Interventi

Senza nessuna soddisfazione, prepariamoci a combattere questo sovversivismo reazionario

10 Novembre 2016
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Leggo in queste prime ore molti commenti sul risultato inaspettato di Trump. Oltre la sorpresa, l’ironia e qualche preoccupazione, emerge spesso un ghigno di soddisfazione. Per l’ennesima toppata degli istituti demoscopici, certo. Ma anche per il risultato stesso. La sconfitta della stabilità, dell’ordine delle cose esistenti. La disfatta del politically correct e del moderatismo. Davanti alla profondità della terza Grande Depressione, nella crisi di sistema che stiamo attraversando, le soluzioni più credibili diventano quelle radicali, quelle che cambiano realmente i (dis)equilibri di fondo. C’è quindi spesso soddisfazione per la constatazione che le elezioni non si vincono più “al centro”, e allora c’è forse nuovamente spazio anche per una nuova sinistra radicale.

Posizioni ed emozioni che in qualche modo fanno eco alle riflessioni di qualche giorni fa di Slavoj Zižek: di fronte ad una Clinton candidata della continuità dell’establishment finanziario e politico USA, Trump rivela una carica rivoluzionaria, una soggettività antisistema che può aiutare a destrutturare “la bestia” a partire dal suo cuore pulsante. Come scrive Celada oggi sul Manifesto, proprio in riferimento a Zižek, un “fuoco purificatore”, nichilista e xenofobo, “che è necessario attraversare per poter costruire sulle macerie della democrazia tardo-liberista qualcosa di nuovo”. Zižek riesce sempre ad esser destrutturante: propone un punto di vista diverso che in qualche modo, come abbiamo visto nei commenti di questa mattina, intercetta anche il senso comune di molti e di molte.

Eppure non sono convinto. Né da queste considerazioni. Né dal senso di sardonica soddisfazione che vedo emergere diffusamente. Intendiamoci. Per me Hillary Clinton Rodham, rappresenta proprio “il programma di una gestione oculata e moderata di una globalizzazione crepuscolare” (sempre Celada oggi sul Manifesto). Esattamente quella continuità nefasta dell’ordine delle cose esistenti, e delle politiche neoliberali di gestione della crisi, che tante e tanti sottolineano. Non era un’alternativa “migliore” di Trump. Non avrei votato per lei. Non sarei stato neanche soddisfatto di una sua vittoria. Sono solo due “peggiori” a confronto, nessuno dei quali è “meno peggio” dell’altro.
Trump però rappresenta un sovversivismo reazionario. Un ribaltamento di prassi, istituzioni e rituali borghesi in crisi evidente di egemonia. Questo ribaltamento, però, non mette in discussione né le gerarchie esistenti, né tantomeno il modo di produzione da cui origino quelle gerarchie. È un ribaltamento dell’attuale sistema di regolazione sociale, costruito sull’immaginario di una riconquista nostalgica di un mondo mai vissuto.

L’illusione che possa esistere una matrice comunitaria originaria, in grado di stendere una cortina protettiva rispetto a forze oramai diventate troppo grandi e quindi ingestibili per le singole persone: i mercati finanziari, le banche internazionali, le grandi migrazioni, il terrorismo globale, la guerra generalizzata. L’illusione che si possa costruire un mondo di piccoli produttori, in naturale armonia con gli altri appartenenti alla propria comunità, in naturale isolamento dal mondo esterno (minaccioso e spaventevole), in grado di contenere o spezzare ogni Grande Entità Minacciosa di quest’ordine naturale. In grado quindi anche di espellere, se necessario, qualunque minaccia interna alla propria comunità originaria (siano essi migranti o dissidenti, una casta politica riottosa da rottamare o un soggetto che difende degli interessi di parte, come il sindacato). In grado, soprattutto, di garantire continuità agli assetti strutturali di fondo della nostra società, quando “l’inverno sta arrivando”, in un momento di grandi turbolenze e instabilità. È, cioè, la matrice di fondo di un programma fascista.
Di qualunque programma fascista. Programmi oggi diffusi nel mondo del tardo capitalismo (non parlo qui dei nazionalismi moderni in Asia, dal BIP indiano alla destra coreana, da Xi Jinping in Cina a Duterte nelle Filippine, che pur con tratti simili originano da altre dinamiche, dall’ascesa di un nuovo capitalismo e della sua borghesia competitiva). Parlo dell’espansione di movimenti populistici in Europa, dell’UKIP in Gran Bretagna, di Fidesz in Ungheria, del FPO in Austria, dei Democratici Svedesi o, in Italia, di alcuni tratti del salvinismo della Lega e del grillismo dei cinquestelle.

Questo sovversivismo postmoderno ha tratti diversi dai classici movimenti degli anni Trenta. In particolare, rimane un programma comunitarista sostanzialmente declamatorio. Un fascismo, cioè, “gentile”, tutto chiacchere e anche poco distintivo. In questo diverso anche dal fascismo islamico, che al contrario si distingue proprio per il suo uso diffuso della forza, per l’annichilimento fisico di ogni opposizione al proprio comunitarismo religioso. Quello postmoderno è quindi un fascismo “mediatico”, che non si organizza capillarmente e militarmente nella società, ma che pervade il senso comune, conquistando popoli ed anche governi. Un fascismo comunque non meno pericoloso, in quanto rimane autoritario, programmaticamente votato ad eliminare ogni minaccia al suo immaginario comunitario: non ha quindi problemi ad agire con la sua forza repressiva, soprattutto una volta che ha conquistato il governo delle istituzioni.

È un fascismo, inoltre, socialmente attento, che conquista dappertutto (in USA, in Gran Bretagna o anche in Italia), il consenso di ampi strati di classe. Nei paesi a tardo capitalismo è in corso da decenni uno scollamento tra la sinistra ed il suo novecentesco riferimento di classe. In questo vuoto, in cui la sinistra si è per di più sempre più caratterizzata come la forza della gestione responsabile della globalizzazione neoliberista, si è quindi inserita questa nuova destra postmoderna, centrata sulla costruzione di comunità identitarie aclassiste (la razza, il popolo della rete, la fede religiosa, ecc). Trump, e la crescita di questo fascismo postmoderno, allora, è anche una nostra sconfitta. Un portato dell’arretramento della coscienza di classe e della disgregazione in corso delle sue identità collettive, favorito dal comportamento e dall’azione delle sinistre di questi anni. Soprattutto, e qui il punto che voglio sottolineare, è l’indicatore della necessità di uno scontro diretto con questa destra postmoderna, non meno aspro e pesante di quello passato.

Il movimento antifascista non si può infatti caratterizzare sulla difesa dell’esistente, di una borghesia liberale e di un quadro istituzionale che promuovono la disuguaglianza e massacrano socialmente popoli e persone. Come non si può nemmeno caratterizzare sulla costruzione di ampi fronti popolari, sull’ipotesi di ampi compromessi sociali che proprio questa fase decadente del tardo capitalismo rende evanescenti. L’antifascismo postmoderno non può che ricostruirsi sull’unità di classe: la riproposizione di interessi e immaginari del lavoro, contro le attuali disuguaglianze e le sue cause, cioè il sistema capitalista che le origina (quel programma alternativo evocato, e spesso solo evocato, da Sanders e dai suoi vaghi riferimenti al socialismo).

Questo antifascismo, però, non può nemmeno proporsi semplicemente nelle classiche modalità dell’antifascismo militante, della forza e dell’autodifesa. Proprio perché questo fascismo postmoderno ha il profilo mediatico della costruzione di immaginari, delle chiacchiere e dei pochi distintivi, facendosi forza dell’evoluzione concreta dei processi in corso (la crescita della disuguaglianza, la polarizzazione fra blocchi, l’impoverimento di massa), il suo contrasto deve oggi giocarsi prioritariamente sul terreno della propaganda, della costruzione di prospettive e simboli, di una nuova mitopoiesi, che si costruisce a partire dai conflitti sociali reali, dai processi di resistenza sociale diffusi. Deve cioè prioritariamente porsi l’obbiettivo di riconnettere il materiale e l’immaginario.

Per questo oggi non sorrido sardonicamente. Perché la vittoria di Trump ricorda anche la nostra sconfitta e soprattutto la nostra impreparazione per i prossimi scontri. Come, in Italia, ce lo ricorda la difficoltà di tutta la sinistra a combattere politicamente il grillismo ed il Movimento 5 Stelle. Per questo, oggi, dopo il voto a Trump, ritengo che la questione principale sia la preparazione ed il rilancio di una battaglia contro questa destra postmoderna.

Luca Scacchi

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