Interventi

Il movimento delle sardine, la destra reazionaria, la classe e noi

24 Novembre 2019
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In queste settimane abbiamo visto un nuovo movimento riempire le piazze, a partire dall’Emilia Romagna. Migliaia di persone, spesso giovani e giovanissimi, hanno iniziato a mobilitarsi contro Salvini e le politiche reazionarie da lui impersonate. Si è cioè finalmente alzato nuovamente un soffio di vento che prova a spezzare quella cappa di passività che sta segnando questo paese.

La scorsa primavera si era già alzato un vento simile. Basti pensare allo scorso marzo: "People", la grande dimostrazione di Milano in difesa dei diritti dei migranti; i cortei dell’8 marzo; la manifestazione di Verona contro l’integralismo familistico; i tanti lenzuoli sui balconi contro Salvini. Sono state mobilitazioni importanti, nel momento in cui tracimava senza nessun apparente freno sociale il protagonismo autoritario del ministro dell’interno, si imponeva un senso comune di massa reazionario sul terreno dei profughi e dei migranti, cresceva il consenso leghista nel paese.

Un vento, però, contraddittorio. Infatti, se da una parte queste mobilitazioni hanno rappresentato un’occasione importante di resistenza, dall’altra si sono poste in continuità con l’involuzione di classe di questi anni. In queste mobilitazioni infatti si è spesso imposta una cifra moltitudinaria: costruite su eventi e una simbologia generica; focalizzate talvolta su un personaggio di grande evidenza pubblica o a contrario su ristretti gruppi promotori anonimi; segnate dall’annegamento di ogni caratterizzazione programmatica nella moltiplicazione di tavoli, piattaforme e rivendicazioni; volte in particolare alla valorizzazione di ampie alleanze negli appuntamenti e nelle iniziative. Di fatto, cioè, si sono caratterizzate come fronti popolari di massa, coinvolgendo trasversalmente diversi soggetti e blocchi sociali: studenti, lavoratori e lavoratrici, piccola e media borghesia, talvolta anche frazioni delle stesse classi dominanti. Più che un popolo di sinistra, con un determinato riferimento sociale per quanto generico e ancora in testa vaghe idee di socialismo, un popolo dei diritti progressista che difende le libertà individuali e collettive, prescindendo però da ogni dimensione di classe e da ogni pur vaga propensione di cambiamento del modo di produzione vigente.

Questi movimenti rappresentano una contraddizione per chi, da un versante classista e rivoluzionario, vuole abolire lo stato di cose esistenti. Non solo, e soprattutto non tanto, per la tendenza di questi anni a osteggiare i soggetti organizzati, rifiutare ogni appartenenza politica esplicita, vietare simboli e bandiere di partito nelle dimostrazioni. Quanto, più strutturalmente, per la fluidità organizzativa e programmatica che spesso li contraddistingue, che in fondo occulta la tendenza a negare le diverse partigianità della dialettica sociale. E quindi ogni conflitto di classe. Nella rappresentazione cioè del popolo e dell’élite, dei cittadini e della casta, delle persone e dei politici, si evita infatti di prendere in considerazione i diversi interessi che attraversano la società. Si evita cioè di riconoscere la differenza tra classi dominanti e classe subalterne e, in primo luogo, la diretta contrapposizione tra interessi del lavoro e interessi del capitale. Una negazione che si esprime non solo nei simboli e nelle rappresentazioni (che sono comunque parte fondante delle forme di mobilitazione dell’oggi e, in fondo, non solo dell’oggi), ma anche nelle rivendicazioni e quindi nel segno politico complessivo di queste mobilitazioni.

Differenze e partigianità di classe non sono però scomparse, ma anzi agiscono prepotentemente proprio nel tessuto sociale dei nostri tempi. L’innesco nel 2007/08 di una di quelle periodiche grandi crisi che contraddistinguono il modo di produzione capitalista ha amplificato ovunque differenze e disuguaglianze. In una dinamica ineguale e combinata si sono quindi acuiti i conflitti imperialistici e, nei paesi a capitalismo avanzato come nelle periferie, si sono diffusi processi di impoverimento, precarizzazione e ampia disoccupazione. Processi sospinti non solo dai picchi di depressione e dalla lunga stagnazione economica, ma anche da una gestione capitalistica della crisi che ha tentato di rilanciare il ciclo con gradi iniezioni finanziarie (gli interventi delle banche centrali, perpetuando così politiche di austerità) e continue ristrutturazioni che stanno incrementando lo sfruttamento del lavoro. Le disparità sono quindi diventate sempre più salienti, e nelle classi subordinate si sono ampiamente diffusi sentimenti di insicurezza, fatica, paura e rabbia. Questa rinnovata differenziazione sociale, però, non si esprime sul terreno del conflitto, dello sviluppo della coscienza collettiva, della costruzione di un’autonoma rappresentanza della classe. Non lo ha fatto a causa dei processi di disorganizzazione del lavoro e delle conseguenti sconfitte di quest’ultimo decennio, come (e forse soprattutto) per le responsabilità di una sinistra e di una direzione confederale che ha testardamente cercato l’alleanza con settori delle classi dominanti (sul terreno delle esperienze di governo come su quello degli accordi sindacali). E così questo rinnovato divario di classe si esprime soprattutto sul versante dell’avversione verso le élite cosmopolite, la difesa dalla comunità, l’identificazione col proprio territorio, la discriminazione verso gli stranieri. In maniera immediata e confusa, spesso al seguito di culture e movimenti sociali della piccola e media borghesia colpita da questa stessa Grande Crisi. Questo rinnovato divario di classe gonfia cioè il consenso a soggetti e movimenti politici di stampo reazionario.

Quel vento di primavera è stato allora seguito dal gelo delle elezioni europee. Le mobilitazioni di marzo e di maggio non hanno infatti intaccato il consenso reazionario, soprattutto perché non hanno interpretato e dato voce a questa faglia di classe. Proprio la moltitudinarietà di quelle manifestazioni, la loro trasversalità e fluidità sociale, sono stati incapaci di cogliere e accogliere le insicurezze delle classi subalterne, di penetrare nelle loro rappresentazioni sociali e quindi di contrastarne il senso comune dominante. Lo si è visto in particolare nelle periferie, nei sobborghi e nella metropoli dispersa che caratterizza la provincia italiana. Lo si è visto nel voto, con il consenso di Lega e Fratelli d’Italia che cresce proprio nelle classi subalterne. Alle europee come in tante amministrazioni locali, a partire da storiche roccaforti che dal dopoguerra non avevano mai conosciuto giunte di centrodestra (da Piombino a Ferrara). Un consenso non a caso confermato, contro le attese di molti, anche nei risultati dell’autunno (nonostante l’alleanza elettorale tra PD, Cinque stelle e settori di sinistra; nonostante la perdita di slancio di Salvini e del salvinismo per la disastrosa conduzione della crisi politica estiva). Non sono però solo le urne a segnalarlo. È stato il silenzio ed i mugugni con cui le assemblee di lavoratori e lavoratrici accoglievano le critiche al governo giallo-blu (così evidenti durante il congresso della CGIL), come la difficoltà a coinvolgerli nelle mobilitazioni (evidente tanto sul versante della solidarietà ai migranti quanto al corteo nazionale del 9 febbraio CGIL-CISL-UIL, segnato più dal quadro attivo del sindacato che dall’avanguardia larga nei luoghi di lavoro). È stato il consenso che quello stesso governo giallo-blu aveva raggiunto, e ancora aveva nel corso dell’estate, mentre esplodeva la sua crisi politica, proprio nelle fabbriche e nella classe operaia centrale, anche in realtà combattive e di avanguardia, persino tra molti delegati e attivisti sindacali (non solo confederali, ma anche di base). Lo segnala, cioè, la forza e la penetrazione di quel senso comune reazionario anche nelle cosiddette aree rosse, negli insediamenti operai e nei quartieri popolari.

In un quadro politico molto diverso dalla primavera, un movimento molto diverso da quelli della primavera riattiva oggi questa dinamica contraddittoria, democratica e moltitudinaria.
Le piazze infatti si riempiono contro Salvini, quando Salvini... è all’opposizione: da più di due mesi governa il paese una nuova maggioranza e un nuovo esecutivo, sebbene guidato dallo stesso Presidente del Consiglio (in sé, un inedito politico). Un governo composto da M5S, PD, il nuovo partito di Renzi e una parte della sinistra (LeU). Un esecutivo della speranza, nato sotto il segno della rottura con Salvini (il discorso parlamentare di Conte) e della richiesta di discontinuità (in particolare da parte del PD e della sinistra). Un governo che però si è rapidamente rivelato fragile, confuso e rissoso. Soprattutto, un governo ben diverso dalle speranze suscitate alla sua nascita. Partorito in realtà sotto l’egida delle forze europeiste e delle classi dirigenti continentali, ha subito impostato una legge di bilancio di semplice continuità con le politiche neoliberiste (nessun investimento nella spesa sociale, elusione dell’aumento dell’IVA con tagli alla spesa pubblica e altre tasse, salvaguardia dei liberi professionisti e dell’impresa, un ridottissimo taglio al cuneo fiscale). Non ha cambiato una sola norma del precedente governo giallo-blu (neanche i famigerati decreti sicurezza contro cui si scagliavano le mobilitazioni primaverili), e quando ne ha cambiato gli impegni, come sul precariato della scuola, lo ha fatto contro il lavoro. Ha confermato la politica criminale libica (criminale nel verso senso della parola, sostenendo e appoggiandosi su bande criminali e milizie contro profughi e migranti, senza preoccuparsi della repressione, delle torture, dei campi di concentramento). Sull’Ilva, come sull’Alitalia, non vuole uscire dalla logica del primato dell’impresa (privata), schiacciandosi sugli interessi del padronato e quindi incapace non solo di impostare qualunque logica di nazionalizzazione, ma anche solo di affrontare una qualunque politica industriale.

Contro questo governo, quel che rimane della sinistra politica ha fatto fatica ad attivarsi. Anche solo a prendere una posizione. Se alcune forze lo sostengono apertamente, ed anzi sono organicamente parte dell’esecutivo (da Articolo Uno a Sinistra Italiana), altre ne hanno salutato la nascita contro le destre ed ancora oggi ne valutano positivamente la formazione, in funzione di loro argine (da larga parte del gruppo dirigente della CGIL a larga parte di quello del PRC). Non è solo un problema di semplice collocazione politica, è anche un problema di radicalità e chiarezza programmatica: ancora oggi, quando Revelli scrive sul Manifesto, lo fa per chiedere una nazionalizzazione temporanea dell’Ilva, finalizzata a «un grande piano di bonifica e recupero, per poi, solo a quel punto, ridotto nella condizione di non nuocere, restituirlo al mercato a un giusto prezzo» (cioè, nazionalizzare le perdite per poi privatizzare i profitti: sarebbe questa la sinistra?). In questo quadro, larga parte della sinistra diffusa (le migliaia di quadri, militanti e attivisti delle organizzazioni sociali e politiche articolate nei territori), attende gli eventi sbigottita, paralizzata dalla paura di Salvini come un gattino ipnotizzato dalla luce dei fari. È quindi importante l’assemblea unitaria delle sinistre di opposizione, per unire le lotte contro il governo padronale e le destre reazionarie, convocata a Roma il prossimo 7 dicembre da PCL, PCI e SA, e che sta raccogliendo importanti adesioni (da Potere al Popolo alla partecipazione, con un proprio ragionamento, dello stesso PRC). Importante, perché nello sbigottimento e nella paralisi diffusa, ha finalmente dato un segnale di reazione, permettendo alle organizzazioni politiche di provare a riaggregare un’opposizione politica e sociale alla deriva in corso. Un segnale importante, ma che appare ancora limitato: indicativa la mancanza di protagonismo e partecipazione in questo percorso dei soggetti sindacali e delle esperienze di lotta di questo periodo; indicativa la divisione e la distanza dalle piazze emiliane.
Le sardine infatti si presentano oggi in piazza senza nessuna posizione, iniziativa o opinione nei confronti di questo governo e della sua azione. Di più. Rispetto alle mobilitazioni della scorsa primavera, anche il loro profilo contro la destra reazionaria appare molto più fluido e generico. Sebbene esplicitamente nate contro Salvini (in occasione e in contrasto con i suoi comizi, a partire da quello a Bologna al PalaDozza), è assente nelle loro rivendicazioni, nella loro rappresentazione e nella loro comunicazione il contrasto netto ai decreti sicurezza, alle politiche reazionarie contro la famiglia, all’autoritarismo salviniano che dominava le piazze del marzo scorso. Le sardine si configurano infatti in termini molto più generici e sfumati: «Cari populisti [!!??], Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi [noi chi? mah]… Siamo un popolo di persone normali [!!], di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto». Più che un nuovo movimento democratico, sono temi e toni di una nuova maggioranza silenziosa che prende voce contro ogni conflitto sociale. La voce benpensante di chi richiama lo smussamento delle polarizzazioni politiche, occultando che queste polarizzazioni politiche sono diretta conseguenza della divaricazione delle condizioni sociali.

Questa divaricazione tra l’assemblea del 7 dicembre e le piazze delle sardine salta agli occhi. Non credo si possa risolvere, o anche solo affrontare, pensando di portare il 7 dicembre nelle piazze emiliane [e in quelle del resto del paese che si stanno sviluppando su questa impostazione]. Non credo cioè che il problema della dinamica politica di questo movimento democratico fluido e interclassista si possa risolvere semplicemente sviluppando un intervento, una propaganda ed una demarcazione rivoluzionaria in quelle piazze.

Più che stare in quelle piazze, bisogna infatti proporsi di cambiare quelle piazze. Il punto non è quello di osteggiare o contrastare queste mobilitazioni. Non bisogna negare quel vento che si è alzato, che per quanto debole e contraddittorio può comunque contribuire a rompere la cappa di passività che ancora perdura sul paese. Anzi. Il punto è che in quelle piazze manca il lavoro. Mancano i suoi interessi, le sue rivendicazioni e le sue identità. Allora la priorità oggi non è quella di portare in quelle piazze qualche bandiera e qualche volantino del PCL, di portare in quelle mobilitazioni le parole ed il programma anticapitalista e rivoluzionario (distinto e distante non solo dalle impostazioni proposte, ma anche dalla stessa composizione sociale di quelle piazze). La priorità è quella di introdurre in quelle piazze una polarizzazione ed una faglia di classe: portare in quelle mobilitazioni, contro la destra reazionaria ed a difesa dei diritti di tutti, gli operai, i lavoratori e le lavoratrici, il frammentato mondo del precariato. Portare gli operai dell’Ilva e quelli della Continental di Pisa, gli addetti di Alitalia, i precari della scuola ed i riders; i cassaintegrati di Piombino e gli operatori dei call center sempre sulla soglia del licenziamento.

La priorità allora non è tanto quella di portare le bandiere o i simboli di partito, ma quella di portare gli striscioni delle RSU, delle fabbriche, dei grandi magazzini, della logistica. Portare in quelle piazze e in quel movimento cartelli e rivendicazioni contro il precariato, il Jobs act, il part time obbligatorio, i salari di fame, l’aumento dei ritmi e degli orari di lavoro, il taglio della sanità e il degrado della scuola, il rinnovo dei contratti. Il problema principale è quello di spingere e sospingere, con un metodo transitorio e la capacità di sviluppare rivendicazioni in stretta connessione con la coscienza di classe, l’unificazione delle lotte e la loro generalizzazione. Perché la lotta contro la destra reazionaria, la sua risposta autoritaria e le sue politiche comunitarie non si gioca sulle proclamazioni di principio, contro le caciare e dicendo grazie [vedi appunto il documento delle sardine]: si combatte nel contrasto ad una gestione capitalistica della crisi che schiaccia ogni cosa, dalla salute alla dignità delle persone, per cercare di mantenere un minimo margine di profitto.

La lotta alla destra reazionaria si sviluppa cioè in primo luogo sul terreno sociale e sul terreno del conflitto di classe, riportando nelle piazze e in quelle piazze la faglia della contrapposizione degli interessi di classe. Aprendo quindi nuove linee di articolazione e divisione in queste mobilitazioni, politiche e in primo luogo sociali, per provare a connettere la resistenza contro Salvini e contro le destre con le classi subalterne, i loro interessi, il loro punto di vista. Per far uscire quindi queste mobilitazioni, e in generale la sinistra, dalle ZTL e dagli apericena, costruendo di nuovo una faglia di partigianità sociale. Dalla parte del lavoro e non dalla parte dei padroni. Solo accompagnando la propaganda e l’intervento di partito in queste piazze con questa spinta e con questo impegno, solo rivolgendo la propria azione all’attivazione del conflitto sociale e non solo alla proclamazione della propria identità, si può provare a dare prospettive e sviluppare una strategia anticapitalista e rivoluzionaria.

Il PCL, proprio a partire dal suo impegno nello sviluppo di ogni occasione di fronte unico in difesa degli interessi di classe, proprio a partire del suo impegno politico nell’assemblea nazionale del 7 dicembre, può proporsi nel movimento delle sardine e all’avanguardia sociale, ai lavoratori ed alle lavoratrici in lotta, con questo impegno, con questo cammino, con questa prospettiva.

Luca Scacchi

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