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Di produttività, metodologie di lavoro e alienazione

25 Agosto 2017
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Nel sistema economico attuale, lo sfruttamento del lavoro consente al capitale di ricavare profitti, possibilmente sempre più alti. Il salario che i lavoratori ne ricavano, per quanto misero, viene in larga parte versato per la sussistenza e per pagare tutti quei servizi sociali che lo stato non eroga più, per “tagliare la spesa pubblica”. All’arricchimento dei padroni corrisponde un impoverimento sempre maggiore dei salariati.

Ogni oggetto esige un lavoro manuale per fabbricarlo. Da questo presupposto non si scappa. Ma chi produce? Come si produce? Per chi si produce? Sono domande a cui la storia ha dato di volta in volta risposte diverse.

Per l’uomo della Preistoria, due milioni e mezzo di anni fa, non esistevano classi sociali e non esisteva il commercio. Gli oggetti venivano prodotti da chi li utilizzava. Si raccoglievano i prodotti della terra dove si trovavano. Quando i gruppi umani passarono dal nomadismo alla stanzialità, che assicurava un benessere e una sopravvivenza maggiore grazie all’agricoltura, cambiarono anche le strutture sociali e i rapporti tra le persone.

Si iniziò quel lento processo che porterà alla nascita delle strutture sociali come le conosciamo oggi: della proprietà privata (questo pezzo di terra è mio), della segregazione e oggettificazione femminile (questo pezzo di terra è mio e devo lasciarlo a figli miei, quindi tu sei la mia incubatrice), delle divinità maschili (visto che produco io, dio è a mia immagine e somiglianza e guarda caso mi dice dall’alto che ho ragione), della specializzazione e divisione del lavoro (se sto tutto il giorno nel campo non posso anche fabbricare vasellami e pelli), del baratto prima e del commercio poi, quindi della schiavitù (non puoi pagarmi i debiti quindi tu diventi merce e forza lavoro per me), delle guerre (voglio la tua terra che è più verde e produce di più).

Le civiltà egizia, assiro-babilonese, fenicia, greca e romana avevano un complesso sistema economico, sociale, commerciale, evoluzione di questi presupposti. Nel Medioevo nacque il capitalismo, in senso moderno, i proprietari terrieri e l’aristocrazia possedevano ricchezze e vite umane, i servi della gleba.

La scoperta e successiva violenta conquista del nuovo mondo e l’apertura delle nuove rotte commerciali fecero emergere una classe sociale finora marginale, quella dei commercianti e della borghesia, che con la rivoluzione francese reclamerà la sua fetta di potere e la sua sete di ricchezza. Sarà fautrice della rivoluzione industriale, dell’industrializzazione dell’agricoltura, della necessità universale del lavoro subordinato, reso obbligo di legge.

Dopo aver abbattuto la nobiltà, la borghesia, proprietaria dei mezzi di produzione, si dedicherà a trarre il massimo profitto da ciò che gli appartiene, dai commerci e dai lavoratori, e si dedicherà alla progressiva socializzazione del lavoro, all’organizzazione scientifica della produzione.

Accanto alla servitù della gleba che progressivamente decadrà solo sulla carta, nacque quindi la classe dei salariati, possessori di niente e di nessuno se non della propria forza lavoro, il proletariato, la maggioranza della popolazione mondiale.

La classe padronale odierna sa ormai che non serve più possedere formalmente le persone, come avveniva per i servi della gleba, ma che è possibile di fatto ottenere lo stesso risultato, avere uno schiavo, dandogli un misero salario con cui deve soddisfare, oltre ai bisogni primari, una serie di bisogni indotti che arricchiscono il padrone stesso. Come un criceto sulla ruota, il salariato lavora per mangiare, mangia per lavorare e quello che resta (se gli resta) lo versa nelle tasche del padronato per acquistare beni superflui. Il moto del salariato sulla ruota genera quindi un doppio vantaggio per la classe degli sfruttatori: il salariato produce valore per il padrone, si automantiene e finanzia il padrone con le proprie attività di sussistenza (cibo, affitto, ecc.), e con gli extra (l’ultimo telefonino). Un circolo vizioso con un unico beneficiario.

Il salariato è colui che fornisce l’elemento essenziale per la produzione delle merci, che le trasforma da materia prima a prodotto destinato alla vendita grazie alla sua forza lavoro.

Dalla prima decade dell’Ottocento in poi, con l’introduzione del primo telaio meccanico, il lavoratore è obbligato a competere con la macchina, ad averla come scomodo collega sul posto di lavoro. Secondo alcune stime entro 15 anni i robot sostituiranno circa il 40% dei lavoratori [1]. Un classico esempio lo si vede nei centri commerciali con le casse automatiche. Una macchina non si ammala, né fa figli e non ha bisogni primari con buona pace dei rapporti umani. Una macchina si può inceppare, ma non fa sciopero e, al netto del prezzo iniziale, della manutenzione e dell’ammortamento, non costa e non chiede nulla.

La crescente meccanizzazione del lavoro e della produzione spinge anche l’uomo a “meccanizzarsi”, in un ambiente di lavoro ibrido, dove umano e non umano coesistono e devono collaborare per massimizzare i profitti del padronato.

Nel tempo, dalle prime catene di montaggio ad oggi, la produzione ha conosciuto un’evoluzione vertiginosa nelle sue metodologie di ottimizzazione. Oggi non c’è stabilimento di medie-grandi dimensioni che non lavori in base a uno dei più frequenti metodi di massimizzazione dello sfruttamento di risorse, macchine e lavoratori.


LE METODOLOGIE DI AUMENTO DELLA PRODUTTIVITÀ: KAIZEN, 5S E BBS

Il metodo più usato è sicuramente il metodo Kaizen. Il nome deriva da due termini giapponesi Kai, cambiamento, e Zen, buono, tradotti volgarmente come “miglioramento continuo”. Il metodo Kaizen ottimizza ogni fase della produzione e fa diventare efficiente la microeconomia dell’impresa. In linea di massima, si porta al limite del collasso, in progressione, ogni livello o settore della catena di montaggio, in modo da capire qual è il punto massimo, quello di non ritorno, a cui uomini e macchine riescono a lavorare prima di cedere. E si fissa tale livello come standard minimo. Una folle rincorsa alla massima produttività, l’esasperazione inumana del lavoro. Tutto per il profitto del padrone.

Un altro metodo usato porta il nome di 5S, dalle 5 parole giapponesi che ne sintetizzano i passaggi.

Seiki (separa), Seiton (riordina), Seiso (pulisci), Seiketsu (standardizza), Shitsuke (diffondi).

Anche questo metodo consiste nel cercare il miglioramento continuo attraverso una serie di passaggi standard e ripetitivi. Un esempio pratico? Gli oggetti poco usati vengono etichettati da un cartellino rosso e messi da parte per un periodo massimo di 6/12 mesi. Se in questo lasso di tempo l’attrezzo non viene mai usato viene eliminato. Lavorando in modo sistematico e standardizzato il lavoratore non ha più bisogno né di una specializzazione né di pensare. Il massimo dell’alienazione.

Il metodo BBS è persino peggiore (se possibile). È stato messo a punto dallo psicologo americano Skinner, che ha scoperto la teoria del condizionamento operante. Secondo il metodo BBS, il comportamento del lavoratore può essere sì inibito attraverso la punizione, ma anche attraverso l’adozione di conseguenze positive, gratificando il soggetto che non compie l’errore. Grazie a questo metodo, i lavoratori cambieranno necessariamente i loro modo di operare, grazie al rinforzo positivo. E in cosa consiste la gratificazione? In qualche stabilimento italiano è una ricarica alla chiavetta del caffè o un miglioramento dei dispositivi di protezione individuali (i cosiddetti di dpi) o dare i pasticcini ogni venerdì del mese ad un determinato gruppo di lavoratori per aver svolto il proprio compito.

I lavoratori poi vengono divisi in gruppi: vi sono i leader e sotto i leader vi sono gli “osservatori”. Queste figure hanno il compito di osservare i colleghi e consigliare loro di avere atteggiamenti diversi, ad esempio non dimenticare il proprio casco o l’uso corretto di un attrezzo. Dal consiglio a un collega alla segnalazione alla direzione il passo è breve. In buona sostanza il padrone non ha più bisogno di avere un “infiltrato” o una spia, sono gli stessi lavoratori che si denunciano a vicenda in cambio di qualche nocciolina. La delazione diventa un sistema mafioso diffuso, non per un miglioramento collettivo delle condizioni lavorative, ma per qualche piccolo tornaconto personale. Il padrone ottiene molteplici vantaggi: la responsabilità della sicurezza e degli infortuni è scaricata sui lavoratori, i lavoratori sono divisi, non si percepiscono come un corpo unico che avanza rivendicazioni collettive, ma sono parcellizzati in tanti individui che lottano l’uno contro l’altro. Viene disinnescata in partenza qualsiasi possibilità di lotta unitaria. Divide et impera.

Questi metodi, mascherati da sistemi scientificamente evoluti e avanzati, non servono altro che a controllare i nuovi servi della gleba, a dividerli e metterli in competizione tra loro, a spremerli fino all’ultima goccia di sangue e a dare loro persino la colpa dei loro stessi infortuni.


LA VITA KAIZEN DEI SALARIATI

Sarebbe però un errore credere che questa “spremitura” di una classe sull’altra si limiti al posto di lavoro. Anche lo stato, espressione della classe dominante, ha adottato il metodo di “asciugatura” Kaizen nei servizi ai cittadini. Un miglioramento continuo dei servizi? No, il contrario. Il taglio costante, progressivo e inesorabile del welfare, la spinta verso il privato, la cancellazione progressiva di scuola, sanità, ricerca… Oggi il settore pubblico deve soddisfare gli standard produttivi del settore privato, anche se è un’evidente assurdità, dato che i servizi ai cittadini non possono essere che erogati in perdita.

Come possono essere produttivi sanità, scuole, ricerca scientifica, comuni, province e chi più ne ha più ne metta? Semplice: scaricandone i costi sulle spalle dei salariati e dei lavoratori. Un esempio: l’ospedale di in un piccolo centro abitato chiude, perché non più “produttivo”, si tiene aperto un solo polo sanitario che serve più territori, con un bacino di utenza spropositato, tempi di attesa biblici, disservizi assortiti. Così facendo si ottimizzano i costi, si spinge il paziente che se lo può permettere a fare visite private per diminuire i tempi di attesa, lo stato risparmia, i manager statali intascano lauti bonus per la loro “efficienza”, le cliniche private guadagnano sia dalle tasche dirette dei lavoratori, sia dalle convenzioni statali. E il metodo Kaizen è servito. Il “cittadino” viene spinto ai limiti dell’umana sopportazione: gli viene gradualmente tolto ciò che fino al giorno prima gli spettava, poco alla volta, una tappa dopo l’altra.

È poi facile far passare il sentimento diffuso che “la sanità non funziona”, “sono tutti corrotti” e che quindi non ci resta che fare una bella assicurazione sanitaria privata. Anzi, l’assicurazione sanitaria il padronato, con la complicità dei sindacati, ce la infila quatto quatto nel contratto di lavoro (vedi ccnl metalmeccanici), al posto degli aumenti salariali, come un padre padrone che non ci dà la paghetta che ci spetta, che la spenderemmo in quisquilie, ma ci paga in natura, in buoni benzina, in buoni salute, in buoni sopravvivenza. Esentasse, chiaramente. Perché dopo averci tolto i servizi pubblici, ci forniscono, a nostre spese, i loro servizi privati. Anche ciò che dovrebbe essere un diritto pagato con i soldi delle tasse trattenute da salari e stipendi diventa un’occasione di profitto per il padronato. Doppio giro di ruota per il nostro criceto.

Il capitale da sempre ci dice cosa e come produrre, come consumare, ci ha estraniato da noi stessi, ci dice che comportamenti adottare gli uni con gli altri, ci divide e stimola la nostra diffidenza attraverso metodi ed esperimenti lavorativi e sociali di cui siamo le cavie spesso inconsapevoli. Un trionfo su tutta la linea.

Il nodo da sciogliere, anzi da tagliare, non risiede nella crescente robotizzazione, nel miglioramento della produzione, del progresso. Non possiamo essere i ludditi del ventunesimo secolo, non dobbiamo distruggere le macchine o la produttività. Dobbiamo togliere la proprietà dei mezzi di produzione a chi non produce. I mezzi di produzione, più o meno avanzati, più o meno produttivi, devono essere in mano ai lavoratori. Allora sì che qualsiasi avanzamento, miglioramento o robotizzazione si tradurrà in un minore carico di lavoro, in un progresso, in una migliore qualità di vita. L’unica cosa che si frappone tra l’attuale sistema e una vita migliore, più facile, più bella e più lunga è la classe degli sfruttatori, il padronato. Quella classe basa la sua esistenza storica sulla schiavitù della massa. Una classe che la rivoluzione degli sfruttati deve spazzare via, appropriandosi dei mezzi di produzione, delle risorse umane, naturali e produttive. Senza chi sfrutta non vi sarà più sfruttamento.




[1] http://www.corrierecomunicazioni.it/digital/46504_pwc-il-40-dei-lavoratori-sara-sostituito-dai-robot-in-15-anni.htm

Masaniello

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