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Burkini: da quando la repressione dello Stato ci darà la libertà?
Potremmo davvero lottare per il diritto delle donne a disporre dei propri corpi con una proibizione statale?
27 Agosto 2016
È certo che la stragrande maggioranza delle dichiarazioni e posizioni a favore del divieto del burkini sulle spiagge è stata vergognosamente giustificata con il pretesto dello “stato di emergenza” e della lotta contro il terrorismo, mettendo così in relazione esplicita la religione musulmana con il terrorismo, in un contesto tra l’altro in cui l'islamofobia è in aumento. L’altra parte di coloro che difendono questo divieto si basa su argomentazioni che provengono dal femminismo borghese. La proibizione del burkini sarebbe, secondo questa prospettiva, un modo di lottare per i diritti delle donne, e di conseguenza, il diritto di decidere del loro corpo, il diritto di vestirsi come vogliono e di liberarsi dal dominio patriarcale dei loro padri, dei loro mariti e dei loro fratelli. Questi problemi riaccendono le discussioni che avevano avuto luogo durante l'applicazione della legge contro il velo nelle scuole nel 2004, che aveva diviso e divide tuttora il movimento femminista in Francia. Possiamo davvero lottare per il diritto delle donne a governare i loro corpi con un divieto? Possiamo lottare contro le regole imposte dalle istituzioni religiose utilizzando come strumento la repressione dello Stato?
I CORPI DELLE DONNE, LA RELIGIONE E LO STATO
Nel 2004, durante l'applicazione della legge contro il velo nelle scuole, una parte del movimento femminista (di matrice borghese e “universalista”) si è dichiarato a favore di questa nuova riforma. Come per il dibattito sulla prostituzione, la questione del velo ha prodotto una grande linea di frammentazione che ha avuto luogo nel movimento delle donne, in questi ultimi anni. A quel tempo, sotto il governo Raffarin, ministro degli interni Sarkozy, la logica della lotta al terrorismo era molto meno avanzata rispetto ad oggi, il che non significa che già dal 2004 la sicurezza dei cittadini veniva già usata come un argomento contro il velo (chissà che potevano nascondere 'queste donne' sotto il velo...). Per una parte del movimento femminista, questa legge era un’occasione per lottare contro la religione, contro tutte le religioni, ossia quei sistemi che ci hanno imposto, e impongono tutt’oggi, dei ruoli nelle funzioni, nell’abbigliamento e nelle posizioni assegnate alle donne. Pertanto, per alcuni proibire il velo nelle scuole è stato un modo per consentire alle giovani donne di liberarsi da tutte queste regole, per lo meno durante il loro percorso scolastico.
Come marxisti rivoluzionari, materialisti e atei, siamo critici della religione, in particolare con le istituzioni e le norme religiose: perché crediamo che la battaglia si combatta sulla terra e non in cielo, e che nessuna forza superiore possa dettarci in che modo agire o pensare. Nel dibattito che ci occupa oggi, vediamo chiaramente come le regole e le istituzioni religiose si sono appoggiate al patriarcato per rafforzare le catene che ci imprigionano. Sia nella religione cattolica che nell'Islam (per fare due esempi, ma ancor di più quando si tratta dei rami più estremi) il ruolo delle donne è stato ed è ancora quello di rimanere in casa sottomesse ai loro genitori, fratelli e mariti, per poter prendersi cura dei figli e “naturalmente” occuparsi delle faccende domestiche. Di fatto, oggi ci sono pochissime cerimonie di nozze tenute in chiesa dove il prete non predichi un sermone riaffermando alla moglie il ruolo di avere figli e di curare la casa, e al marito ricordandogli che deve curare e provvedere al fabbisogno di sua moglie e dei suoi discendenti. Anche i sostenitori del cattolicesimo esprimono gli aspetti più caricaturali.
Di conseguenza, il movimento femminista in Francia e nel resto del mondo ha dovuto combattere contro le istituzioni religiose. Per avere diritto di disporre del proprio corpo, del proprio tempo, della propria vita, per non essere considerate solo come madri e oggetti riproduttivi, per avere diritto alla contraccezione, all'aborto, il diritto alla sessualità libera, ad amare chiunque desideriamo. In Francia, nonostante i limiti imposti dalla società capitalista (e dalla sua ultima innovazione, l'austerità, che impone la chiusura dei centri di aborto e pianificazione familiare), il movimento femminista ha acquisito una serie di diritti per le donne che sono tuttora negati in numerosi paesi, soprattutto dalle istituzioni religiose e dai suoi dettami.
In alcuni paesi le donne lottano contro l'imposizione del velo. È il caso per esempio dell’Iran, dove portare l’hijab è divenuto obbligatorio dopo la Rivoluzione islamica del 1979. In Francia questi esempi vengono utilizzati per sostenere che il divieto del velo in questo paese verrebbe implicitamente sostenuto, incoraggiando (o almeno non scoraggiando) le donne in lotta contro le norme di abbigliamento che gli sono state imposte. In realtà, sarebbe davvero un’illusione pensare che il semplice “simbolo” di una legge approvata in Francia sia una misura che può davvero aiutare le donne che lottano giorno dopo giorno dall’altra parte del mondo - in particolare quando questa non è accompagnata da una dura critica a ciò che l'imperialismo francese impone alle donne del mondo intero (guerre, sfruttamento brutale nelle fabbriche gestite da capitalisti francesi, saccheggio delle risorse naturali, ecc). Inoltre, questi argomenti tendono a cancellare una importante realtà di lotta delle donne nei paesi musulmani: spesso infatti sottolineammo che questi movimenti femministi non sono solo concentrati sulla questione del velo. Le loro principali battaglie si concentrano sulla conquista della parità legale (il diritto al voto, di guidare, di costituire associazioni, di andare contro le riforme più retrograde del codice di famiglia che rafforzano ulteriormente la subordinazione delle donne, ecc.), o nel campo della lotta contro lo sfruttamento.
Quindi, ricordare queste donne solo per la battaglia contro il velo islamico è sminuire questa lotta.
Attraverso la storia (come ricordiamo in questo articolo), le donne dei paesi arabi hanno lottato: a volte contro il divieto del velo (come il notevole caso dell'Algeria, contro lo Stato coloniale francese che voleva togliere il velo alle donne per "civilizzarle"), in alcuni casi contro la loro volontà. Segno della fede in Dio e della imposizione patriarcale, vestito da combattimento per affrontare le molestie nelle strade: il velo, più che un accessorio del vestiario ha avuto e continua ad avere molteplici significati e molti usi. E quale donna, musulmana, cattolica o atea, potrebbe sostenere che il modo di vestire non è in realtà segnato dalla dottrina imposta dalla società patriarcale in cui vive? Una gonna, ma non troppo corta. Dei pantaloni, perché questa sera si deve tornare per una strada buia, e a volte un velo, per non attirare l'attenzione... e molte altre ragioni. Quello che vogliamo dire con questo è che il velo non è in sé un simbolo più forte di sottomissione a ideologie patriarcali di quello che potrebbero essere una gonna, un tanga, un paio di pantaloni o un paio di tacchi alti. Ciò che conta è che siano le donne a scegliere, e solo loro. È per questo che lottano e continuano a lottare, in Francia e in tutto il mondo. E questa lotta, anche quando rivolta contro le istituzioni e le norme religiose, non può essere lasciata nelle mani dello Stato.
ILLUSIONE ISTITUZIONALE, LA DERIVA IMPERIALISTA
Lo Stato francese pretende (o meglio, questo è uno dei suoi slogan) di liberare le donne attraverso il divieto di indossare il velo a scuola o il burkini sulle spiagge, permettendo loro di essere liberate dal giogo patriarcale della religione. Le immagini di poliziotti che ispezionano le spiagge d'estate e infliggono delle multe a delle donne che desiderano solo passare del tempo in tranquillità con i loro figli, mettono rapidamente in dubbio tale visione di "liberazione". Ma per tutti coloro che continuano a vedervi un gesto benefico del nostro "amato Paese dei diritti umani", esaminiamo in dettaglio a cosa ci conduce questa logica. In linea di principio, l'idea alla base del divieto è che le donne vengono brutalmente oppresse dal burkini, costrette a coprirsi dalla testa ai piedi a causa delle norme religiose imposte dai loro mariti, padri o fratelli. Pertanto, il divieto e la punizione con la multa rappresenterebbero un modo per "aiutarle" costringendole (col disaccordo dei loro mariti, padri o fratelli) a denudarsi. Questo è il nocciolo della questione. In questo caso le autorità, religiose e/o patriarcali, imporrebbero alle donne di non fare il bagno perché non indossano un abbigliamento adeguato, o in alternativa rimanere in burkini pagando la multa. Oppure si considera che le autorità religiose e/o patriarcali sono deboli e indossare il burkini è una scelta delle donne, e in questo caso il divieto e la multa andrebbero a punire solo le donne che opprimono se stesse o che non sono in grado di capire che una donna libera è una donna in bikini. Si tratta, in questo caso, di un divieto che mira a “civilizzare”, e, in definitiva è un decreto razzista e neocoloniale.
In nessuno dei casi offriamo comunque un'alternativa o un ricorso concreto a quelle donne che sono costrette a indossare il burkini a causa dei loro mariti. Le mandiamo a casa o le imponiamo una moda “civilizzata”, corretta per la polizia e il governo.
Per far sì che le donne - tutte le donne - possano decidere da sole del proprio abbigliamento, le loro credenze, i loro modi di vita, la soluzione non è quella di inviare la polizia e di fatto proibire l'accesso a determinati luoghi. Per lottare concretamente contro il patriarcato, e in particolare contro le loro credenze religiose, dobbiamo lottare per i nostri diritti (diritto alla contraccezione, all’aborto libero, gratuito e accessibile...) contro la violenza sulle donne (per i centri di accoglienza per le donne vittime di violenza, contro l'impunità per gli aggressori, contro la violenza della polizia...), e soprattutto per una vera eguaglianza (parificazione dei salari, mettere fine ai contratti precari che colpiscono soprattutto le donne, parità nell'accesso a tutte le professioni...).
Lo Stato francese, che porta avanti le politiche dei grandi gruppi capitalisti, per poterci sfruttare sempre più (la legge El Khomri è solo l'ultimo esempio) e difende il suo ruolo di Stato imperialista (una guerra all'anno dall’inizio del mandato di Hollande), è ben lungi dall'essere un nostro alleato, un alleato delle donne, oppresse e sfruttate. La manipolazione che è stata fatta delle istanze femministe con il fine di perpetuare politiche securitarie e razziste è inaccettabile e scandaloso.
Di fronte alla ondata reazionaria, dobbiamo tornare al nostro slogan di lotta collettiva e militante degli anni ’70: «Non ci libererete voi, lo faremo noi»