Rassegna stampa

«No all'arcobaleno» Ferrando lancia il Pcl

da Liberazione

5 Gennaio 2008

Rimini, primo congresso dopo la scissione dal Prc dell'area
di Progetto comunista: «Mai al governo con forze borghesi»

Scenografie minimali per la nascita del Partito comunista dei lavoratori un anno e mezzo dopo l'uscita dal Prc dell'area di Progetto comunista. In pratica solo due striscioni in sala ad annunciare il primo congresso e un manifesto all'ingresso dell'albergo che lo ospita di fronte al quale un paparazzo locale chiede a un gruppo di militanti di posare a pugno chiuso. Sul banchetto dei libri, tra i testi d'annata di Trockij, Lenin, Victor Serge, spicca "L'altra Rifondazione", il volume di Marco Ferrando, in mezzo a molte copie del manifesto-appello ("Cosa vogliamo") e poche t-shirts e adesivi con il simbolo della falce e martello sul mappamondo con cui il Pcl è deciso a «presentarsi senza autocensure in ogni luogo pubblico, ai cancelli delle fabbriche come alle elezioni», dice Ferrando, 54 anni, insegnante di filosofia, tra i portavoce dei primissimi Cobas della scuola alla fine degli anni ‘80. Genovese come Franco Grisolia, un anno più grande, inseparabili dal ‘74, dai tempi del Gruppo bolscevico leninista, ispirazione trockista, nucleo della formazione tenuta a battesimo nel congresso senza invitati esterni se non Lucio Manisco, ex parlamentare Prc poi nel Pdci - e gli ospiti stranieri di partiti fratelli del Crqi, il coordinamento per la rifondazione della Quarta internazionale, che ha il socio fondatore più noto in quel Partito Obrero che animò le battaglie dei piqueteros argentini. In sala 120 sedie per altrettanti delegati che, una volta uscite le telecamere, discuteranno a porte chiuse, fino a domani, i tre documenti su situazione italiana, contesto internazionale e assetti organizzativi del partito che dichiara, forse arrotondando, di avere 2mila iscritti divisi per 59 sezioni provinciali, con più di 10 iscritti, e 19 nuclei che non raggiungono la soglia della decina. Una presenza diffusa in tutta Italia con buchi solo in Friuli e Basilicata e punti di forza in Emilia Romagna, Calabria, Torino, Brianza. Qualche consigliere comunale, una sola, Patrizia Turchi di Savona, in un capoluogo di provincia. D'altra parte uno dei quattro principi programmatici è l'allergia a coalizioni, locali o nazionali, di governo con «forze borghesi». Le prime performance elettorali hanno registrato una media dell'1% nelle principali città - Genova, Ancona, Reggio Calabria - in cui il Pcl aveva presentato liste, e un exploit del 7% a Canicattì (Siracusa). Appena il 10% le donne delegate e pochi studenti per ammissione degli stessi organizzatori: «Quasi tutti i ragazzi che vedi sono giovani operai - spiega a Liberazione, Franco Grisolia, impiegato assicurativo e figura di spicco della Rete 28 aprile della Cgil di cui è stato vice presidente del collegio di garanzia - non siamo proprio un'organizzazione di intellettuali». In presidenza, tra i membri della direzione uscente, due Rsu della Pirelli e della Fiat i Cassino. In platea, tra gli altri, Edo Rossi, mantovano, ex deputato Prc. «Nel nostro piccolo - riprende Ferrando - siamo un fenomeno di ricomposizione. I nostri militanti vengono da esperienze sindacali, dalla Fiom delle Meccaniche di Mirafiori, dallo Slai di Pomigliano, e da storie politiche diverse (Pci, Pdup, Dp, Prc)». Tuttavia la fase del «raggruppamento», quella che si chiude con il congresso, registra la fuoriuscita di un piccolo nucleo di attivisti cui andava stretta l'adesione al campo trockista e avrebbe preferito convergenze con altre tradizioni comuniste.
Dopo un minuto di commosso silenzio in memoria degli operai «assassinati dalla Thyssen Krupp», il congresso è entrato nel vivo con la relazione del portavoce, che sarà riconfermato, salvo colpi di scena, quando, domani, sarà eletto il nuovo gruppo dirigente collettivo. Parole durissime contro il Prc e il suo gruppo dirigente che non avrebbe mai fatto i conti col riformismo e con lo stalinismo fino alla mutazione irreversibile dell'«abbraccio arcobaleno», dei «trasformismi» da parte della «nuova socialdemocrazia», che nascerebbe con la «zavorra della compromissione» nel disincanto generale (effetto, per Ferrando, della combinazione tra i troppi sì - al protocollo, alle missioni di guerra - la liquidazione del simbolo e il rinvio del congresso) e nell'«impraticabilità di uno scambio sociale reale». Sosterrà Ferrando che nessuna delle rivendicazioni dell'era Berlusconi ha trovato buon esito con il governo Prodi, «comitato d'affari delle grandi imprese e delle banche», che la «sinistra di governo» ha «usato i movimenti per una scalata ministeriale». E su questo passaggio incassa uno degli applausi più lunghi prima di lanciare la proposta di una «vertenza generale» per l'aumento dei salari, l'abolizione di tutte le precarietà, il salario minimo, «da far pagare ai grandi patrimoni», come piattaforma per la ricomposizione del movimento operaio. Target del Pcl, «quel milione di lavoratori che hanno votato No nel teferendum truffaldino sul protocollo del 23 luglio da attirare con un programma «che non si ferma alle Colonne d'Ercole di questo sistema». Un percorso di cui si rivendica la coerenza, la «fermezza dei principi (la connessione tra obiettivi minimi e programma rivoluzionario, la costruzione internazionale, il potere dei lavoratori e l'opposizione ai governi borghesi)». Un percorso iniziato nel '91 quando Grisolia e Ferrando aderirono al Movimento per la Rifondazione comunista - prima ancora di Dp, nella quale militavano come minoranza dell'associazione Bandiera rossa - con l'obiettivo di una battaglia di frazione che troverà il suo punto più alto nel 10% al congresso del 2002 corrispondenti a 3-4mila voti e 500 militanti attivi. Da allora l'area programmatica ha subìto alcuni strappi con le defezioni del Pdac di Francesco Ricci (una scissione quantificata nel 15% del quadro attivo), di un nucleo napoletano e dell'area della Sinistra del Prc che non ha seguito Ferrando nella scissione quando, ricorda Grisolia, «l'ingresso al governo ha esaurito il senso della nostra presenza nel partito».

di Checchino Antonini

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