Internazionale

Imperialismo cinese, egemonia e diplomazia culturale sino-ungherese

23 Giugno 2019
orban_jinping


L’ASCESA CINESE

Negli ultimi anni, l’ascesa politico-economica cinese è diventata uno dei temi più caldi nell’agone politico internazionale. Come sappiamo, la Cina è ormai la seconda (secondo alcuni, già la prima) potenza economica mondiale, in procinto di scalzare gli Stati uniti. La Cina ha ormai da tempo abbandonato il periodo del basso profilo e si muove ora assertivamente per ottenere un ruolo importante nel mondo. Gli strumenti dei quali si serve sono vari, ma oserei dire, alcuni più espliciti, alcuni meno. La narrazione ufficiale che la Cina tenta di proporre è più o meno questa: “noi, una grande civiltà millenaria, ci siamo scossi di dosso il dominio straniero (il cosiddetto secolo della vergogna, periodo andante dalle guerre dell’oppio alla vittoria comunista del 1949) e, dopo decenni di lenta ripresa economica, vogliamo ora occupare il nostro legittimo posto nell’agone internazionale. Non vogliamo certo farlo tramite violenza o metodi imperialistici, ma semplicemente collaborando pacificamente con tutti coloro disposti a farlo. Vogliamo la stabilità e non faremo nulla per metterla a rischio”. Eppure, qualche dubbio legittimo sorge, dato che oltre allo sviluppo economico la Cina si sta anche armando pesantemente, e da più parti vengono rivolte critiche a quelle che vengono talvolta definite ambizioni di potenza, se non addirittura imperialistiche.
Purtroppo, sembra che gli approcci di varie parti politiche a quest’ascesa siano i più vari, spesso dettati da prevenzioni e partiti presi più che da una seria e ragionata analisi dei fatti. Due estremi si notano facilmente. Da un lato, vi sono coloro che in nome della supremazia occidentale-liberale, vedono nella Cina un pericolo mortale, una temibile potenza comunista e totalitaria che vuole conquistare il mondo, e che probabilmente scatenerà la terza guerra mondiale. Dall’altra, vi sono invece vari gruppi politici e d’interesse completamente acritici verso la Cina, tanto che quando ne parlano sembra di sentire il bollettino del Partito comunista cinese. Alcuni sono capitalisti che con la Cina fanno buoni affari, quindi niente di strano che ne parlino bene. Altri, e forse questa è la componente più farsesca, sono persone di sinistra orfane di un paese guida che pensano di averlo trovato nella Cina. La Cina dopotutto non è governata da un partito comunista? Non ci sono falce e martelli e stelle rosse? La loro economia non è ancora in parte di stato? Soprattutto, non si oppongono agli Stati uniti? Logico: chiunque si opponga agli Stati uniti non può che essere sostenuto. Poco importa se si tratta di un regime monopartitico incancrenito, che ormai di comunista ha davvero poco. Poco importa se il cosiddetto “miracolo cinese” si basa sullo sfruttamento bestiale di masse di lavoratori, che sono come bestie da soma sul quale costruire la modernità (e la nascita della nuova borghesia cinese. [1]). Poco importa se in Cina ci sono gravi problemi di diritti umani e anche alcune semplici libertà formali non vengono garantite. Dalla Cina non viene forse il sol dell’avvenire? Con un sorriso amaro, sembra quasi di risentite il “ha da veni’ Baffone” degli anni ’40.
Mi sembra invece giusto che le forze di sinistra, e a maggior ragione quelli che si dicono comunisti, facciano uno sforzo interpretativo e di coerenza, per cercare di capire una realtà certo lontana dalla nostra e a volte difficile da afferrare: ma si tratta di uno sforzo imprescindibile. Per avere un minimo di credibilità, questo sforzo deve partire dal fatto che bisogna abbandonare il bisogno del paese-guida e analizzare la realtà obbiettivamente. La realtà è che in Cina si è ormai instaurato un regime a capitalismo selvaggio che sfrutta bestialmente i lavoratori, e che questo regime ha certamente ambizioni di portata mondiale. Si possono discutere i singoli casi, nei quali talvolta la Cina cerca di raggiungere un’egemonia economica o culturale, mentre talvolta sfocia nell’imperialismo vero e proprio. Eppure, in questo intervento non voglio parlare dell’imperialismo vero e proprio, ma di un aspetto forse meno affrontato, ma non meno importante.


EGEMONIA E DIPLOMAZIA POLITICO-CULTURALE SINO-UNGHERESE

Voglio parlare della strategia di diplomazia culturale cinese. Nello specifico, affronterò il tema della diplomazia culturale sino-ungherese commentando un recente evento che secondo me è al riguardo significativo. Si tratta del Festival del Cinema Cinese, svoltosi a Budapest dal 14 al 16 giugno scorsi. Prima, però, voglio fare una precisione terminologica sui termini che uso. “Diplomazia culturale” è un termine correntemente in uso per descrivere un aspetto diverso dalla diplomazia politica, cioè i rapporti fra diversi paesi basati sulla cultura. Ma, avendo una visione globale della questione, si potrebbe obbiettare che questa diplomazia “culturale” non è poi così diversa da quella politica, quando sul lungo andare ha gli stessi fini. In alcuni casi, si potrebbe parlare di diplomazia politico-culturale, per sottolineare la connessione delle due cose.
Oppure, si potrebbe eliminare la cultura tout court: talvolta, la cultura non è altro che una parte della politica. Questi concetti sono strettamente connessi a quelli di egemonia e di “soft power”. Il termine inglese “soft power” è da tempo di moda in molti ambienti politici e accademici, dove lo si utilizza per descrivere tutte le manifestazioni di potere non violente, ma che tentano di influenzare la politica di altri paesi con altri metodi, appunto più “morbidi”. Ma questo non vi ricorda qualcosa? Esatto! Si tratta proprio dell’egemonia di gramsciana memoria. Infatti, nonostante questo termine sia stato teoricamente inventato da Joseph Nye negli anni ’90, egli non fece che prendere il concetto gramsciano di egemonia, cambiandogli nome e adattandolo un po’. Come si disse in seguito, era necessario “cambiare l’etichetta allo sciroppo”. Dopotutto, Gramsci era comunque un marxista, anche se eterodosso e antidogmatico.
La mia impressione è che l’interessante evento culturale che sto per commentare potrebbe proprio far parte di una simile strategia. Del resto, esistono già ottime ricerche, come quella di Tony Shaw e Denise J. Youngblood che hanno sottolineato come durante la Guerra Fredda le due superpotenze condussero una vera e propria “guerra fredda cinematografica” (è questa la traduzione del titolo del loro libro) parallela a – o forse dovremmo dire parte integrante di – quella politica [2]. Potremmo essere di fronte a un disegno simile? Forse. Ma è anche importante sottolineare delle fondamentali differenze. Nonostante la degenerazione sovietica che ben conosciamo, è difficile sostenere che durante la Guerra Fredda USA e URSS avessero la stessa ideologia. Erano comunque due ideologie radicalmente diverse. La situazione odierna è diversa, nel senso che non si capisce bene quali sarebbero le fondamentali differenze ideologiche fra USA e Cina, a parte le comuni ambizioni di potenza. Questo pone un problema, perché è certamente difficile proporre un prodotto culturale alternativo senza un contenuto alternativo. Si tratta di un vuoto difficile da riempire, e sarà interessante vedere come i vari contendenti cercheranno di riempirlo.
Comunque, forse non è superfluo sottolineare che Gramsci è conosciuto e letto in Cina (anche se so da fonti dirette di compagni cinesi che in Cina molti attivisti di sinistra lettori di Gramsci devono visitare spesso le patrie galere – non a causa di questa loro lettura, ma guardate i corsi e ricorsi della storia…).


DIPLOMAZIA CULTURALE CINEMATOGRAFICA

Il Festival del Cinema Cinese appena conclusosi a Budapest ha offerto proiezioni gratuite e una mostra itinerante sul cinema cinese. Ha ospitato l’iniziativa il bellissimo cinema Uránia, costruito alla fine dell’ ‘800 in uno stile che sincretizza il gotico veneziano, il rinascimentale e l’arabo-moresco. La mostra itinerante, che ha già fatto tappa in vari paesi del mondo e proseguirà oltre, è stata sicuramente interessante, dato che ha tentato di dare con pannelli in cinese e in ungherese una visione d’insieme sul cinema cinese, nato nel 1905 e forse ancora troppo poco conosciuto.
L'occasione ufficiale è il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, fondata il 1 ottobre 1949, ma anche l’anniversario dell'inizio delle relazioni diplomatiche fra Repubblica Popolare Cinese e Ungheria. La Cina Popolare si riconobbe subito con l’Ungheria di allora, dove i comunisti avevano preso il controllo definitivo nell’agosto del ’49, ribattezzando il paese Repubblica Popolare Ungherese. Le due repubbliche popolari si riconobbero subito, data l'affinità ideologica (l’Italia riconoscerà la Cina solo nel 1970, gli Stati Uniti nel 1979).
La cosa più interessante del Festival è stato probabilmente l'evento di apertura e i discorsi delle autorità ufficiali (tradotti da un bravissimo interprete), compresi l'ambasciatore cinese a Budapest e il direttore del Museo del Cinema di Pechino (che pare sia il più grande del mondo).
Al di là delle solite parole di circostanza, ho avuto la sensazione che i due regimi abbiano tenuto a sottolineare l'amicizia fra di loro (anche se questo chiaramente interessa più l'Ungheria che la Cina, perché il rapporto in termini economici e di potere a livello internazionale è come quello fra una mosca e un elefante). È infatti noto a chi conosce bene il regime consolidato da Viktor Orbán nel corso degli anni che il satrapo ungherese ammira in Russia, Turchia e Cina (paesi infatti diversissimi tra di loro per una serie di motivi) il comune autoritarismo e illiberalismo (da notare che “illiberalismo” è un termine che Orbán usa con accezione positiva, autodefinendosi così. Si può dire che il liberalismo sia il nemico numero uno del governo di Orbán). Il resto non gli interessa.
Nel corso dei discorsi da parte delle autorità ufficiali vi sono stati anche ammiccamenti per il crescente turismo in Ungheria della nuova borghesia cinese, e sono state sottolineate con una nota positiva le molte produzioni cinematografiche cinesi che scelgono l’Ungheria per le loro riprese. Si è sottolineato come queste produzioni siano attratte da un regime fiscale molto favorevole. Si potrebbero sollevare delle critiche verso l’opportunità di un simile regime fiscale favorevole per gli investimenti stranieri, dato che spesso si concretizza in un enorme regalo fatto a delle multinazionali che non fanno investimenti di lungo periodo, ma spremono il paese sinché non ne trovano uno migliore. Ma tralasciando queste considerazioni, in questi interventi ufficiali c’è stato un grosso non detto. Ciò che chiaramente non è stato detto è che le produzioni cinematografiche di molti paesi europei, ed evidentemente non solo europei, vengono in Ungheria a girare film per le paghe basse della forza lavoro locale, per lo sfruttamento bestiale a cui è sottoposta, per il suo essere disciplinata e per l’assenza di sindacati (è questo un particolare probabilmente gradito dai produttori cinesi, dato che sono abituati a un contesto dove non esistono sindacati indipendenti). Chi scrive ha raccolto personalmente la testimonianza di una giovane ragazza ungherese che ha fatto la comparsa per una famosa serie televisiva occidentale: basti dire che le povere comparse dovevano girare per ore e ore senza pause, neanche per mangiare, sinché qualcuno non sveniva letteralmente...
Insomma, a parte i soliti ammiccamenti e convenevoli ufficiali, c'è il sospetto che dietro questa diplomazia "culturale" ci sia invece la diplomazia politica vera e propria. Antonio Gramsci insegna con il suo concetto di egemonia che il potere si acquisisce anche attraverso la cultura, e non solo attraverso la forza bruta.
Più nel dettaglio, vale forse la pena fare qualche considerazione sui film mostrati, ricordo, gratuitamente. Il primo film mostrato, Wandering Earth, è stato il solo a sala piena, forse perché successivo all’evento di inaugurazione. Bisogna dire che si è trattato di un film decisamente scadente: un banalissimo film catastrofista come ce ne sono tanti, con la differenza che i protagonisti sono cinesi e parlano cinese. La cosa stupisce ancor di più perché prima della proiezione il film è stato presentato come una novità, diversa dagli analoghi film americani. La novità sarebbe stata nel fatto che qui, anzi che scappare dalla terra per sfuggire alla calamità (in questo caso rappresentata dal sole che la sta per distruggere), l'umanità decide di spostare la terra stessa verso un altro sistema solare. Inoltre, il film mostrerebbe uno sforzo collettivo, diversamente dall'eroismo individualista dei film americani. Ma la "trovata" di far spostare la terra non modifica l'impianto fondamentale del film, che è quello di un banalissimo film di fantascienza, non particolarmente riuscito. Per quanto riguarda lo sforzo collettivo, bisogna far notare che anche questo è un elemento presente in tantissimi film occidentali, e certamente non costituisce in sé un elemento di novità. Se questo film ha un significato politico, bisogna cercalo molto fra le righe: può darsi che la collaborazione della Cina col resto del mondo per salvare l’umanità rispecchi un po’ l’immagine che la Cina vuole dare di sé al mondo. Può anche darsi che nel film ci sia un ammiccamento alla collaborazione fra le potenze emergenti: un astronauta cinese protagonista, infatti, è molto amico di un astronauta russo (il quale non manca di fare orgogliosamente notare che sono stati i russi a scoprire il cosmo, da Gagarin in poi).
Il film Dragon Blade è risultato ugualmente scadente, avendo la pretesa di essere una (dubbia) ricostruzione storica. È risultato invece un tradizionalissimo film con Jackie Chen (sempre in forma nonostante l'età). Chi scrive ama molto le arti marziali e quindi apprezza sempre i relativi virtuosismi, il problema è che oltre a essi (e all'avvenenza di qualche bellissima attrice) nel film c'era poco contenuto. Può darsi (ma potrebbe trattarsi di un’interpretazione forzata) che nel film ci sia un generale messaggio di amicizia fra i popoli e una pubblicizzazione dell’odierna Via della seta. Infatti, si narra di una legione romana perduta alle soglie della Cina, che prima si scontra ma poi si allea invece con Jackie Chen contro un romano cattivo. La Via della seta viene presentata con un crocevia di culture e popoli diversi, che possono incontrarsi, commerciare insieme, conoscersi, ma non necessariamente farsi la guerra. Che sia un ammiccamento verso l’odierna Via della seta e verso l’ambizione della Cina di avere un posto importante nel mondo, senza guerra ma con pace e collaborazione?
Paradossalmente, il film più bello di quelli mostrati è stato quello con meno pretese, e forse proprio per questo: Peking Love Story. Come si capisce dal titolo infatti, il film non ha altra pretesa di far vedere delle storie d'amore connesse tra loro, con un espediente noto. Il film riesce bene a trattare un argomento apparentemente banale senza renderlo noioso, anzi. L'impressione (anch'essa, sì, banale) che dà a uno spettatore europeo è che anche i cinesi sono esseri umani come noi, e hanno i nostri stessi problemi: tra i cinesi ci sono ricchi e poveri, si vive, si lavora, e soprattutto, si ama (con tutto il corollario di amori non corrisposti, tradimenti, ecc.). È un film che avrebbe potuto firmare Gabriele Muccino o Giovanni Veronesi. Uno spettatore che non è mai stato in Cina potrebbe forse restare colpito da una certa omologazione culturale di Pechino, ma questo forse non dovrebbe stupire, trattandosi di una megalopoli. Nel senso che, anche qui, sembra che i cinesi si divertano proprio al nostro stesso modo: musica, karaoke, discoteche, sbronze, attrazione per il sesso facile, canoni di bellezza femminili schiacciati su quelli occidentali (labbra e seni gonfiati, nasi rifatti, trucco pesante, ecc.).
Una curiosità da porsi potrebbe essere perché tra i tanti possibili siano stati scelti questi film per rappresentare la Cina. Può darsi che si sia voluto puntare sul cinema popolare, quello che attrae più spettatori e che accontenta un po' tutti: forse per fare vedere che la Cina è comunque vicina e non deve fare paura. Bisogna però dire che l’operazione è certamente riuscita meglio con Peking Love Story (che ironicamente si potrebbe ribattezzare Ultimo bacio a Pechino per un pubblico italiano) piuttosto che con kolossal fantascientifici o storici.
In conclusione, voglio sottolineare come questa iniziativa culturale sia stata estremamente interessante, ma forse può aiutarci a riflettere e a fare qualche ragionamento che va oltre la mera cultura. Può darsi che sia un piccolo tassello di un più ampio disegno cinese per guadagnare una certa influenza culturale in altri paesi? Può darsi.
Una cosa importante è però da sottolineare: noi comunisti dobbiamo cercare di capire la Cina meglio che possiamo, e cercando di dare in giudizio obbiettivo non possiamo certo cadere nel campismo, non possiamo cioè attaccarci al carro cinese semplicemente perché è una potenza alternativa a quelle occidentali. Qualora ce ne fosse bisogno, preciso però che la nostra doverosa critica si deve rivolgere al partito-stato cinese, e alla casta burocratico-borghese che domina il paese, non certo contro il paese in quanto tale o contro il popolo cinese in quanto tale. Sarebbe sbagliato e ridicolo: faremmo così la figura dei peggiori sinofobi. Al contrario, la Cina è un paese fantastico, con una cultura e una storia millenarie che meritano di essere studiate a fondo, e una lingua armoniosa e musicale, con un sistema di scrittura che è di per sé stesso un’opera d’arte. È il dovere di ogni internazionalista studiare e cercare di capire il meglio possibile anche i paesi e le culture più lontane. Altrimenti, l’internazionalismo altro non è che una vuota parola, destinata a lasciare il tempo che trova.



Note:

[1] Mobo Gao, The Battle for China’s Past, Londra: Pluto Press, 2008

[2] Tony Shaw e Denise J. Youngblood, Cinematic Cold War: The American and Soviet Struggle for Hearts and Minds, Lawrence: University Press of Kansas, 2010

Elia Spina

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