Interventi

I comunisti e l'Europa

30 Giugno 2016
EU



Il risultato della Brexit sta stimolando un grande dibattito sul tema dell'Europa e pone importanti quesiti alla sinistra e ai rivoluzionari. È di stringente importanza affrontare questi nodi che, come vedremo, sono molto spesso posti al dibattito come domande a trabocchetto. Saper riconoscere una domanda sbagliata è importante almeno quanto saper dare una risposta ad un interrogativo posto correttamente.

Questo breve testo di commento politico si pone in continuità con il testo già pubblicato come partito il 25 giugno (1).

Autonomia delle ragioni di classe e questione del potere sono i due grandi rimossi dal dibattito sul tema dell'Europa (e dell'euro) di questi anni. Nel panorama della sinistra italiana ed europea i commenti entusiasti del campo neostalinista per la vittoria della Brexit si alternano ai toni da rimprovero per l'UE che vengono dai settori riformisti e centristi: l'UE sarebbe stata incapace di diventare “dei popoli e solidale” e dunque ora starebbe mangiando la polvere che si merita per non aver ascoltato i buoni consigli di chi la voleva riformata. Queste due posizioni, che sembrano irriducibili, muovono in realtà dal medesimo principio di fondo: l'interclassismo come orizzonte, la compromissione con la borghesia come strategia.


IL VOTO PER LA BREXIT È UN VOTO CLASSISTA E DI SINISTRA?

A partire dalla conclusione degli scrutini, si stanno susseguendo fiumi di analisi dei voti per stato, per regione, per quartiere. L'ipotesi che viene formulata dagli indagatori che appartengono allo schieramento degli entusiasti per la vittoria del Leave è che se c'è un voto classista e popolare allora questa è la dimostrazione de facto che la Brexit è una cosa di sinistra ed è buona e giusta per i lavoratori inglesi e continentali. Questo però è esattamente il contrario di come si dovrebbero affrontare nodi politici cruciali come il referendum appena trascorso.

La metodologia applicata dallo schieramento degli entusiasti è quello di formulare una ipotesi e poi cercare con la lente d'ingrandimento anche la benché minima prova che l'ipotesi possa essere anche solo parzialmente confermata. In questo caso, l'ipotesi è che l'Unione Europea in quanto tale è il principale nemico da abbattere, il risultato del referendum è il campo di indagine, e il voto maggioritario per il Leave delle aree industriali e dei quartieri popolari inglesi è la prova provata che l'ipotesi è confermata e che va di comune accordo col sentimento antieuropeo delle masse proletarie.
Questo metodo però capovolge esattamente i fattori in gioco e cerca di forzare la realtà al solo scopo di confermare l'ipotesi iniziale, e in questo è completamente ideologico.

In primo luogo stupisce come ad uno strumento che appartiene interamente all'armamentario del nemico, quello del voto (sia pure referendario) venga data la valenza di strumento integralmente nelle mani della classe. Le masse popolari avrebbero, si lascia intendere, fatto saltare il banco del nemico capovolgendo un risultato già scritto. È vero che le aspettative dei mercati e dei principali gruppi industriali inglesi sono state disattese, ma il colpo di scena è segnato da una torsione reazionaria e non già da uno slancio in avanti delle masse lavoratrici britanniche. Il voto, che sia elettivo o referendario, all'interno della legalità borghese è sempre uno strumento che appartiene al nemico e non può, preso nella sua crudità, essere considerato uno strumento di trasformazione sociale.

Per questo il voto del referendum britannico e quello del referendum greco sono così sostanzialmente diversi l'uno dall'altro pur presentando somiglianze formali straordinarie. Tanto il referendum greco quanto quello britannico nascono dal calcolo politico dei rispettivi primi ministri, e pur trattando argomenti diversi (la permanenza nell'UE e l'accettazione del piano della troika per la Grecia) sono stati strumenti di braccio di ferro sia interni che esterni. In Grecia, Tsipras, di fronte alla rottura del tavolo delle trattative da parte dei creditori, rischiava la rapida disgregazione del suo governo, del suo gruppo parlamentare, della stessa Syriza. Nel Regno Unito, Cameron, pressato nel Partito Conservatore e nel governo da Boris Johnson, e dall'esterno dal crescente consenso dell'UKIP di Farage, ha voluto usare lo strumento del referendum per rompere l'accerchiamento e sventolare le concessioni ottenute in sede di trattativa con l'UE per rilanciare la propria leadership e per ribadire il ruolo privilegiato e “a statuto speciale” della Gran Bretagna all'interno dell'Unione.

Nel caso del referendum greco il voto plebiscitario per l'OXI è esploso come un enorme ritorno di fiamma della straordinaria mobilitazione operaia e giovanile del proletariato ellenico che per anni è stato protagonista della lotta contro i suoi governi e i diktat della troika, sfruttando tutto il migliore arsenale di strumenti di lotta di cui è tradizionalmente a disposizione, dagli scioperi ad oltranza all'occupazione delle fabbriche, sino all'assedio del parlamento. Il riflusso odierno del grande movimento greco è la misura del tradimento del governo Tsipras e della sua capitolazione, oltre che della drammatica assenza di una direzione rivoluzionaria delle lotte che quel movimento hanno animato, ma il significato politico e sociale del voto al referendum è chiaro e incontestabile: è stato un voto a difesa dei salari, dei diritti sociali, delle condizioni di vita della classe lavoratrice greca, di tutto ciò che era minacciato dalle imposizioni della troika. Dunque un voto progressivo, e in quanto tale era un voto per il quale i marxisti rivoluzionari erano chiamati giustamente a battersi.
Lo scenario della Brexit invece è completamente differente. La campagna per il Leave è stata animata dalle principali forze reazionarie britanniche, dall'UKIP ai movimenti fascisti, dalla destra del Partito Conservatore sino a settori importanti della piccola borghesia commerciale, e si è imperniata sugli assi portanti della xenofobia, con lo spauracchio dell'accampamento di Calais e del nazionalismo di ritorno, in difesa di capitali e interessi di bottega nazionali.
Non basta il supporto minoritario alla campagna del Leave di alcuni partiti stalinisti o centristi a trasformare un contesto reazionario in qualcosa di progressivo. Il punto cruciale è però un altro: è sbagliato etichettare come classista un evento come il risultato della Brexit per il semplice fatto che una buona parte della classe ha votato per il Leave. Il voto non è espressione diretta della classe, semplicemente perché la classe non ha partecipato attivamente alla campagna in nessun modo, con nessuno dei suoi strumenti di mobilitazione, e non ha espresso alcuna rivendicazione progressiva in questo contesto, ma ha subìto passivamente l'azione e la propaganda delle forze reazionarie promotrici.

Siamo dunque davanti ad uno scenario in cui la Brexit rappresenta la vittoria di un ampio fronte reazionario, nemico dei lavoratori britannici ed europei.


EUROPA SÌ O EUROPA NO?

Come devono porsi dunque i comunisti nei confronti dell'Europa e dell'Unione Europea?
L'Unione Europea non è mai stata un semplice progetto di integrazione istituzionale continentale, ma si è invece sviluppata come terreno strutturale di concertazione di tutti i principali stati capitalisti europei. Il progetto è stato a lungo imprigionato in contraddizioni strutturali che sono apparse insanabili. Per poter emergere come polo imperialista autonomo, in grado di competere con concorrenti vecchi e nuovi, il percorso federativo esigeva l'adozione di un vero governo centrale, il completamento della costruzione di un vero mercato unico di capitali e finanze, e l'emancipazione militare dagli Stati Uniti; ma al contempo lo strisciare inesorabile della grande crisi esplosa nel 2008 ha rimesso in primo piano le divergenze e le disuguaglianze tra i singoli imperialismi e i singoli capitalismi che compongono l'UE. Ad otto anni dall'inizio della crisi questi fattori sembrano iniziare a combinarsi in un passaggio di qualità, e il delicato equilibrio ha iniziato a conoscere degli scossoni più significativi di cui la Brexit rappresenta ad oggi l'apice.

Da comunisti non abbiamo mai avuto il feticcio dell'Unione Europea né dell'Europa come entità astratta, al contrario di tutte le sinistre riformiste che dietro la parola d'ordine de “l'Europa democratica e solidale” hanno mascherato il loro sostegno a tutti i governi delle socialdemocrazie europee, da Zapatero a Jospin ai governi Prodi. Anche oggi che i partiti tradizionalmente socialdemocratici stanno completando la loro metamorfosi in partiti dell'austerità (ma essendo sempre stati partiti dalle politiche antioperaie) le sinistre riformiste vivono la rottura con questi partiti come uno stato di abbandono, piuttosto che come un fattore di rilancio di una prospettiva politica indipendente. Persino in quest'ultima tornata di elezioni amministrative nostrane, caratterizzate dalla polarizzazione intorno ai tre poli populisti renziano, leghista e cinquestellato, quello che rimane di SEL, Rifondazione Comunista e dintorni hanno agganciato il treno del PD dovunque hanno potuto, dimostrando di non aver mai maturato, in nessuna misura, la volontà di una rottura politica con la prospettiva del governo di centrosinistra e dunque con la compromissione mortifera col Partito Democratico.
Al contrario, da comunisti, non ci siamo mai subordinati all'Unione Europea e al suo orizzonte, non abbiamo mai ritenuto possibile la sua democratizzazione, per il semplice fatto che non è possibile alcuna riforma del capitalismo. Per questo la prospettiva strategica degli Stati Uniti Socialisti d'Europa è l'unica proposta politica capace di porsi frontalmente contro il capitalismo europeo e dunque l'unica proposta coerente contro l'Unione Europea. Da questo punto di vista, dunque, la Brexit non rappresenta un tassello in avanti verso la prospettiva di fondo di un socialismo continentale. Di più: la stessa rottura dell'UE pur che sia, con qualunque alleato, come viene proposta da diversi settori dello stalinismo, non rappresenta di per sé un passo in avanti, una tappa progressiva. Lo scenario della Brexit e i desideri imitativi di tutti i fronti reazionari che avanzano nei paesi continentali delineano un ripiegamento reazionario che rischia di egemonizzare anche le aspettative del proletariato europeo, di fatto emarginando dal dibattito e dall'azione politica reale le sue rivendicazioni indipendenti.

Il movimento operaio affronta questa fase di acuta crisi del capitalismo al netto della più profonda crisi storica della sua direzione politica. Non manca la disponibilità alla lotta della classe, come ampiamente dimostrato dall'enorme e generoso sforzo prodotto negli ultimi anni dal proletariato greco, come dalla recente e straordinaria mobilitazione dei lavoratori e della gioventù francesi, che sfidando lo stato di emergenza e lo stragismo fascioislamista stanno mettendo in campo una impressionante prova di forza contro la Loi Travail del governo Hollande; e più in generale come mostrato da ogni piccola e grande vertenza o mobilitazione che ha attraversato e attraversa i paesi del vecchio continente. Quello che manca è una direzione politica del movimento operaio che sappia dare a questa disponibilità, all'enorme forza ancora inespressa dalla classe operaia europea una direzione rivoluzionaria, che sappia mettere le rivendicazioni transitorie al centro dell'agenda, che sappia porre la questione degli Stati Uniti Socialisti d'Europa. Per fare questo due ingredienti sono imprescindibili: l'indipendenza politica e programmatica tanto dall'UE quanto dalle borghesie nazionali, e la consapevolezza della centralità della questione del potere.


PIANO A O PIANO B?

Con l'avanzare della crisi di consenso delle politiche europeiste, capita sempre più spesso di sentir chiedere se il capitale europeo abbia un Piano B all'esistenza dell'UE. Il tema sarebbe anche interessante se non fosse che ha più l'effetto di alzare una cortina fumogena intorno alla radice dei problemi, che non quello di aiutare a risolverli.

I capitalismi europei possono fare a meno dell'Unione Europea? La posta in gioco, rappresentata in primo luogo dalle aspirazioni dei principali imperialismi europei (francese, italiano, tedesco ma anche quello britannico) a competere con i poli imperialisti concorrenti è troppo alta perché oggi le loro leadership mettano seriamente in discussione il progetto dell'UE. Malgrado questo, l'Europa ha subìto dal punto di vista politico più degli altri gli effetti generalizzati della crisi, primo fra tutti l'enorme fenomeno migratorio, che si configura come un elemento deflagrante di lungo periodo, capace di riaccendere i peggiori sentimenti sciovinisti e xenofobi.
La china involutiva che l'UE sembra aver iniziato a discendere a partire dalla Brexit è tutta interna alle sue dinamiche politiche ed economiche, che sacrificando salari e diritti all'altare del grande capitale e della salvaguardia del mercato continentale ha finito col soffiare sul fuoco della polarizzazione delle divergenze interne, subendo gli effetti diseguali e combinati che si sono prodotti nei vari Stati dell'Unione.
Questo dato strutturale di crisi politica ed economica della UE rappresenta di per sé l'apertura di contraddizioni tali da mettere in crisi le fondamenta del capitalismo europeo? La risposta a questa domanda è allo stato attuale un deprimente no. Questo perché non sono le contraddizioni interne con cui il capitale convive a produrre un crollo verticale su se stesso. Al contrario, il capitalismo apre suo malgrado la possibilità alla sua distruzione quando apre varchi in cui l'unica classe rivoluzionaria, il proletariato, può inserirsi. E il proletariato continentale è oggi il grande ritardatario nel campo di battaglia. Non per una sua presunta estinzione, né tantomeno per una sua incapacità di esprimere radicalità, come abbiamo visto poco sopra esaminando i casi di Grecia e Francia, ma appunto per l'assenza di una sua direzione politica rivoluzionaria.

È per questo che, piuttosto che esaminare i piani A e i piani B del capitalismo europeo, dovremmo invece interrogarci sul Piano A dei comunisti di fronte alla fase. Il problema principale è esattamente che la maggioranza delle sinistre europee riformiste, centriste o staliniste, non hanno un piano A. Che si tratti ancora della speranza in un'Europa “dei popoli e solidale” o che si tratti del salire sul carro di questo o quel movimento interclassista o populista che sventola la bandiera anti-UE o anti-euro pur che sia, il tema di fondo è sempre il medesimo: la rimozione programmatica dell'indipendenza delle ragioni della classe operaia rispetto alle borghesie nazionali e internazionali, e della questione della conquista del potere politico da parte della classe medesima.
Sono questi i segni che caratterizzano in negativo ogni proposta di governo europeo riformatore, ma anche ogni proposta di rottura dell'UE pur che sia, e di conseguente ricollocamento geopolitico nell'alveo dei BRICS.

L'UE capitalista e imperialista non può conoscere riforma, così come la natura imperialista o di politica di potenza dei paesi chiave dei BRICS non possono certamente qualificare le borghesie di quegli stati come amiche dei lavoratori. È per tutti questi motivi che la rivendicazione degli Stati Uniti Socialisti d'Europa è l'unica proposta politica strategica progressiva di cui il proletariato europeo dispone. Perché tiene insieme tanto l'indipendenza delle ragioni di classe, quanto il tema della presa del potere. Ed è per questo che la strada corretta da indicare non è quella della Brexit, ma quella della sollevazione del proletariato francese, armato di tutti i suoi strumenti di intervento politico: gli scioperi ad oltranza, la resistenza alla repressione, la rottura del feticcio della legalità borghese, l'unificazione intorno alla classe operaia mobilitata di tutti i settori degli sfruttati e degli emarginati dalle politiche dei governi dell'austerità.
E poiché quella è la strada corretta, la battaglia perché il movimento francese non ripieghi su posizioni di compromesso, affinché chieda la cacciata del governo Hollande, e dunque metta esplicitamente sul banco anche il ruolo dell'UE; perché, in definitiva, assuma rivendicazioni transitorie, è tanto cruciale quanto urgente: il movimento francese merita una direzione politica rivoluzionaria. Il nostro appoggio, come PCL, va incondizionatamente a tutti quei compagni rivoluzionari che in Francia lavorano in questa direzione.
Solo un governo dei lavoratori come espressione diretta del loro potere politico può mettere veramente in discussione il capitalismo europeo e tutte le sue sovrastrutture politico-economiche, contro l'UE imperialista e contro ogni ripiegamento reazionario, diretta filiazione della crisi capitalistica mondiale. È questo il nostro piano A.




(1) http://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=5090

Nicola Sighinolfi

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