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Cile. Una crisi rivoluzionaria mezzo secolo dopo

24 Ottobre 2019
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“Siamo l'unica oasi dell'America Latina” aveva dichiarato dieci giorni fa il Presidente del Cile Sebastián Piñera. E tutti gli osservatori internazionali a partire dai mercati finanziari non avevano ragione di dubitarne. Crescita annua del 3%, “riduzione della povertà estrema”, allargamento della classe media, tutti gli indicatori convenzionali sembravano avvalorare l'immagine di un paese politicamente stabile con una base sociale d'appoggio in espansione. Ma era solo una rappresentazione capovolta della realtà. Dopo quarant'anni di politiche sociali iperliberiste dettate dalla scuola dei Chicago boys, il Cile era un'oasi solo per il grande capitale, americano ed europeo. L'allargamento della classe media ha convissuto per decenni con l'impoverimento di ampi strati popolari e con la crescita abnorme delle disuguaglianze, in un paese in cui il costo della vita è europeo ma i salari sono miserabili, le pensioni da fame, gli studenti sono indebitati a livelli americani, il servizio sanitario è inaccessibile per milioni di cileni. Questo è il grande deposito di dinamite su cui Piñera sedeva. Ora è esploso.

Il fiammifero che ha acceso la miccia è apparentemente banale: l'aumento ulteriore del 3,7% del prezzo del biglietto della metropolitana, dopo continui rincari. Migliaia di giovani hanno risposto con lo scavalcamento dei tornelli e il rifiuto di pagare. La polizia ha reagito con la tipica ottusità di regime: criminalizzazione e repressione, ciò che ha innescato il dilagare della rivolta sociale e il suo carattere incontrollabile. Il Presidente ha aggravato la situazione domenica sera con una dichiarazione demenziale: “Siamo in guerra contro un nemico subdolo e potente che minaccia la sicurezza pubblica”. Da qui il ricorso al pugno di ferro, con la convinzione di intimidire la piazza. Coprifuoco, stato di emergenza nella capitale e nelle principali città, 20.000 militari nelle strade a supporto della polizia con relativi blindati. Il bilancio è di 18 morti (molti crivellati dalle armi da fuoco), di centinaia di feriti, ma anche di sequestri, stupri e torture, come denunciato e documentato dalle organizzazioni democratiche cilene. In un paese in cui certo non manca la professionalità militare. Ma questo ricorso alla repressione non solo non ha isolato le prime proteste ma le ha generalizzate in tutto il Cile, e soprattutto ha allagato a macchia d'olio la base sociale della mobilitazione. Tra domenica e martedì una autentica sollevazione popolare ha attraversato il Cile. L'onda d'urto è stata talmente dirompente che martedì sera il Presidente Piñera ha dovuto cambiare spartito. Dalla minaccia militare alla “richiesta di perdono” a reti unificate per la propria «incapacità di cogliere sino in fondo le ragioni sociali della protesta», e dunque l'invito al «dialogo nazionale per riportare il Cile alla pace», salvo mantenere i militari per le strade e il relativo stato di emergenza. Una contraddizione talmente plateale da privare la postura dialogante di ogni credibilità. Salvo un paio di partiti borghesi, persino l'opposizione liberale ha dovuto smarcarsi dal Presidente, e così ha fatto il Partito Socialista di Bachelet, partito chiave del precedente governo, nella sorpresa generale.

Finito con le spalle al muro, e senza sapere che fare, Sebastián Piñera ha giocato mercoledì sera la carta delle concessioni sociali: aumento del 20% delle pensioni, un'assicurazione sanitaria pubblica, un reddito minimo garantito di 500 dollari al mese, la cancellazione degli aumenti dell'elettricità, l'aumento dell'aliquota fiscale per i redditi superiori a 11.000 dollari al mese, persino l'immancabile riduzione degli stipendi dei parlamentari. Non poco, per molti aspetti, per un governo iperliberista: la misura della forza della sollevazione. La prova, se ve n'era bisogno, che solo la minaccia di una rivoluzione può strappare riforme, non altro. Ma le concessioni sociali di un regime screditato sono apparse alle grandi masse del Cile per quello che sono: la misura della fragilità del potere, il fallimento della repressione, un ulteriore incoraggiamento alla ribellione.

Mercoledì, mentre Piñera giocava la carta sociale, il movimento operaio ha fatto il suo ingresso prepotente sulla scena. Fino ad allora la rivolta popolare aveva un carattere indistinto, una sorta di magma sociale acefalo popolato da una miriade di gruppi spontanei, collettivi popolari di quartiere, settori diseredati delle periferie. Con l'ingresso sulla scena della classe operaia, il quadro cambia. L'ingresso in sciopero prima dei portuali e poi dei minatori ha finito col trascinare con sé il movimento operaio cileno. I minatori del rame sono la spina dorsale del proletariato cileno, i portuali detengono una grande tradizione sindacale. La loro irruzione nella lotta ha indotto la burocrazia sindacale della CUT a proclamare lo sciopero generale, attorno alla rivendicazione della fine dello stato di emergenza e della punizione dei responsabili dei crimini, quali condizione dell'apertura del dialogo con Piñera. È il tentativo della burocrazia di recuperare il controllo della mobilitazione sociale e di rafforzare il proprio peso negoziale d'apparato. Ma al di là del gioco burocratico, l'ingresso della classe operaia sulla scena può dare alla mobilitazione di massa una direzione e un baricentro sociale, con potenzialità dirompenti.

Il ricambio generazionale è un'ulteriore chiave di lettura degli avvenimenti. La giovane generazione che occupa le strade e le piazze non ha conosciuto il trauma della dittatura militare di Pinochet, se non attraverso le memorie della generazione precedente. Anche per questo non è segnata dal riflesso condizionato della paura. E questo vale anche per la giovane classe operaia cilena. Inoltre, il controllo dei vecchi apparati riformisti sul movimento di massa è l'ombra di quello che fu mezzo secolo fa. Allora il Partito Comunista stalinista di Corvalan e il Partito Socialista di Altamirano godevano di una forza capillare e un radicamento enorme. Se ne servirono per subordinare la rivoluzione cilena al cappio della collaborazione con la borghesia in cambio di riforme sociali, ciò che spianò la strada al fallimento di Allende e al golpe fascista del generale Pinochet, lo stesso cui Allende aveva consegnato la... tutela della democrazia. Oggi la socialdemocrazia cilena è usurata dalla lunga pratica del governo di centrosinistra di Bachelet (2014-2018) che ha governato il Cile nel rispetto ossequioso del FMI e delle sue ricette, mentre il Partito Comunista, fedele alla sua tradizione, si è compromesso nel governo Bachelet e nella sua rovina. Il disincanto di massa verso i vecchi partiti di governo e di opposizione ha questa radice. Tutto ciò allarga il potenziale della rivoluzione cilena, ma pone perciò stesso il nodo cruciale della sua direzione.

Seguiremo la dinamica degli avvenimenti, e ci occuperemo in un prossimo articolo del confronto interno alla sinistra cilena, sul ruolo dei marxisti rivoluzionari, sul dibattito relativo alle parole d'ordine che l'attraversa. Ma a partire dalla difesa della seconda rivoluzione cilena, e per costruire la direzione politica che le mancò mezzo secolo fa.

Partito Comunista dei Lavoratori

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