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Il nostro 11 settembre: Cile 1973

Il bagno di sangue di Pinochet. La lezione politica di una tragedia

11 Settembre 2019
Cile_11_settembre


L'11 settembre 1973 in Cile il generale Augusto Pinochet realizzava un colpo di Stato fascista, rovesciando il governo di Unidad Popular di Salvador Allende. Decine di migliaia di comunisti, operai, contadini, studenti, furono assassinati, torturati, sequestrati. Un bagno di sangue voluto dall'imperialismo americano, gestito dalle gerarchie militari cilene, benedetto dalla Chiesa cattolica nel nome della lotta al marxismo. Tutti gli imperialismi “democratici” alleati degli USA solidarizzarono naturalmente con i macellai, e cancellarono in seguito persino la memoria di quel macello.

La tragedia dell'11 settembre 1973 contiene anche però una lezione politica: il fallimento di un'operazione riformista.

Unidad Popular componeva un'alleanza di governo tra i partiti riformisti del movimento operaio cileno (il Partito Socialista e il Partito Comunista) e il Partito Radicale, di natura borghese. Il suo programma rivendicava misure sociali sicuramente progressive (riforma agraria, nazionalizzazione del rame), ma dentro una cornice “democratica”, rispettosa della borghesia cilena e del suo Stato.

Tuttavia l'ascesa del movimento di massa, operaio e contadino, trascinato dalla vittoria elettorale di Allende del 1970 travalicò ampiamente i limiti di classe di Unidad Popular. Occupazione di fabbriche, occupazione di terre, sviluppo di strutture di autorganizzazione di massa di tipo consiliare (cordones industriales, comandos comunales) espressero una dinamica rivoluzionaria apertamente socialista e di doppio potere.

Il governo Allende cercò di ricondurre il fiume dentro il solco della collaborazione di classe. In particolare si distinse in questo il PC stalinista guidato da Corvalan, che scavalcò a destra la stessa socialdemocrazia cilena. Corvalan reclamò la restituzione delle fabbriche e terre occupate ai loro «legittimi proprietari», offrì all'opposizione parlamentare della DC cilena il cosiddetto codice delle garanzie contro l'«anarchia del poder popular», concordò con la DC la famigerata Ley de armas, che autorizzava le strutture di polizia a requisire le armi in mano agli organismi popolari e a punire i trasgressori. Il tutto nel nome della “pacificazione democratica nazionale”. A suggello di questa politica di “garanzia democratica” Corvalan spinse Allende a coinvolgere nel governo i massimi vertici delle forze armate. Prima il generale Prats, poi, dopo le sue dimissioni, il generale... Augusto Pinochet.

Questa politica suicida ebbe un solo risultato: disarmare la rivoluzione cilena e consegnarla al suo boia. Il fatto che il boia fosse proprio Pinochet, presentato da Corvalan come garante della costituzione e (testuale) «guida dell'esercito più democratico dell'America Latina», misura il clamoroso fallimento della politica staliniana in Cile. Era già accaduto in Spagna nel 1936-1939, si ripetè in Cile nei primi anni '70: volendo ricondurre la rivoluzione sociale nell'alveo di una "rivoluzione democratica”, la politica staliniana spianò la strada alla reazione peggiore, quella fascista. Furono i militanti comunisti a pagare il prezzo sulla propria pelle della politica catastrofica dei loro dirigenti.

La memoria della rivoluzione cilena ci consegna dunque, in forma esemplare e tragica, la grande lezione del Novecento: solo un partito marxista rivoluzionario può guidare la rivoluzione alla vittoria, come nell'ottobre '17. I partiti riformisti sanno solo organizzare la sua disfatta, anche quando si definiscono comunisti.

Partito Comunista dei Lavoratori

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