Teoria

Programma comunista, ordinamento socialista e sviluppo dialettico della realtà

6 Giugno 2018

L'articolo individua e descrive l'obiettivo della nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle banche e delle grandi aziende come elemento necessario per la transizione rivoluzionaria al socialismo ed al governo (o Stato) dei lavoratori, inserendo lo sviluppo razionale della realtà economico-sociale complessiva verso il comunismo nel contesto dei principi del materialismo dialettico, base filosofica essenziale del marxismo

capitalism


Il nucleo centrale dello sfruttamento capitalistico sulla forza lavoro salariata è costituito dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè degli strumenti necessari alla produzione materiale delle condizioni concrete fondamentali della vita individuale e collettiva: è infatti il riconoscimento giuridico-politico in capo a soggetti privati della proprietà e del controllo sui grandi capitali, ossia sui grandi mezzi di produzione (complessi aziendali, fabbriche, medie e grandi imprese, banche, grandi patrimoni etc.), che consente l'effettivo esplicarsi e riprodursi del rapporto capitale-lavoro nella sua intima essenza di rapporto sociale di dominio e di sfruttamento del primo sul secondo e che permette, in definitiva, l'appropriazione, da parte di un'esigua minoranza sociale parassitaria (la classe capitalistico-imprenditoriale che, appunto, possiede/detiene i predetti mezzi produttivi), del valore ulteriore (aggiuntivo) prodotto dalla classe lavoratrice internazionale nel processo economico complessivo.
L'apparato dello Stato capitalistico è la “macchina”, lo strumento politico necessario a garantire (con la forza centralizzata ed organizzata) l'interesse strategico della classe dei soggetti che controllano il capitale (i mezzi di produzione e la ricchezza) a preservare, mantenere e perpetuare il proprio potere e l'enorme meccanismo sociale di sfruttamento e di dominio sulla forza-lavoro salariata, nonché di appropriazione privata della ricchezza collettiva.

Stando così le cose (e le cose stanno effettivamente così), spezzare il meccanismo di sfruttamento del lavoro significa, per la classe lavoratrice, abolire i rapporti di proprietà/appropriazione capitalistici, ossia abolire/eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione materiale complessi e concentrati, istituire su di essi una nuova forma di proprietà comune/collettiva (socialista) e superare completamente la forma giuridico-politica dello Stato capitalistico.
Occorre, in altre parole, che la maggioranza della classe lavoratrice prenda coscienza della necessità storica di collettivizzare sotto il proprio controllo, cioè di socializzare (per dirla con le parole di Marx ed Engels, di “trasferire alla società”) i grandi mezzi di produzione (le grandi e medie imprese e, soprattutto, i gruppi bancari-finanziari-assicurativi cioè il grande capitale industriale e finanziario), come primo passo per uscire dalle inevitabili e distruttive (per i lavoratori) crisi capitalistiche, nonché per iniziare a costruire un sistema economico di tipo socialista, democraticamente pianificato, più razionale e più equo.
Abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione significa, dunque, espropriare senza alcun indennizzo i capitalisti e trasferire il possesso ed il controllo delle grandi e medie aziende, delle fabbriche, delle industrie, delle imprese commerciali di rilevanti dimensioni, delle banche, delle assicurazioni, delle società finanziarie (che sfruttano il lavoro altrui, opprimono, licenziano), dalle mani degli stessi capitalisti (assoluta minoranza sociale) a tutti i lavoratori (maggioranza della società) o meglio a nuovi organi politico-istituzionali rappresentativi dei lavoratori (i Consigli) che costituiranno, coordinati territorialmente tra loro, il tessuto connettivo fondamentale del nuovo Stato dei lavoratori.
È essenziale, in questo senso, che l'espropriazione delle aziende avvenga senza indennizzo per i padroni al fine di evitare qualunque tipo di trasferimento di capitale monetario che possa riprodurre un ciclo di accumulazione privata; così come è essenziale che venga mantenuto un costante controllo operaio (attraverso i comitati di fabbrica dei lavoratori) sulla produzione aziendale (l'esempio storico è costituito, in questo senso, dalla legge sovietica sul controllo operaio del 1917).

Una nuova democrazia consiliare (basata cioè sul potere politico dei Consigli dei lavoratori, eletti solo dal popolo lavoratore e rappresentativi di tutte le masse sfruttate dal sistema capitalistico, ossia della stragrande maggioranza della attuale società) è lo strumento “istituzionale” (politico-giuridico-amministrativo) indispensabile per procedere alla costruzione di un'organizzazione economica socialista che elimini lo sfruttamento capitalistico e l'appropriazione privata del valore prodotto dalla società, ripartisca socialmente la ricchezza creata tra tutti i cittadini lavoratori secondo criteri di giustizia e razionalità, cancellando radicalmente profitto privato e rendita patrimoniale parassitaria. Ciò, conseguentemente, consentirebbe, in una dinamica progressiva, di aumentare sensibilmente le retribuzioni di tutti i lavoratori, di annullare in modo irreversibile e radicale la disoccupazione, riducendo l'orario di lavoro a parità di salario (tutti effetti diretti e, in qualche modo, “automatici” dell'eliminazione del profitto capitalistico), e di fornire/garantire, gratuitamente o a bassi prezzi “politici”, efficienti servizi pubblici (istruzione, assistenza e cure sanitarie, trasporti pubblici, pensioni ed assistenza sociale, edilizia abitativa popolare, servizi sociali e culturali, tutela dell'ambiente naturale, sicurezza del territorio e delle persone etc.).
Dunque, il punto essenziale è che solo l'eliminazione dei grandi profitti privati (attraverso la collettivizzazione delle grandi imprese industriali-finanziarie, cioè del capitale finanziario) e la soppressione dei grandi patrimoni e delle grandi rendite parassitarie (mediante l'istituzione di una imposizione patrimoniale marcatamente progressiva), possono liberare enormi ricchezze (ora accaparrate da pochi soggetti) da redistribuire, secondo criteri di giustizia, all'intera società, ponendo le basi per una più civile e ragionevole convivenza collettiva.

È necessario, per questo, ripartire dall'esperienza storica e dal modello insostituibile della Rivoluzione d'Ottobre, per svilupparlo sulle sue stesse basi e migliorarlo (evitando, ovviamente, le degenerazioni ed i crimini dello stalinismo, che ha rappresentato la negazione assoluta delle stesse conquiste rivoluzionarie).
In altri termini, sul piano della oggettiva necessità storica in stretta relazione dialettica con il ruolo del Partito marxista, cioè della coscienza collettiva socialista più avanzata della classe lavoratrice), occorre sostituire allo Stato ed al governo del capitale, strumento di oppressione e sfruttamento della stragrande maggioranza della società ad opera di (relativamente) pochi parassiti privilegiati, lo Stato ed il governo dei lavoratori, fondato sul potere politico dei Consigli/Comitati dei cittadini-lavoratori, composti da delegati-rappresentanti eletti dal popolo lavoratore (1), non privilegiati rispetto al resto della società, sempre e comunque revocabili dalle masse lavoratrici e popolari rappresentate.
Occorre sostituire al sistema capitalistico (fondato sullo sfruttamento irrazionale, “anarchico”, distruttivo di risorse sotto tutti i profili), un sistema economico-sociale completamente diverso, un sistema di produzione collettivista, socialista, democraticamente pianificato, che elimini le distorsioni del capitalismo, che costruisca progressivamente una società più razionale, più logica, più civile ed evoluta, e, quindi, più giusta ed equilibrata. I due elementi sono legati tra loro in modo indissolubile: senza Stato socialista non c'è economia socialista, senza economia socialista non c'è Stato socialista.

In sostanza il socialismo (o “fase inferiore del comunismo”), consistente essenzialmente nell’instaurazione, sui grandi e medi mezzi di produzione strutturati in aziende di dimensioni socialmente rilevanti, della proprietà pubblico-collettiva socialista riconducibile ai lavoratori (rappresentati ed organizzati politicamente ed istituzionalmente nello Stato socialista dei Consigli dei lavoratori e nel suo ordinamento giuridico), non abolisce affatto integralmente il plusvalore (che continua inevitabilmente a costituire, nella sua accezione più ampia, il “valore ulteriore” rispetto al salario generato dal lavoro collettivo associato, combinato e complessivamente interconnesso) ma, eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione socialmente rilevanti (cioè la proprietà privata del capitale), sopprime totalmente e radicalmente “soltanto” il profitto privato ovvero l’appropriazione privata di tale plusvalore da parte di pochi soggetti a danno di molti. In altri termini il socialismo riporta il capitale (“potenza sociale”, secondo la terminologia marxiana) sotto il controllo della classe lavoratrice (assoluta maggioranza sociale) e dunque sotto il controllo della società nel suo complesso, organizzata politicamente nello Stato socialista; facendo ciò esso non elimina immediatamente il rapporto di produzione capitale-lavoro ma (attraverso la proprietà pubblico-collettiva ed il controllo socialista sul capitale stesso cioè sui grandi, concentrati e socialmente rilevanti mezzi di produzione, quindi sulle aziende di medio-grandi dimensioni nonché, ovviamente, sulle banche ed il capitale finanziario) sopprime il carattere di classe di tale rapporto ovvero sopprime lo sfruttamento e l’oppressione del capitale sul lavoro tipici del sistema capitalistico-borghese incentrato sulla proprietà privata capitalistica e sul profitto.
Nel sistema economico-sociale socialista, dunque, il valore ulteriore ed aggiuntivo prodotto dal lavoro collettivo organizzato nelle aziende “pubbliche”, per una parte viene restituito immediatamente ai lavoratori attraverso consistenti aumenti salariali e significative riduzioni di orario o tempo di lavoro, e, per la restante parte (dedotta una quota necessaria alle aziende per gli investimenti ed il ripristino degli strumenti produttivi soggetti ad usura), viene integralmente acquisito, attraverso il sistema delle entrate tributarie, dallo Stato socialista ed utilizzato per finanziare ed erogare gratuitamente tutti i servizi pubblici universali a rilevanza sociale e di interesse collettivo/generale (sanità, abitazioni, istruzione, cultura, tutela ambientale, prestazioni socio-assistenziali, pensioni, trasporti pubblici, infrastrutture, servizi di utilità pubblica in generale etc.).
Si può dunque affermare che nel socialismo, da un lato, il plusvalore viene drasticamente ridotto (attraverso la riduzione del tempo di lavoro e dell’intensità della prestazione lavorativa nonché attraverso aumenti salariali), dall’altro e per la restante quota (che rappresenta il valore ulteriore rispetto ai salari che necessariamente ogni organizzazione sociale produce mediante il lavoro complessivo), lo stesso plusvalore permane ma viene collettivizzato, cioè acquisito, mediante l’imposizione fiscale sulle aziende pubbliche, da parte dello Stato socialista e redistribuito in favore dell’intera collettività sociale secondo principi razionali di giustizia ed uguaglianza e sotto forma di beni e servizi pubblici di interesse generale e diretti a soddisfare tutti i bisogni individuali e collettivi dei consociati.

Sullo sfondo emerge in conclusione ciò che costituisce la causa e la premessa oggettiva necessaria di tutto il processo: la contraddizione ultima ed insanabile fra sviluppo storico delle forze produttive della società e rapporti di produzione/proprietà capitalistici; cioè l’inconciliabile contrasto, scoperto dalla scienza marxista, tra l’oggettiva e progressiva socializzazione della produzione e dei processi lavorativi, da un lato, ed i rapporti di appropriazione privata, da parte di pochi, del prodotto sociale del lavoro collettivo, dall'altro; contrasto e contraddizione antitetica che conduce, attraverso una tipica mediazione dialettica (logico-razionale e reale, allo stesso tempo), alla sintesi costituita dal socialismo come sistema economico-sociale superiore ed appunto più razionale, fondato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione (cioè del capitale inteso, per usare ancora le parole di Marx nel Manifesto, come “potenza sociale” da riportare sotto il controllo della intera società), sull'appropriazione collettiva del valore complessivo generato dalla forze produttive del lavoro associato e combinato (oggettivamente sviluppato in senso “socialista” dallo stesso capitalismo) e sulla egualitaria e giusta distribuzione della stessa ricchezza sociale prodotta (beni di consumo e servizi di utilità pubblica) in funzione del soddisfacimento dei bisogni individuali e generali di tutti i lavoratori e di tutti i consociati.
Ancora una volta è illuminante Lenin, in Che cosa sono gli amici del popolo: «Le cose vanno in modo del tutto diverso quando si giunge, grazie al capitalismo, alla socializzazione del lavoro (…). Ne risulta che nessun capitalista può fare a meno degli altri. È chiaro che il detto “ognuno per sé” non è più applicabile in nessun modo ad un simile regime: qui oramai ognuno lavora per tutti e tutti lavorano per ciascuno. (…) Tutte le produzioni si fondono in un unico processo sociale di produzione, mentre ogni produzione è diretta da un singolo capitalista, dipende dal suo arbitrio e gli dà prodotti sociali a titolo di proprietà privata. Non è forse chiaro che la forma della produzione entra in contraddizione inconciliabile con la forma dell’appropriazione? Non è forse evidente che quest’ultima non può non adattarsi alla prima, non può non divenire anch’essa sociale, cioè socialista?».


I NODI DEL CAPITALISMO, LA SOLUZIONE SOCIALISTA E IL GOVERNO DEI LAVORATORI

Accertati i nodi distruttivi in cui si avviluppa il capitale ed i suoi apparati politici, è possibile, come si è spiegato, uscire in modo progressivo dalla spirale di un sistema che strozza i lavoratori ed immiserisce le grandi masse popolari, solo costruendo un'organizzazione economico-sociale radicalmente diversa, un ordinamento socialista, in cui cioè siano i lavoratori a governare, dirigere ed organizzare democraticamente l’economia collettiva e la politica (ossia lo Stato).
Il primo ed essenziale passo concreto in questa direzione è, in questa fase, quello di rifiutare il pagamento del debito pubblico verso le banche, nazionalizzare gli stessi gruppi bancari e le compagnie di assicurazione (ganglio essenziale dello sfruttamento e della accumulazione capitalistica), senza alcun indennizzo per i grandi azionisti (cioè per i “proprietari”); procedere all’unificazione di tutti gli istituti di credito, in un’unica banca pubblica sotto il controllo sociale.
La necessità prioritaria di trasferire la proprietà ed il controllo del capitale bancario-creditizio alla società, alla collettività sociale nel suo complesso, cioè all'organizzazione sociale istituzionale generale di tutti i lavoratori e di tutte le masse popolari sfruttate (dunque la necessità di collettivizzare/socializzare lo stesso capitale bancario sotto il controllo di uno Stato socialista dei lavoratori, in modo che tale capitale possa essere destinato al servizio degli interessi fondamentali dell'intera collettività sociale), risiede innanzitutto proprio nell'intrinseco carattere sociale assunto dal capitale complessivo nella sua estrema fase di sviluppo storico.
Tale carattere sociale (ossia tale natura di potenza oggettivamente sociale/collettiva - frutto del lavoro associato - controllata ed appropriata tuttavia in modo privato, per cui il profitto medio del singolo capitalista è determinato «come parte proporzionale del capitale complessivo»), dice Marx nel Terzo Libro del Capitale, «è reso possibile e attuato integralmente dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario» in cui «né chi dà in prestito, né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore» e che «mette a disposizione dei capitalisti commerciali ed industriali tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società»; lo sviluppo capitalistico attraverso il sistema creditizio e bancario «elimina con ciò il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma solamente in sé, la soppressione del capitale stesso (…). Non vi è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente, durante il periodo di transizione dal modo capitalistico al modo di produzione del lavoro associato; ma solo come un elemento in connessione con le altre grandi trasformazioni organiche dello stesso modo di produzione (...)».

La nazionalizzazione/collettivizzazione del capitale bancario/assicurativo sotto il controllo dei lavoratori, in sostanza ed in pratica, significa: a) espropriazione per “pubblica utilità e necessità” dei “possessori” delle grandi concentrazioni finanziarie, ad opera e sotto la direzione di un governo dei lavoratori (espressione diretta ed immediata di lavoratori e masse popolari); b) fusione delle banche espropriate in un’unica banca pubblica sotto il controllo del governo dei lavoratori, cioè dell’istituzione politico-esecutiva generale delle masse lavoratrici.
Questa prima (ed essenziale) misura, insieme con l'introduzione di un'imposta fortemente progressiva sui grandi patrimoni, consentirebbe innanzitutto di liberare dal profitto privato enormi risorse economiche da redistribuire e convogliare verso beni collettivi (acqua, risorse energetiche, ambiente etc) e servizi di utilità pubblica (sanità, scuola, trasporti, previdenza ed assistenza sociale etc.) offerti gratuitamente o a prezzi nettamente inferiori a quelli di mercato, con il contestuale finanziamento di un piano generale del lavoro che riduca la disoccupazione fino al suo completo riassorbimento ed aumenti sensibilmente i salari medi dei lavoratori.
Ma soprattutto, il controllo sociale sul sistema bancario, insieme alla connessa e necessaria espropriazione e nazionalizzazione anche delle grandi industrie capitalistiche - sempre sotto il controllo dei lavoratori (in via immediata/particolare, dei comitati operai-impiegati di fabbrica o azienda ed in via mediata/generale dello Stato socialista dei lavoratori) - eliminando in radice i grandi profitti e le grandi rendite di pochi parassiti sociali, consentirebbe una reale pianificazione democratica, razionale ed equa (cioè conforme a razionali principi di giustizia distributiva) dell’economia complessiva; consentirebbe, quindi, una redistribuzione egualitaria del prodotto sociale ed in definitiva una riorganizzazione dell'intera società in funzione degli universali bisogni, interessi e diritti individuali e collettivi: blocco dei licenziamenti; riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario con riassorbimento integrale della disoccupazione generata dal sistema capitalistico; incremento progressivo delle retribuzioni dei lavoratori; riconversione del sistema economico a fini ecologici, di tutela dell’ambiente e della salute collettiva; piano di investimenti pubblici (e dunque piano complessivo del lavoro), sotto il controllo sociale, nei settori del risanamento ambientale, dello sviluppo e recupero della rete ferroviaria, della rete stradale e della rete idrica, della produzione e distribuzione di energia, del sistema ospedaliero e di assistenza socio-sanitaria, dell’edilizia scolastica e residenziale pubblica; imposizione fiscale marcatamente progressiva (2) sui grandi patrimoni (oltre che sui redditi elevati) finalizzata al finanziamento massivo di tutti i servizi pubblici essenziali (in primo luogo, del sistema sanitario nazionale, di quello dell'istruzione e di quello delle abitazioni pubbliche – per garantire effettivamente i fondamentali diritti alla salute, alla cultura ed all'abitazione).

È questa, in sintesi, la prospettiva socialista: la costruzione di un’organizzazione sociale più giusta, più razionale, più democratica, meno distruttiva di risorse umane ed ambientali.
Presupposto politico per l’attuazione del programma di liberazione del lavoro dal profitto e dal capitale, è però il necessario passaggio del governo generale e del potere pubblico ai lavoratori, alle loro organizzazioni istituzionali, ai loro organi rappresentativi e legislativo-esecutivi, alle forze politiche (comuniste e socialiste) che esprimono i loro interessi di classe e li traducono in atti di indirizzo generale e di amministrazione concreta.
Quindi uno Stato nuovo ed un governo nuovo, basato sulla forza e sull’autorganizzazione democratica dei lavoratori, su una rete di organi assembleari elettivi (consigli e/o comitati, cioè i Soviet) che rappresentino immediatamente e direttamente le masse lavoratrici e popolari senza distinzioni di categoria; organismi istituzionali della classe lavoratrice che devono essere costituiti, sviluppati ed estesi; che vanno coordinati e connessi tra loro in conferenze e congressi periodici, dove le decisioni vengano deliberate collettivamente e democraticamente dai delegati dei lavoratori.
Tutto il sistema statale socialista del lavoro dovrà basarsi necessariamente anche sulle già esistenti strutture organizzative più forti ed articolate della classe lavoratrice: cioè sulle organizzazioni sindacali, le quali, depurate dalle loro burocrazie opportuniste, costituiranno oggettivamente l’unica istituzione operaia in grado di svolgere efficacemente (insieme agli apparati statali ed in appoggio ad essi) funzioni esecutive e di effettiva amministrazione nei vari settori produttivi.
La direzione politica dell’organizzazione statale spetterà ovviamente al Partito comunista (o, comunque, ai partiti comunisti e socialisti che accettano la democrazia sovietica), avanguardia e coscienza avanzata della classe lavoratrice, motore ultimo ed insostituibile del processo rivoluzionario di trasformazione socialista: anche il Partito, è chiaro, delibera al suo interno secondo procedure altamente democratiche, basate sul principio del libero confronto dialettico tra soggetti e tendenze, con decisione finale vincolante presa a maggioranza; convoca i suoi congressi periodicamente e regolarmente, decide secondo i meccanismi del centralismo democratico leninista e della delega rappresentativa.

Quanto sopra descritto, in effetti, si è già concretamente verificato nel corso della storia, con la Rivoluzione dell’Ottobre 1917 in Russia e di ciò viene dato conto da Lenin, tra le varie opere, ne L’estremismo malattia infantile del comunismo (aprile-maggio 1920): la realizzazione pratica della dittatura del proletariato, il meccanismo generale del potere proletario, cioè del governo dei lavoratori, vengono infatti sinteticamente e magistralmente definiti dal grande dirigente rivoluzionario e teorico marxista, come «un’istituzione così democratica che non ha avuto e non ha ancora riscontro nelle migliori repubbliche democratiche del mondo borghese».
Il socialismo, il governo dei lavoratori e la democrazia sovietica non esistono dunque nel mondo delle idee, non sono (solo) costruzioni concettuali astratte o puramente “ideali”: essi costituiscono fatti oggettivi che si sono verificati nel concreto processo storico, rappresentando la più alta realizzazione dialettica della sua razionalità (pur subendo, contraddittoriamente, negli anni - con l’infame “deviazione” stalinista – regressioni, fenomeni degenerativi e distorsioni burocratiche che ne hanno snaturato il corso e determinato il fallimento).
L’esperienza rivoluzionaria dell’Ottobre sovietico rappresenta in ogni caso un poderoso passo avanti nella storia della civiltà umana, un progresso epocale nello sviluppo dialettico-razionale della realtà complessiva. Principalmente, essa costituisce la conferma concreta ed inoppugnabile dell’intuizione fondamentale di Marx ed Engels, di ciò che ne fa, a tutt’oggi, i maggiori e più rivoluzionari “scienziati sociali” che siano mai esistiti: l’Ottobre Rosso è, in sintesi, la conferma storica dell’idea che l’iniquità (e l'irrazionalità) delle regole distributive della ricchezza sociale è destinata ad essere costantemente e progressivamente superata nel processo dialettico reale, che conduce, in modo oggettivo (e sempre più razionale), a nuove forme di proprietà collettiva (più razionali in quanto più aderenti al concetto stesso di giustizia distributiva). Marx ed Engels parlavano di “proprietà dei produttori associati” o “proprietà sociale”, per indicare tale nuova forma di proprietà collettiva (o “pubblica”) sui mezzi di produzione, necessariamente generata dallo sviluppo economico-sociale delle forze produttive accanto alla diretta proprietà personale o diritto di uso/godimento/disposizione personale, sui beni di consumo prodotti dalla società e ripartiti razionalmente/equamente tra tutti i componenti della stessa (cfr. Marx-Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, 1848, Trad. it., Milano, 1978).
Ovviamente, in un’ottica marxista, vi è un ineludibile presupposto politico a tutto ciò: la rottura rivoluzionaria dell’ordine (o sarebbe meglio dire del disordine) capitalistico e la conquista del potere politico da parte del proletariato, quella che nel Manifesto viene definita “conquista della democrazia” da parte dei lavoratori. Dunque, l’ordine socialista può essere costruito e sviluppato (sulle basi oggettive dell’evoluzione capitalistica) solo se la classe lavoratrice riesce (sotto la direzione del partito marxista) a realizzare la “propria” democrazia (la democrazia socialista), il “proprio” Stato ed il “proprio” governo: in una parola, il proprio ordinamento politico-giuridico generale dotato di una superiore, universale ed oggettiva razionalità reale.


SVILUPPO SOCIALISTA DELLA REALTÀ E MATERIALISMO DIALETTICO

Dunque il socialismo, con i suoi rapporti di produzione/distribuzione fondati sulla proprietà collettiva/comune dei mezzi di produzione, con i suoi superiori principi di giustizia distributiva incardinati sull'uguaglianza del lavoro e sull'uguaglianza della ripartizione dei prodotti sociali in proporzione alla quantità di lavoro fornita ed ai bisogni individuali e collettivi, con le sue più democratiche istituzioni politiche e sociali (consigli rappresentativi e Stato dei lavoratori), con il suo progredito ordinamento giuridico fondato su norme/regole prescrittive di condotta funzionali ad indirizzare/disciplinare razionalmente l'azione generale nei rapporti intersoggettivi al fine di garantire al meglio la coesistenza e l'integrazione sociale (norme giuridiche che, proprio in quanto frutto della progressiva evoluzione storica, sono “naturalmente” più razionali, più giuste e più “civili” rispetto alle precedenti, che pure – nella loro parte migliore – vengono dalle stesse norme socialiste integrate, assorbite e superate dialetticamente), è il prodotto necessario del continuo sviluppo razionale della realtà complessiva ed è soprattutto la dimostrazione oggettiva della profonda ed indissolubile/inscindibile unità dialettica concreta di ragione e realtà (per cui – secondo l'interpretazione materialistica e dinamica di Hegel fornita giustamente da Engels - “ciò che è reale deve essere razionale e ciò che è razionale deve essere reale” (3).

Alla base vi è la tesi materialistico-dialettica (essenza filosofica del marxismo) la quale afferma «(con Spinoza e con Hegel) che la razionalità è un principio generale dell'universo e che la razionalità dell'uomo è valida in quanto si inserisce nello sviluppo di tale principio»; che «le tecniche della ragione umana (sempre relative allo sviluppo sociale dell'uomo che le crea, e perciò sempre mutabili e perfezionabili) traggono il proprio valore non dall'uomo che se ne serve, ma dalla razionalità dell'universo che esse riescono a cogliere in parte più o meno grande». (4).
La tesi materialistico-dialettica si fonda sull'identità tra ragione e realtà per cui la razionalità oggettiva dell'universo costituisce il fondamento della ragione umana (che è parte integrante della stessa razionalità universale); dunque la ragione umana riflette (sotto il profilo logico-concettuale e pratico-operativo) la complessiva razionalità dell'universo reale (di cui essa stessa è il prodotto) e si sviluppa dialetticamente all'interno di tale razionalità oggettiva (insieme ad essa, contestualmente ad essa).
Ne consegue l'assoluta unità dialettico-razionale dell'intera realtà (materiale/oggettiva e cosciente-“spirituale”/soggettiva), l'assoluta identità di pensiero/ragione e realtà materiale, che seguono entrambi, nella loro evoluzione, i criteri della logica dialettica (la quale consente di individuare le profonde correlazioni razionali di tutti i molteplici elementi del reale e, quindi, la sua essenziale unità materiale e concettuale); è in questo senso che, da un lato, la ragione si sviluppa dialetticamente nella realtà materiale facendole assumere forme di progressiva e concreta maggiore razionalità, e, dall'altro, che la realtà materiale (e sociale) acquisisce, a sua volta, forme di progressiva maggiore razionalità nella sua concreta evoluzione storico-dialettica.
La razionalità del reale si attua pertanto dialetticamente (attraverso appunto la logica razionale dei rapporti dinamici tra tesi, antitesi e sintesi, cioè tramite contraddizioni e compenetrazione, soluzione e superamento di tali contraddizioni) per mezzo dell'interazione reciproca tra gli elementi della realtà materiale (tra loro e con il tutto) e tra i concetti che costituiscono la loro rappresentazione astratta/razionale, il loro riflesso unitario, generale ed universale (ossia ideale) nel cervello, nella mente e nell'intelletto degli esseri umani (5).

In tale contesto è evidente che lo “spirito”, la coscienza, la ragione sono una forma di organizzazione della materia, una proprietà della materia e del suo continuo sviluppo dialettico: ragione/coscienza e realtà materiale coincidono e si compenetrano in un'unità reale superiore ed onnicomprensiva che si sviluppa e procede secondo i principi razionali della logica dialettica; tale logica governa tutto il reale e connette le singole parti del molteplice in una coerente unità razionale in continua evoluzione, per cui la ragione ed il pensiero sono la stessa realtà materiale che, nel processo storico-naturale, diventa progressivamente cosciente ed autocosciente.
L'essere umano, con la sua sensibilità, la sua coscienza, il suo pensiero, la sua ragione (ossia la sua capacità/proprietà di elaborare concettualmente il dato sensibile, di connettere logicamente i concetti astratti ed universali ricavati induttivamente dalla realtà e riflettenti la essenziale struttura logica della stessa realtà), è parte integrante della realtà materiale complessiva, è cioè materia cosciente/razionale elemento costitutivo della materia universale (anch'essa, nel suo flusso evolutivo, necessariamente razionale).
Ciò in quanto la realtà materiale universale assume, nel suo continuo processo di sviluppo, nel suo movimento dialettico - attraverso il quale essa si trasforma e si evolve - forme diverse di organizzazione (più o meno complesse) e corrispondenti diversi livelli/gradi, più o meno sviluppati, di sensibilità (nel senso di capacità di percezione sensoriale del mondo esterno e di capacità di sentire o provare sensazioni), di coscienza ed autocoscienza, di pensiero e di intelletto o ragione (tutte "proprietà della materia in movimento"). All'interno di questo onnicomprensivo divenire storico-naturale, l'uomo, gli animali, le piante (materia organica) e la materia inorganica, sono evidentemente parti del tutto, in stretta ed indissolubile relazione dialettico-razionale reciproca e con la stessa totalità universale del reale (6).

Ne deriva che, per il materialismo dialettico, le idee ed i concetti (con le loro connessioni logico-dialettiche) costituiscono il riflesso universale nella coscienza e nel pensiero umano della realtà materiale esterna nel suo profondo sviluppo dialettico (che ricomprende necessariamente anche lo stesso pensiero e la stessa coscienza individuale e collettiva in perenne evoluzione); essi cioè costituiscono l'astrazione, la generalizzazione e l'unificazione razionale (“induttiva”) della molteplicità del dato sensibile, della pluralità dei fatti materiali oggettivi percepiti attraverso i sensi.
Il pensiero, la coscienza e la conoscenza sono dunque il prodotto dell'evoluzione storica della realtà materiale complessiva (che li implica e li include) e la dialettica è «la forma di pensiero più importante, perché essa sola offre le analogie e i metodi per comprendere i processi di sviluppo della natura» (7); per Engels (e per Marx) la dialettica è la logica (la ragione) attraverso cui tutto l'essere reale (tutto ciò che esiste), si muove, si sviluppa, scorre e si trasforma; ciò implica che, posta l'indissolubile unità del reale (cioè di ragione/pensiero e realtà), se l'essenziale struttura del pensiero è una struttura dialettico-razionale, a questa deve necessariamente corrispondere una analoga struttura dialettico-razionale dell'intera realtà materiale (che in essa ricomprende ed assorbe – come l'universale implica l'elemento particolare e come il tutto ricomprende la parte – la stessa struttura dialettico-razionale superiore del pensiero umano), altrimenti vi sarebbe un irrazionale dualismo tra pensiero e realtà e la prassi umana (cioè l'attività teorico-pratica di interazione con la realtà e di trasformazione della stessa) sarebbe inefficace e impossibile.

L'uomo, come parte del tutto, ha quindi il compito non soltanto di capire e contemplare lo sviluppo della realtà, ma anche di operare in essa per trasformarla, di essere cioè la coscienza del divenire dialettico della realtà (materiale e sociale) e la volontà consapevole di intervenire in essa in senso rivoluzionario per mutarla in modo sempre più razionale: da qui il ruolo essenziale del Partito marxista rivoluzionario come coscienza collettiva avanzata della classe lavoratrice e dell'intero processo storico, e come elemento soggettivo necessario di propulsione del reale verso le forme organizzative più razionali del socialismo e del comunismo.

Per citare ancora Engels (La situazione della classe operaia in Inghilterra - 1845): «Per i suoi principi, il comunismo è al di sopra del conflitto tra borghesia e proletariato, giustificandolo storicamente nel presente, non per il futuro; esso sopprime tale conflitto ma riconosce, finchè permane il conflitto di classe, che l'ostilità del proletariato verso i suoi oppressori è una necessità e rappresenta la leva più importante del movimento operaio al suo inizio; ma va oltre tale ostilità, perché il comunismo è la causa di tutta l'umanità, non solo della classe operaia».

Riassumendo: la realtà complessiva integra un unico processo dialettico-razionale incentrato sulla connessione/concatenazione logica di tutti gli enti che costituiscono il reale (inteso come unità dialettica di ragione/pensiero e realtà naturale); esso si sviluppa in una continua ed ininterrotta evoluzione dinamica che rappresenta appunto il movimento di trasformazione dialettica della realtà stessa nella sua intima razionalità; le idee, il pensiero soggettivo, la ragione (come proprietà soggettiva) riflettono sul piano concettuale tale movimento dialettico della realtà e la sua più ampia razionalità oggettiva, sostanziale ed universale, essendo la coscienza una forma di organizzazione della materia che esprime l'essenza razionale della medesima materia in continuo sviluppo.
In altri termini, la ragione, attraverso la dialettica, consente di comprendere l'unità assoluta del reale pur nella sua molteplicità contraddittoria e conflittuale (anzi proprio attraverso essa); la logica dialettica quindi non concerne solo il discorso umano ma la realtà stessa, proprio in virtù della profonda identità/unità di ragione e realtà, che procedono entrambi secondo i medesimi principi incentrati sul rapporto, sul collegamento, sulla relazione tra tesi ed antitesi; rapporto e collegamento che conducono ad un'unità superiore – la sintesi – comprensiva dei due elementi contraddittori ed espressiva della loro connessione razionale.

La dialettica è quindi il processo reale e logico-razionale (proprio del pensiero e dell'universo materiale) che conserva e supera, nella sintesi, sia la tesi che l'antitesi come momenti diversi dello sviluppo della realtà e della ragione; essa è la logica razionale che consente di cogliere l'unità di tutto il reale e, dunque, la sostanziale unità della stessa ragione con la realtà, i cui processi seguono i medesimi principi razionali della logica dialettica, cioè della logica che svela il perenne movimento del reale e le connessioni che riconducono il molteplice ad unità universale e razionale.
Pertanto la ragione umana è perfettamente in grado di cogliere l'intima razionalità del reale proprio perché ne è parte cosciente, proprio perché ragione e realtà sono inscindibilmente unite, procedono entrambe dialetticamente e si compenetrano in un'unità assoluta in cui “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”.
Il socialismo ed il comunismo, in definitiva, sono l'esito necessario dello sviluppo razionale della realtà: essi sono dunque, sul piano della necessità storica, la razionalità del reale e la realtà della ragione.
È questa la grande lezione di Marx, di Engels e (prima ancora, per la parte più feconda e vitale del suo sistema filosofico) di Hegel; questa è la grande lezione del materialismo dialettico.



Note:

1) Quando si parla di “popolo lavoratore” come base materiale e giuridica degli organi rappresentativi della nuova democrazia socialista, si fa ovviamente riferimento, in senso ampio, innanzitutto alla classe lavoratrice in tutte le sue articolazioni e stratificazioni (anche semiproletarie), attiva e quiescente (ossia pensionata o transitoriamente disoccupata), ma anche a tutte le masse popolari sfruttate (in un sistema capitalistico), oppresse, in ogni caso svantaggiate sul piano naturale o sociale; l'esclusione dalla rappresentanza politica è pertanto limitata alle classi capitalistiche e sfruttatrici.

2) È progressiva l'imposta che cresce più che proporzionalmente al crescere della base imponibile (ricchezza soggettiva) e che perciò colpisce in modo progressivamente più rilevante i più ricchi.

3) Engels riassume l'idea della razionalità del reale «istituendo l'equazione tra razionalità, realtà e necessità storica» (A. Burgio, Strutture e catastrofi: Kant, Hegel, Marx, Roma, 2000, 128). «Per Hegel non tutto ciò che esiste è, per ciò stesso, anche reale. Secondo lui l'attributo della realtà si addice solo a ciò che è, al tempo stesso, anche necessario: «la realtà si manifesta come necessità nel suo sviluppo» (…). Ma ciò che è necessario si dimostra in ultima istanza anche razionale. (…) E così, in virtù della dialettica hegeliana, l'affermazione di Hegel si trasforma nel suo contrario: tutto ciò che nel contesto della storia umana è reale diviene, col tempo, irrazionale, è dunque tale nella sua stessa destinazione, è affetto da irrazionalità sin dall'origine; per contro, tutto ciò che vi è di razionale nelle menti degli uomini è destinato a realizzarsi, per quanto radicalmente possa contrastare alla apparente realtà data. Conformemente a tutte le regole del modo di pensare hegeliano, l'affermazione della razionalità di tutto il reale si risolve nell'altra: tutto ciò che esiste è degno di scomparire» (F. Engels, Ludwig Feuerbach e l'approdo della filosofia classica tedesca, citato da A. Burgio, Strutture e catastrofi cit., 128, note 171 e 172).
Questo significa che, nel divenire dialettico della realtà, tutto ciò che è reale deve (dovrà) necessariamente essere (o diventare) razionale, posto che è reale solo ciò che è anche necessario e che è necessario solo ciò che è anche razionale; dunque la realtà deve necessariamente, progressivamente e dialetticamente, assumere forme di maggiore razionalità oggettiva (ciò che è reale deve – o dovrà – essere razionale), mentre tutto ciò che è dotato di razionalità dovrà necessariamente (sarà destinato a) realizzarsi, concretizzarsi dialetticamente nel processo di sviluppo storico della realtà oggettiva (ciò che è razionale deve – o dovrà – necessariamente essere reale).
Sono interessanti le riflessioni di Burgio in proposito, laddove afferma che: «Engels desume da queste premesse (…) le linee portanti di una filosofia della storia nella quale il processo storico è concepito come successione di forme di realtà sempre più ricche di ragione, una successione governata da un conflitto tra ragioni contrapposte nel quale è destinata a prevalere la ragione più ricca di realtà (cioè più conforme all'essenza della situazione storica). (…) Hegel concepisce la storia alla stregua di un processo di razionalizzazione della realtà: in ogni epoca la realtà incorpora più ragione di quanta ne contenesse nella precedente. Ora Hegel ritiene che tale processo (per effetto del quale la storia si risolve in un progresso irreversibile) obbedisca ad una necessità oggettiva. Nondimeno (…) esso si sviluppa in virtù dell'azione di un soggetto. Lo "spirito del mondo" è "l'individuo" della storia, lo svolgimento della quale consiste nel "prodursi" dello spirito stesso (…). In prosa, ciò equivale a dire che la razionalità superiore della nuova epoca – razionalità "destinata a realizzarsi" - ha sede in primo luogo "nelle menti degli uomini" che ne promuovono l'avvento [F. Engels, Ludwig Feuerbach e l'approdo cit., 266-267] (…). La realtà è razionale (sempre di più nel corso del tempo) perché (nella misura in cui) è il prodotto dell'attività dell'uomo, la ragione del quale cessa di essere pura astrazione (pura soggettività) via via che si incarna nella realtà (nell'oggettività) informandola di sé. (...)» (A. Burgio, Strutture e catastrofi cit., 128-130).
È precisamente su questo contesto concettuale generale che si innesta “l'idea marxiana di prassi”, di agire soggettivo pratico-razionale (o teorico-pratico), di attività pensante, cosciente e consapevole (ossia razionale), diretta a modificare la realtà naturale/materiale, ad interagire dialetticamente con essa, a trasformarla (subendone al contempo un'azione trasformatrice) in funzione dei propri bisogni, in funzione della produzione e riproduzione della propria vita ed esistenza (parte integrante della stessa realtà naturale/materiale complessiva ed indissolubilmente connessa a quest'ultima).
Marx «registra i progressi dell'"autocoscienza" (...)» e «ne ravvisa il "presupposto pratico assolutamente necessario" in un processo materiale, nell'"universale sviluppo delle forze produttive"» (K. Marx, L'ideologia tedesca, cit. da A. Burgio, Strutture e catastrofi cit., 135); «in virtù della sua struttura dialettica, questo processo è causa dello sfruttamento sempre più radicale di quanti sono costretti a svolgere attività manuali e, al tempo stesso, fonte della nuova soggettività della componente sociale messa al lavoro, di una soggettività sempre più consapevole della propria situazione e delle proprie potenzialità, sempre più in grado di concepire e realizzare la propria autonomia» (A. Burgio, Strutture e catastrofi cit., 135-136).
Una componente (o classe) della società sempre più vasta e sempre più in grado cioè di comprendere appieno il reale sviluppo sociale (integrato, coordinato, associato e collettivo) delle forze produttive del lavoro umano ed il suo essenziale contrasto con le forme capitalistiche di appropriazione privata del prodotto di tale lavoro associato; sempre più in grado dunque di raggiungere la piena coscienza della necessità storico-razionale di abolire i rapporti di produzione/proprietà capitalistici sostituendoli con forme di proprietà collettiva socialista e con conseguenti forme più razionali e più giuste di distribuzione ugualitaria dello stesso prodotto sociale in funzione del pieno soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi dell'intera società.
Nel Capitale (Libro I, cit.) Marx definisce il concetto di lavoro «indipendentemente da qualsiasi forma sociale determinata»: «il lavoro è innanzitutto un processo tra uomo e natura, un processo nel quale l'uomo media, regola e controlla il proprio metabolismo con la natura per il tramite della propria attività. Egli si contrappone alla materia naturale come una potenza naturale. Le forze naturali appartenenti alla sua corporeità – braccia, gambe, testa e mano – egli le mette in movimento allo scopo di appropriarsi della materia naturale in una forma utilizzabile per la propria vita. Nel momento stesso in cui, attraverso questo movimento, agisce sulla natura fuori di sé e la trasforma, egli trasforma al tempo stesso la natura sua propria».
Ciò che caratterizza questa complessa attività pratico-produttiva «è non solo la sua bilateralità (l'essere sempre luogo di riproduzione e trasformazione di sé e del mondo» (A. Burgio, Strutture e catastrofi cit., 137), l'assumere la dimensione dialettica del rapporto organico di interazione reciproca tra l'essere umano (il soggetto), come parte essenziale della realtà materiale/naturale complessiva, e la stessa realtà materiale/naturale oggettiva – rapporto attraverso il quale si attua concretamente la trasformazione e l'evoluzione dinamica della natura universale (dell'essere umano e del suo ambiente) - ma anche la sua razionalità, la sua dimensione sostanzialmente razionale, «di agire teleologicamente strutturato» (A. Burgio, Strutture e catastrofi cit. 137), di agire pratico guidato da modelli/schemi concettuali sempre più razionali e universali, cioè sempre più conformi, sul piano sociale, a criteri razionali di giustizia, correttezza ed equità.

4) L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico, III, Milano, 1982, 355-356, il quale afferma anche che il più importante contributo al materialismo dialettico, dopo i testi di Marx ed Engels, è stato dato da Lenin con l'opera Materialismo ed empiriocriticismo (1908) che contiene un'aspra polemica contro i seguaci di Mach (quindi di Berkely e di Hume) inserendosi autorevolmente nel dibattito che oppone materialismo dialettico ed empiriocriticismo, cioè «in una delle questioni filosofiche più serie del nostro secolo».

5) Per dirla con Engels, vi sono tre leggi fondamentali della dialettica, ricavabili induttivamente dalla storia della natura, che ricomprende la storia della società umana, ed esse sono anche leggi logiche del pensiero: la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; la legge della compenetrazione degli opposti; la legge della negazione della negazione (ossia della sintesi dialettica delle contraddizioni).
Il principio di contraddizione è il fondamento della dialettica ed è presente in tutti i fenomeni naturali (anche e soprattutto nel pensiero, in quanto fenomeno naturale che “riflette” i fenomeni naturali): esso è “la contraddizione che continuamente si pone e continuamente si risolve” (Engels, Dialettica della natura, 1883); nel processo dialettico (hegeliano e poi marxengelsiano) l'affermazione di un concetto (e l'esistenza di un correlato ente o fatto reale – data la coincidenza tra la struttura logico-razionale del pensiero e quella della realtà materiale) costituisce la tesi; l'affermazione di un concetto (e l'esistenza di un correlato ente o fatto materiale) contraddittorio costituisce l'antitesi; dalla loro connessione (o mediazione) dialettica scaturisce la “sintesi, che accoglie tesi ed antitesi in una unità superiore, in cui entrambe vengono conservate come momenti diversi” (L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico, III, Milano, 1982, 63).
Si parte dal principio di identità che afferma che A=A (tesi); questa affermazione, svolta con coerenza, porta necessariamente ad affermare il non-A (antitesi): se si afferma, infatti, che A è A, bisogna riconoscere che A non è non-A (principio di non contraddizione, A è diverso da non-A), ossia che “il non-A limita A, lo nega, lo condiziona”; la sintesi che ne scaturisce è costituita dal profondo collegamento/rapporto dialettico esistente tra A e non-A (dalla concreta mediazione dialettica tra tesi ed antitesi), che conduce a riconoscere logicamente che (in modo non astratto) A non sta da sé, non è isolato, ma che esso è il momento di un complesso reale e razionale più vasto, il quale comprende, in un dinamico e perpetuo movimento dialettico, tanto A quanto il suo opposto (cfr. L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico cit., 63).
Nel sopra descritto significato Engels parla di “compenetrazione degli opposti” (cioè di connessione/correlazione dialettica dei termini antitetici), così come, analogamente, nota che nei fenomeni naturali si dimostra costantemente che i mutamenti quantitativi producono mutamenti qualitativi della materia e viceversa (e tali cambiamenti concreti si riflettono nel pensiero e vengono perfettamente rappresentati sul piano razionale-concettuale - generale e astratto - essendo tale piano concettuale comunque e sempre un prodotto della materia in movimento).
La negazione della negazione, ossia la superiore sintesi della contraddizione dialettica, viene affermata da Engels citando Marx, laddove, nel Capitale, scrive che «Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera, essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulle conquiste dell'era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso». In altri termini, la rivoluzione comunista, il potere politico dei lavoratori ed il nuovo modo di produzione socialista, sono la sintesi (la negazione del modo di produzione, dei rapporti di proprietà e del potere politico del capitale, a loro volta negazione della proprietà individuale fondata sul lavoro personale) che introduce storicamente la nuova proprietà individuale dei beni di consumo (equamente distribuiti) fondata sulla proprietà socialista (comune) dei mezzi di produzione concentrati e sviluppati, generati dallo stesso lavoro collettivo, organizzato e disciplinato (il quale trova la sua origine storica già all'interno del modo di produzione e della formazione economico-sociale capitalistica).
Engels peraltro, significativamente e rendendo omaggio alla migliore tradizione filosofica precedente, cita anche il Rousseau del Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, che vede nello stato di natura una condizione di uguaglianza tra gli uomini, negato dal progresso storico-sociale che introduce la disuguaglianza, la discriminazione e l'oppressione; queste aumentano fino al loro culmine, sotto la “tirannia”, la quale rende tutti gli uomini uguali (tranne pochi), perché “tutti non sono niente” e tutti dovranno spezzare la tirannide dei pochi: «È così la disuguaglianza si muta a sua volta in uguaglianza, non però nell'antica uguaglianza naturale degli uomini primitivi privi di linguaggio, ma in quella più elevata del contratto sociale. Gli oppressori vengono oppressi. È la negazione della negazione» (che ristabilisce l'uguaglianza e la libertà sostanziale di tutti gli uomini, attraverso la volontà collettiva, generale ed universale, del contratto sociale, forma altamente democratica della coesistenza sociale).

6) In questo senso, V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, trad. it., Milano, 2004, 57, 59 e 87, afferma «(...) il materialismo, in pieno accordo con le scienze naturali, considera come dato primordiale la materia e come dato secondario la coscienza, il pensiero, la sensazione; poiché la sensibilità è connessa, in una forma chiaramente espressa, unicamente alle forme superiori della materia (materia organica), mentre "nelle fondamenta dell'edificio stesso della materia" si può soltanto supporre l'esistenza di una facoltà simile alla sensibilità. (...)»; la sensazione è cioè «connessa soltanto a determinati processi che si svolgono nella materia organizzata in un determinato modo (...)» e le vere concezioni dei materialisti «non consistono nel dedurre la sensazione dal movimento della materia o nel ridurre la sensazione al movimento della materia, ma nel considerare la sensazione come una delle proprietà della materia in movimento. (…). Le scienze naturali affermano con sicurezza che la terra esisteva in condizioni tali che né l'uomo né in generale qualsiasi altro essere vivente esisteva e poteva esistere su di essa. La materia organica è un fenomeno ulteriore, frutto di un lunghissimo sviluppo. (…) La materia è primordiale, il pensiero, la coscienza, la sensazione sono il prodotto di uno sviluppo molto elevato. Questa è la teoria materialistica della conoscenza, sulla quale poggiano istintivamente le scienze naturali».

7) F. Engels, La dialettica della natura, 1883

Mario Cermignani

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