsione.
A questo si affiancherebbe il dibattito relativo al ruolo del giornalista, stante la situazione attuale, ma questa è un’altra storia.



(1) http://www.rcsmediagroup.it/pagine/brands/#i-periodici

Marco Piccinelli

CONDIVIDI

FONTE