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Essere piccoli non significa non essere

26 Dicembre 2016
essere piccoli

L’esistenza di una qualsiasi forma di vita è la prova che vi sono le condizioni per la sua esistenza. Tuttavia, la semplice esistenza non specifica la condizione in cui essa si trova nella lotta per la sopravvivenza: se è in fase di sviluppo, di stasi o decadenza.

Tutto dipende dalla capacità di adattamento alle trasformazioni dell’ambiente circostante e dalla forza di competizione-interazione con le altre specie.

La scienza è in grado di prevedere l’estinzione o lo sviluppo di una determinata specie e può intervenire modificando il suo habitat affinché possa cominciare a svilupparsi di nuovo. Tuttavia, se le condizioni generali sono particolarmente sfavorevoli, la scienza è impotente di fronte alla grandiosità dei fenomeni naturali.
In questo caso l’unica strategia è adattare geneticamente la specie in decadenza, per renderla competitiva rispetto a suoi antagonisti naturali; rinunciare a intervenire significa condannarla all’estinzione.

Nella politica è la stessa cosa ma con l’essenziale differenza che la “coscienza di sé”, nella lotta fra gruppi di individui e classi sociali, è un fattore determinante, mentre in natura è una questione genetica. Per coscienza nella lotta politica si intende darsi un’identità, un programma, un’organizzazione, una tattica per il presente e una strategia per non perdersi in futuro. Preoccuparsi, anzi giustificare con i rapporti di forza sfavorevoli l’inazione o la titubanza produce soltanto sfiducia e confusione fra le proprie fila, aggravando il divario con le forze avversarie.

Essere minoranza è una condizione di cui prendere atto ma senza ritenerla eterna o superabile in un futuro indefinito, estraneo dal contesto attuale: rivoluzione e reazione nelle fasi di crisi sociale, politica ed economica sono entrambe possibili anche se, allo stato attuale, la reazione appare vincente. Questo non significa attaccare il nemico in campo aperto, al contrario, vuol dire cercare varchi fra le sue fila debilitate dalla caduta del saggio di profitto; e se è il caso ritirarsi senza colpo ferire.

Teorizzare l’impraticabilità del presente, e perciò rinunciare alla lotta per l’egemonia all’interno dei rapporti di produzione, lì dove si crea il valore, produce la tendenza a limitare l’azione nelle istituzioni rappresentative dello stato borghese, e perciò anche all’interno delle burocrazie sindacali che svolgono un ruolo fondamentale al servizio della stabilità politica e della pace sociale. Questa tendenza, oltre che svilire l’esperienza sul campo dei rapporti di produzione, contraddice lo stato effettivo della lotta di classe.
Cioè, è la mancanza di una direzione programmatica unificante, come strumento di unità politica della classe, e non già l’assenza di lotte che impedisce un salto di qualità, numerico e qualitativo, in grado di ribaltare i rapporti di forza fra capitale e lavoro. Laddove non può prodursi spontaneamente un salto di qualità, è essenziale il ruolo del partito e il suo radicamento all’interno dei luoghi di produzione.
Non c’è altra via di uscita, per quanto sia allo stato attuale estremamente difficile; ma se così non fosse non si capisce a cosa serva il partito.
Soltanto attraverso una spinta dal basso, dentro la classe lavoratrice, si può aprire lo spazio per una larga tendenza classista in grado di mettere in crisi l’egemonia delle burocrazie e non, al contrario, nella separazione degli apparati dirigenti creati dalle burocrazie medesime.

Mirare a coinvolgere la minoranza più cosciente, e a volte silente, della classe lavoratrici non risponde soltanto alla logica ovvia del partito rivoluzionario ma è essenziale per promuovere una crescita sinergica fra la classe e le sue avanguardie.
Costruire rapporti, presidiare i punti di crisi, promuovere incontri, enti intermedi di confronto e di formazione, fare propaganda e dove possibile agitazione, corrisponde a sperimentare le lezioni storiche del comunismo rivoluzionario e, in fieri, i primi passi del “programma di transizione”.

Teoria e prassi sono due entità che impiegano energie diverse, ma che si intrecciano fra loro, come le figure incise sulle due facce di una moneta che gira vorticosamente su se stessa.
Per distinguerne i tratti precisi è necessario fermare il movimento ma, inevitabilmente la moneta cadrà su un lato e l’altro rimarrà nascosto e dimenticato.

In questo senso il comunismo è l’equilibrio in movimento.

Stefano Falai

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