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Denigrare i braccianti sindacalisti: evitiamo che a farlo sia un dirigente sindacale

A proposito del segretario della FLAI-CGIL e di un commento ad Aboubakar Soumahoro e Yvan Sagnet

12 Settembre 2019
braccianti


Se sei una neoministra liberale all’agricoltura, passata da bracciante quattordicenne e sindacalista alle missioni di guerra del secondo governo Prodi, fino alle più alte e inebrianti vette del Jobs Act (con relativo scalpo dell’art.18 e senza contare i 1666 licenziamenti di Almaviva) avrai sempre un coro d’indignazione pronto a difenderti contro gli insulti destrorsi, fascisti, sessisti e classisti per il tuo basso titolo di studio.

Se però non sei Teresa Bellanova, tutto passa più facilmente sotto silenzio. Aboubakar Soumahoro e Yvan Sagnet, braccianti migranti impegnati nelle lotte sindacali in difesa di diritti e salari, sono stati attaccati in maniera sicuramente più sottile e meno volgare. Eppure, pensiamo che siano stati denigrati in un modo anche più doloroso: per quello che hanno rappresentato in questi anni e per la fonte inaspettata dell’attacco, il segretario generale della FLAI-CGIL.

Giovedì 5 settembre, sulle colonne dell’ineffabile Manifesto, Massimo Franchi ha intervistato Giovanni Mininni sulla situazione del bracciantato e il varo della nuova piattaforma per il rinnovo del CCNL (1). In un passaggio finale dell’intervista, a una domanda che richiamava la capacità di far notizia delle denunce di Aboubakar Soumahoro dell’USB o di Yvan Sagnet (ex delegato FLAI), così ha testualmente risposto: «Non voglio entrare nei personalismi. Dico solo che, nel massimo rispetto verso di loro, si tratta di personaggi mediatici che fanno interventi spot, come quello a Bari. Per risolvere problemi complessi come il caporalato serve il lavoro di un’organizzazione. A costo di apparire demodè io ai miei delegati chiedo di stare nei campi, non in televisione. Poi, certo, assieme possiamo essere più forti».

Sono dichiarazioni che non vorremmo mai sentire da un dirigente della CGIL. D’altra parte, queste stesse parole sono specchio di un degrado del nostro sindacato, che a furia di distorcere la realtà la descrive capovolta.

Aboubakar Soumahoro è un dirigente sindacale italo-ivoriano della Unione Sindacale di Base che si è conquistato un ruolo difendendo spalla a spalla i braccianti calabresi ed è salito alla ribalta televisiva in occasione dell’omicidio di un suo caro amico, Soumayla Sacko, maliano, sindacalista pure lui, assassinato in Calabria con un colpo di fucile alla testa nel 2018.

Yvan Sagnet, camerunense, è stato invece uno dei tanti raccoglitori di pomodori sfruttati nelle Puglie. Ed è lì, precisamente a Nardò, che nel 2011 ha guidato lo sciopero di un mese alla masseria Boncuri contro caporali e schiavisti agricoli, che ha portato all’introduzione del reato di caporalato e al primo processo europeo contro la riduzione in schiavitù, terminato con la condanna di una dozzina di schiavisti. Diventando sindacalista sul campo e nei campi. E se oggi è dirigente dell’associazione anti-caporalato NoCAP, sarà evidentemente per qualche motivo.

Allora, al di là dell’organizzazione di appartenenza o dei loro percorsi sindacali, al di là della valutazione sulle loro specifiche posizioni e sulla loro azione contingente, quel ruolo e la relativa visibilità non le hanno conquistate per la loro telegenicità, dai comodi salotti di uno studio televisivo (come in fondo sottintende quel commento), ma proprio perché nei campi e nei ghetti dei braccianti migranti, da braccianti migranti hanno provato ad organizzare una risposta sindacale. Lavorando nei campi, vivendo con i loro compagni di sfruttamento, ma senza piegare la testa.

Perché allora tanta stizza verso di loro? Perché, eventualmente, non criticarli per questa o quella posizione, ed invece negare sia la loro qualifica di lavoratori, sia in fondo anche quella di sindacalisti, per trasformarli in semplici macchiette, in occasionali commentatori estranei a quello che realmente succede nei campi? Perché denigrare le persone, con falso e retorico rispetto? («non voglio entrare nei personalismi», ma ci entra; dice di voler mantenere il massimo rispetto, ma non lo mantiene per nulla).

Non sarà perché in alcuni settori, proprio tra immigrati e braccianti, hanno talvolta preso piede sindacati diversi e combattivi, come USB, ADL o SICobas? Non sarà perché in questi anni troppe volte ci è toccato vedere la CGIL distratta mentre nei campi o nelle fabbriche i più sfruttati lottavano? Fare sindacato nei campi, come fare sindacato nelle fabbriche e nei posti di lavoro, è certamente importante. Non serve però a niente, se non ci si impegna per difendere salari e diritti di lavoratori e lavoratrici. E, certo, li si difende anche comunicando. In fondo, stare (poco) in televisione non è tanto diverso da stare (poco) sul Manifesto. Sono entrambe occasioni per raccontarsi e soprattutto raccontare cosa accade in questo angolo del lavoro, denunciare lo sfruttamento e raccogliere solidarietà. Invece il segretario della FLAI-CGIL le trasforma in un’occasione per attaccare personalmente due braccianti e due esponenti migranti, contribuendo così ad isolare chi più si espone, proprio perché si espone.

Proprio il segretario della FLAI avrebbe tutte le ragioni per evitare di farlo. Il motivo lo ricorda lui stesso in conclusione dell’intervista: «Poi certo, assieme possiamo esser più forti». Perché proprio oggi c’è bisogno di esser assieme e di esser più forti: per affrontare i decreti sicurezza e riuscire ad abolirli, con il loro portato repressivo proprio contro i migranti e proprio contro le loro lotte. Perché oggi, come ricorda ancora il segretario della FLAI all’inizio della sua intervista, nel prossimo rinnovo del contratto nazionale dell’alimentare i sindacati confederali chiedono 205 euro di aumento in quattro anni. Come in altri settori, una piattaforma che finalmente rompe la gabbia dell’IPCA e del lungo contenimento salariale che abbiamo dovuto subire, chiedendo quasi il doppio di quanto ottenuto nello scorso rinnovo (il migliore tra i tutti i penosi rinnovi dell’ultima stagione, segnata da aumenti contenuti rigidamente sotto l’inflazione e da arretramenti evidenti sull’organizzazione o i tempi di lavoro).

Noi, in ogni caso, pensiamo che questa sia l’unità che oggi serve nei campi e fuori dai campi, per contrastare il padronato ed i suoi interessi in un tempo di crisi. Un’organizzazione che lotta, e che rispetta chi lotta anche se con posizioni diverse, e non come un’organizzazione che divide i lavoratori e le lavoratrici, isola chi nei campi prova ad alzare la testa e farsi riconoscere, disorganizza la lotta.




(1) Mininni (Flai Cgil): «Facciamo sindacato nelle strade e nei campi contro il caporalato»

Lorenzo Mortara, Luca Scacchi

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