Teoria

In risposta alle note di Gian Franco Camboni sul «fiasco» del 1923

20 Giugno 2016
1923



Il 20 maggio questo sito ha pubblicato una serie di osservazioni di Gian Franco Camboni sull’argomento del mio testo apparso in aprile per i tipi della Colibrì: L’«Ottobre tedesco» del 1923 e il suo fallimento. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente. Ringraziando il Partito Comunista dei Lavoratori per l’ospitalità che mi concede e per la disponibilità che mostra all’apertura di un dibattito quanto mai importante, vengo subito al dunque.




Le osservazioni di Camboni contengono qualche riferimento al mio lavoro. Se quest’ultimo ha sollecitato le riflessioni di Camboni, la cosa non può farmi che piacere, indipendentemente dalle tesi, diverse dalle mie, che egli ha sostenuto. Camboni tuttavia, su alcuni fatti storici e politici di rilievo, ha calato, voglio pensare in modo involontario, una cortina fumogena che non contribuisce alla chiarezza e fatto alcune affermazioni per lo meno stravaganti. Ebbene, la chiarezza è indispensabile per avviare una discussione sul fallimento dell’«Ottobre tedesco» del 1923, che ha senso soltanto dal punto di vista indicato «a caldo» da Trotsky nel 1924 (Lezioni dell’Ottobre) e ripreso quando, nel 1931, lamentò che lo studio degli avvenimenti non fosse ancora neppure cominciato (Questioni di principio e questioni pratiche che l’Opposizione di sinistra deve affrontare): delineare un quadro concreto delle lotte capace di chiarire le ragioni della sconfitta e, ciò facendo, portare allo scoperto tutti i problemi che il movimento comunista aveva lasciato irrisolti. Sono sicuro che Camboni concorderà con me su questo.





La direzione nella quale avrebbe dovuto indirizzarsi lo studio del 1923 tedesco è stata poi tralasciata, come ho sostenuto nel saggio citato, anche da tutti coloro che dell’argomento si sono occupati collocandosi nell’ambito di quella tendenza composita che viene definita «storiografia militante» e che ha oscillato finora tra posizioni ultrasinistre (da quelle di osservanza bordighista o consiglista a quelle dei neotrotskisti legati alla rivista statunitense «Spartacist») e posizioni che concludono qualsiasi analisi constatando che le cose sarebbero andate nell’unico modo in cui potevano andare. Quest’ultima convinzione, per alcuni, varrebbe anche per la rivoluzione bolscevica, che sarebbe stata spazzata via dall’interno, il che è vero a mio avviso soltanto dal punto di vista della continuità di insegne rivendicata dallo stalinismo. Secondo coloro che condividono l’approccio agli avvenimenti che ho riassunto, avrebbe agito pertanto, e continuerebbe ad agire nel presente e nel futuro, un meccanismo infernale, che non lascerebbe spazio a possibili speranze visto che le classi dominanti dispongono di risorse infinitamente superiori rispetto a quelle dei loro avversari. Si badi, questo modo di considerare la storia, al fondo liquidatorio nei confronti del campo rivoluzionario, è stato caratteristico delle pagine dedicate al 1923 in Germania da uno studioso come Pierre Broué, che ho appunto citato e criticato nel mio saggio. Broué, il quale non ha mai rinunciato a definirsi trotskista, si è limitato ad affiancare una ricostruzione storica che i francesi definirebbero événementielle (anche pregevole, se si sorvola su alcuni silenzi signficativi) con un generico ottimismo sul destino del movimento rivoluzionario: un ottimismo privo di una base precisa sulla quale poggiare idee e attività politica. Su tale valutazione penso che Camboni si trovi in disaccordo con me, ma avrei preferito che formulasse esplicitamente il suo dissenso.




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Camboni ha iniziato le sue osservazioni ricordando l’indubbio ruolo positivo di Trotsky nel corso della guerra civile scoppiata in Russia dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi e sostenendo che da tale ruolo sarebbe derivata la necessità di mettere direttamente nelle sue mani le sorti della rivoluzione in Germania quando, nell’estate del 1923, si delineò in questo paese, fondamentale dal punto di vista della politica comunista, una situazione sempre più tesa nei rapporti tra le classi.





Si legge nelle osservazioni di Camboni:




Il posto di Trotsky era quello di capo militare dell’insurrezione tedesca. Radek […] il 23 agosto alla riunione dell’Ufficio politico del partito russo non sostenne la proposta di Brandler [presidente della KPD] di affidare il comando militare sul campo a Trotsky, come doveva essere. Zinoviev si oppose alla proposta del dirigente tedesco e la commissione militare fu composta da Radek e da altri tre. Radek non fece nessuna opposizione a Zinoviev. Questa è la pasta con cui era fatto Radek […]. Era il passaggio più importante della congiura della burocrazia nemica della rivoluzione socialista mondiale.








Considero sbagliati i giudizi di Camboni su Radek, anche alla luce di quelli formulati dallo stesso Trotsky, e perfino nel momento dei contrasti maggiori tra i due, che precedettero la capitolazione del primo allo stalinismo (si vedano, per esempio, Le tesi del compagno Radek, 1928, e Karl Radek e l’Opposizione, 1929). Radek fu uno tra i principali esponenti dell’Opposizione di sinistra fino al 1929 e di ciò Camboni non tiene conto, come trascura la lucidità con la quale proprio Radek denunciò la gravità dell’inizio della lotta contro il trotskismo nell’Unione Sovietica e lo fece nel cruciale mese di ottobre del 1923 con una lettera inviata all’Ufficio Politico bolscevico dalla Germania (questo documento si trova tra i materiali resi disponibili dall’apertura degli archivi ex sovietici). Tutti nutrono qualche antipatia e Camboni prova questo sentimento per la figura di Radek, ma l’antipatia non può spingere nessuno a fare di quest’ultimo il capofila della «congiura della burocrazia nemica della rivoluzione socialista». Ciò è molto grave, anche se è senz’altro vero che le debolezze degli «amici», tra i quali non si può non inserire Radek, hanno sempre contribuito a dar forza ai «nemici» della rivoluzione. Comunque, a fil di logica, con ciò che sostiene Camboni, si retrodata il fallimento dell’Ottobre tedesco e questa retrodatazione non corrisponde a una ricostruzione veritiera dei fatti.





È vero invece che Brandler, alla conferenza straordinaria di Mosca – non, come scritto da Camboni, il 23 agosto, quando la conferenza non era neppure iniziata e Brandler non era neppure giunto a Mosca (vi fu soltanto ai primi di settembre), ma questo non ha molta rilevanza – chiese che fosse inviato Trotsky in Germania per dirigere l’insurrezione progettata. Si oppose Zinov’ev, che avrebbe voluto andarvi personalmente in qualità di presidente dell’Internazionale Comunista. Stalin intervenne sottolineando i pericoli racchiusi sia nella prima sia nella seconda ipotesi e tutti i presenti alla conferenza, compresi Trotsky e Zinov’ev, concordarono sul fatto che tali pericoli andavano assolutamente evitati (basti pensare all’effetto che la scoperta possibile della presenza di uno dei due in Germania avrebbe avuto nei rapporti diplomatici internazionali).




Aggiungo che la commissione per la rivoluzione tedesca eletta nel corso di una riunione dell’Ufficio Politico bolscevico il 23 agosto (Radek, Pjatakov, Unszlicht e Šmidt) e rafforzata (con Kujbysev e Rudžutak) alla conferenza di settembre, non aveva il compito di sostituirsi alla direzione comunista locale, ma soltanto quello di affiancarla. In secondo luogo, l’inserimento nel vertice della KPD di un generale sovietico (con lo pseudonimo di Helmuth Wolf) non ebbe carattere politico, ma esclusivamente militare. In terzo luogo, le difficoltà della rivoluzione tedesca, fino alla predisposizione pratica del piano insurrezionale, non furono di tipo tecnico, bensì politico. E fu proprio Radek a sottolinearlo, prima ancora di Trotsky. Se si riduce la crisi della direzione rivoluzionaria a un fatto meramente tecnico, si finisce col dire che Brandler non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo al momento della assemblea di Chemnitz dei comitati di fabbrica (21-22 ottobre) che avrebbe dovuto dare il segnale dello sciopero generale mentre cominciava l’insurrezione. Può essere avvenuto anche un fenomeno del genere, ma una simile spiegazione non è sufficiente per delineare un quadro di insieme accettabile. Brandler comunque a Chemnitz ritirò la proposta dello sciopero di fronte all’opposizione dei socialdemocratici di sinistra con i quali i comunisti erano alleati e subito dopo passò ad archiviare i preparativi dell’insurrezione.
Per parte mia, ho ricostruito dettagliatamente come sono andate le cose – si tratta di fatti e non di opinioni – nel saggio pubblicato dalla Colibrì, facendo uso dei documenti usciti dagli archivi ex sovietici. Riassumo brevemente: ai primi di agosto cadde il governo Cuno sull’onda delle lotte di massa che erano andate crescendo dopo l’occupazione franco-belga della Ruhr; la manomissione da parte dell’imperialismo francese di un’area vitale aveva messo in crisi lo schieramento borghese nel paese, precipitando quest’ultimo in una situazione di giorno in giorno più disastrosa. Questa fu la situazione nella quale venne formata la commissione cui ho accennato e furono avviati i preparativi per tentare la conquista del potere da parte della KPD, nei quali si trovarono coinvolti un milione di proletari, alcune centinaia di migliaia di militanti del partito e tantissimi rivoluzionari di altri paesi. Un’esperienza, come notato da Victor Serge, che non si era mai verificata prima e non si verificò più successivamente. La commissione bolscevica fu, come ho scritto e documentato, costretta a prendere atto poi del ritiro della KPD dalla lotta e Radek e Pjatakov tentarono senza riuscirvi di salvare il salvabile. L’ultimo aspetto è molto importante, perché tutti gli storici, compreso Pierre Broué, hanno inspiegabilmente negato la cosa.




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Altro punto. Camboni afferma che il piano dell’insurrezione venne messo in soffitta – secondo passaggio della «congiura contro la rivoluzione» – alla conferenza di settembre quando Brandler e Radek si opposero alla fissazione di una data per l’insurrezione. L’argomento con il quale Radek si pronunciò in questo senso non fu che non si dovesse stabilire una data, come Camboni lascia intendere, ma che questo compito dovesse essere assolto in loco dalla direzione della KPD, la quale poteva vagliare tutti i dati della situazione meglio di chiunque lo avesse fatto da Mosca. Comunque, la data dell’insurrezione fu stabilita infine per il 23 ottobre e si intensificarono tutti i preparativi del caso.





Sentenzia Camboni: «Radek si trovò al posto sbagliato spinto da una sterile ambizione». Torniamo così al punto di partenza e, oltretutto, la frase non si capisce molto. A che cosa si riferisce Camboni? Toccherebbe a lui dirlo, ma non lo fa. E soprattutto non lo fa dopo aver riportato il piano approntato a Mosca con la collaborazione di Trotsky e Radek.




Fu Radek a riassumere efficacemente il progetto dell’«Ottobre tedesco»: il proletariato doveva prendere l’iniziativa in Sassonia e Turingia, a partire dalla difesa dei governi operai a partecipazione comunista, e tentare di utilizzare il potere locale per armarsi e per costruire, in queste regioni della Germania centrale, un muro tra la controrivoluzione bavarese e il governo borghese del Nord, impedendo i movimenti della Reichswehr. Nello stesso tempo, in tutto il Reich, il partito si doveva impegnare a mobilitare le masse in uno sciopero generale in difesa dei governi di Dresda e Weimar, minacciati dal governo berlinese. In quest’ambito doveva scattare l’insurrezione.
Detto che Camboni attribuisce erroneamente questa ricostruzione a Pierre Broué, mentre è di Radek (relazione alla riunione del Comitato Esecutivo Internazionale sulla sconfitta tedesca, gennaio 1924), non voglio entrare nel merito di ciò che egli sostiene a proposito delle istruzioni partite da Mosca per la KPD, in particolare sull’indicazione di «ignorare il generale Müller», comandante della Reichwehr in Sassonia, che prospettava, d’accordo con il governo presieduto da Stresemann, un intervento armato contro il governo operaio di Dresda. Quella frase, che suscita l’indignazione di Camboni, fu inserita in un telegramma di Zinov’ev relativo all’ingresso dei comunisti nel governo di Dresda e alla necessità di procedere all’armamento degli organismi di difesa del proletariato senza farsi intimidire dalle minacce del generale. La scansione temporale molto veloce degli avvenimenti – si trattò di giorni – dovrebbe indurre a una riflessione più attenta.
Non mi soffermo nemmeno sulle citazioni che Camboni fa da Clausewitz (Della guerra) e dal libro sulla Teoria dell’insurrezione (1936) del frontepopolarista (ed esponente nel secondo dopoguerra del Partito d’Azione, oltreché ministro nei governi Parri e De Gasperi) Emilio Lussu. Avrei molto da ridire, a partire dal fatto che l’insurrezione di cui si parla nel libro è quella in nome dell’antifascismo democratico, ma mi riservo di farlo in un’altra occasione, se si presenterà.
Per ora mi limito a citare Lussu su un argomento diverso e si capirà subito perché lo faccio:




Anche se non fossimo, come siamo, difensori dell’URSS, non avremmo alcuna simpatia per Trotski né per il trotskismo. Trotski è, per serietà politica, al di sotto di Stalin, e la sua cultura magniloquente rassomiglia molto alla sfoggiata ricchezza di certi pescicani estremamente intelligenti che la guerra ha reso celebri in Europa. Il trotskismo poi è quanto di più disordinato e demagogico abbia prodotto la lotta politica del dopoguerra (Commenti. Il nuovo processo di Mosca, «Giustizia e Libertà», n. 5, 29 gennaio 1937).








Se queste parole non possono servire a revocare automaticamente in dubbio tutti i contenuti di Teoria dell’insurrezione, dovrebbero suggerire per lo meno maggior cautela nell’uso di questo libro ai fini di un’analisi, che si dice ispirata alle considerazioni di Trotsky, degli avvenimenti del 1923.








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Vorrei riuscire a cogliere il nocciolo del problema senza dilungarmi troppo e passo a quanto scrive Camboni a proposito di quella che fu chiamata «linea Schlageter», dal nome di un nazionalista ucciso dai francesi mentre svolgeva un’azione di sabotaggio nella Ruhr occupata. Radek nell’estate propose, a partire dalla constatazione della riproposizione in Germania di una questione nazionale, una tattica per destabilizzare i ranghi dell'estrema destra, partecipando ai raduni nazionalistici (che non erano rivolti contro la classe operaia, bisogna sottolinearlo) e invitando i nazionalisti tedeschi alle iniziative pubbliche di propaganda della KPD, con una campagna di rivendicazione al proletariato della guida del movimento nazionale contro il trattato di Versailles, campagna che avrebbe dovuto far leva sugli atteggiamenti rinunciatari della borghesia e sulle contraddizioni delle sue forze politiche. Credo di aver riassunto in modo abbastanza chiaro nel mio scritto la «linea Schlageter» e la sua applicazione, che non fu contrastata né dal vertice dell’Internazionale, né da Trotsky, né dalla direzione della KPD. E questo è senz’altro un elemento sul quale riflettere.








Si chiede Camboni:








Quale utilità aveva [questa tattica] per la preparazione della classe operaia tedesca all’insurrezione e alla guerra civile rivoluzionaria? All’ordine del giorno c’era l’alleanza politico-militare con i settori più combattivi della classe operaia influenzati dalla socialdemocrazia e questa era la condizione principale per poter pianificare l’insurrezione.








Secondo Camboni la «linea Schlageter» fu quindi a dir poco un diversivo forse un preliminare della «congiura contro la rivoluzione» –, anche se egli non arriva certo a negarne l’obiettivo di destabilizzare i ranghi dell'estrema destra. Sostengo questa interpretazione perché per Camboni non esisteva una questione nazionale tedesca dopo l’occupazione della Ruhr. Lo si comprende nonostante qualche contorsione del discorso che fa, nel corso del quale egli non può tuttavia fare a meno di ricordare le posizioni di Lenin a proposito della possibilità che si riproponessero problemi nazionali nel corso di una guerra di tipo imperialistico come quella del 1914-18 e ovviamente durante la sua continuazione dopo la sconfitta di uno degli schieramenti. Quando Camboni è costretto a sbilanciarsi, arriva ad affermare quanto segue:








[Nella «linea Schlageter»,] la «nazione tedesca» viene considerata un’entità a sé, separata dagli esistenti rapporti sociali del capitalismo nell’epoca dell’agonia.








Sono parole che possono appunto essere interpretate soltanto come una negazione dell’esistenza di una questione nazionale dopo il destino riservato alla nazione tedesca («entità a sé»?) dal trattato di Versailles.





La parte positiva, si fa per dire, della frase di Camboni riportata prima dell’ultima citazione tocca invece il punto essenziale: quello dei rapporti tra la KPD e la socialdemocrazia. E Camboni continua, prendendosela con la tesi conclusiva del mio saggio:




L’unico modo per strappare la plebe piccolo-borghese dalle mani dei fascisti e dello stato maggiore era la «manovra militare rivoluzionaria» dei bastioni operai in Sassonia ed in Turingia. Se questa fosse riuscita la piccola borghesia avrebbe visto nel proletariato rivoluzionario il «nuovo padrone» […]. Se la «manovra militare rivoluzionaria» fosse riuscita, la piccola borghesia avrebbe visto come i governi operai trattavano i loro nemici più odiati, i banchieri. Se la «manovra militare rivoluzionaria» fosse riuscita l’imperialismo francese invasore sarebbe andato in soccorso del grande capitale tedesco e dello stato maggiore dell’esercito. Il partito comunista francese in questo contesto non avrebbe avuto alcuna difficoltà a mobilitare la classe operaia francese in solidarietà con la rivoluzione tedesca e contro il proprio governo. Se la «manovra militare rivoluzionaria» avesse avuto successo tutta la classe operaia europea sarebbe passata al contrattacco, facendo saltare il Trattato di Versailles. Non è l’operaismo del partito comunista tedesco che portò al «fiasco», ma il «fatalismo rivoluzionario».








Ci sono qui troppi se. L’autore tuttavia se ne è scordato uno: se l’Armata Rossa fosse intervenuta efficacemente... Ma è una dimenticanza sulla quale si può sorvolare. Il discorso è però lapalissiano: se il proletariato avesse vinto, tutto sarebbe andato per il meglio.




Ciò che invece mi sono chiesto alla fine del mio saggio è proprio perché le cose non andarono per il meglio. Perché ci fu una sconfitta senza combattimento, dalla quale la KPD e il proletariato non furono più in grado di rialzarsi?




Per rispondere e per analizzare anche l’ultima frase della citazione di Camboni appena riportata, devo tornare un po’ indietro nel tempo.




È vero che le forze della Terza Internazionale erano quelle che avevano reagito alla crisi catastrofica della Seconda nel 1914 e che queste forze erano cresciute prima del 1914 in una pratica fatta di propaganda, agitazione, battaglie elettorali, ecc., e si erano trovate improvvisamente, senza aver potuto maturare l'esperienza dei bolscevichi, a dover organizzare e dirigere politicamente, e in certi casi militarmente, la classe operaia nella lotta contro lo Stato e le varie frazioni borghesi. La loro impreparazione non fu solo contingente, ma coincise con la sottovalutazione della necessità di dar vita a un vero partito rivoluzionario. L'adesione alla Terza Internazionale, nel 1919, avvenne non da parte di partiti veri e propri, ma di correnti caratterizzate da posizioni critiche nei confronti delle vecchie direzioni. E infatti, retrospettivamente, si può dire che avesse in parte ragione la Luxemburg a proposito del carattere prematuro della nascita della Terza Internazionale. Dico in parte, perché, se la nuova organizzazione non fosse stata costituita, gli avvenimenti si sarebbero svolti in modo ancor più negativo, forse con ripercussioni sulla stessa tenuta della rivoluzione che aveva vinto a Mosca e Pietroburgo.





Quando poi, dopo il 1919, i partiti comunisti si formarono un po' dappertutto in Europa, essi restarono comunque inficiati da una percezione inadeguata dei problemi posti dalle spinte proletarie e popolari e dei conseguenti compiti organizzativi, anche perché troppo forte nel processo della loro formazione era stata l'idea che fosse sufficiente imitare piattamente il ruolo dei bolscevichi in Russia, mentre la situazione in Occidente era molto più complessa di quella russa da qualsiasi punto di vista la si considerasse. E a quest’ultimo aspetto occorrerebbe dedicare un’adeguata attenzione, perché è sempre stato negato dagli antistalinisti di sinistra in Europa fin da prima degli anni Trenta, per esempio da Bordiga.




Nella Seconda Internazionale era stata prevalente una concezione deterministica che guardava alla rivoluzione come un evento che sarebbe risultato fatalmente dallo sviluppo intrinseco della società. Le idee di Marx, prese come riferimento, erano state evirate ed erano diventate un’ideologia nel senso deteriore del termine, ispirata all'attesa cieca delle forze sociali, trascurando del tutto o sottovalutando enormemente che in concreto le forze sociali erano persone, classi, partiti, consapevoli del loro agire. Venne cancellato dal dibattito politico il concetto di rivoluzione come azione consapevole e organizzata del proletariato. Non si riconobbero più al proletariato e al suo partito soggettività e volontà rivoluzionaria.
Solo i bolscevichi all’interno della Seconda Internazionale avevano avuto ben chiaro il ruolo del partito nella rivoluzione, anche se nessuno si curò di studiare le essenziali esperienze delle rivoluzioni del 1905 e del 1917.




Le forze che entrarono nella Terza Internazionale, pur esprimendo spinte sane della sinistra socialista, furono tutt’altro che immuni dai difetti della Seconda Internazionale. In questo contesto, e solo in questo, si può parlare del prevalere, dopo il «biennio rosso», nelle file della nuova Internazionale in Europa di quello che viene chiamato da Camboni, con un’espressione molto approssimativa, «fatalismo rivoluzionario», atteggiamento che, tolte poche eccezioni, rappresentò una caso di le mort qui saisit le vif.




Ma in che cosa consistette questo «fatalismo»? Dal mio saggio risulta che esso trovò terreno fertile in una concezione operaista, intendendo con questa espressione – che non rinvia a un fenomeno tipico degli anni Sessanta-Settanta, come potrebbe credere un lettore superficiale – il fatto di concentrare l’attenzione esclusivamente su ciò che, nei rapporti tra le classi, riguardava in modo diretto e immediato le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, assegnando un ruolo secondario a tutto il resto e riducendo il problema del partito rivoluzionario e della sua azione alle relazioni con le altre organizzazioni politiche del movimento dei lavoratori. Questa concezione operaista, già presente nei partiti socialisti prima del 1914, si proiettò, nonostante le migliori intenzioni, anche al vertice della Terza Internazionale, producendo alla lunga effetti negativi sui quali non mi soffermerò in questa sede (ho fatto riferimento al fenomeno nel mio saggio e mi permetto di rinviare anche a un lavoro precedente, anteposto all’edizione italiana degli scritti di Victor Serge sulla «mancata rivoluzione» del 1923, Graphos, Genova, 2003). Se si parla solo di «fatalismo rivoluzionario», facendone una categoria dello spirito di alcuni o tanti militanti di base e intermedi o capi, si commette un grave errore storiografico e politico e si arriva magari alla sacrosanta denuncia di Trotsky della crisi di direzione della KPD, ma la si lascia, facendo un torto allo stesso Trotsky, sospesa per aria, come un fenomeno nei confronti del quale non si poteva nella Germania del 1923, e non si può in generale, fare nulla di serio.




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Sperando che Camboni sia favorevole alla ripresa del confronto, nel corso del quale nessuno deve concedere nulla agli altri interlocutori, perché le questioni da affrontare sono troppo rilevanti, mi sembra opportuno mettere ulteriormente i puntini sulle i, riportando un estratto dalla parte conclusiva del mio saggio:




















Ci fu senza ombra di dubbio, come sostenuto da Trotsky, una crisi di direzione del movimento comunista in Germania. È una constatazione di fatto. Alla conferenza di Chemnitz dei comitati di fabbrica, infatti, l’atteggiamento di Brandler, nonostante tutto, avrebbe potuto essere diverso. Lo stesso Trotsky si soffermò su questa eventualità. La riuscita del movimento, agganciando le prospettive della nuova Germania a quelle dell’Unione Sovietica, avrebbe sciolto di slancio il nodo geopolitico della rivoluzione in Europa. Per Trotsky, come del resto per Radek, ciò stava nell’ordine delle cose. Certamente, non sospendendo il piano insurrezionale, si sarebbe corso il rischio di una sconfitta, ma questo rischio non era esorcizzabile astenendosi dalla lotta. E bisogna aggiungere che dalla sconfitta in combattimento sarebbe derivata di sicuro una tragedia per il proletariato e per la stessa KPD, non più pesante, però, di quella determinata dagli esisti della conferenza di Chemnitz.








Ma l’analisi, se si fermasse qui, non andrebbe al di là del riconoscimento della crisi che investì il partito tedesco – lo stesso Trotsky espresse tale consapevolezza […]. Anche in considerazione della distanza temporale rispetto agli avvenimenti del 1923, una storiografia materialistica ha proprio il compito, invece, di andare oltre l’identificazione del problema.








Ebbene, […] le vere cause politiche del «fiasco» in Germania […] sono da ricercare […] nei limiti operaisti della linea seguita dalla KPD e dalla stessa Internazionale, limiti che, anche contro la volontà dei dirigenti, finirono col vincolarne il comportamento a quello della socialdemocrazia in generale e a quello della sua tendenza di sinistra in particolare.








La tattica del fronte unico e del governo operaio risultò sottoposta, nella sua applicazione, anche per i modi nei quali fu elaborata e per il carattere approssimativo dei documenti che ne derivarono, all’accettazione della SPD e dell’ADGB, che, con prese di posizione altalenanti, ostacolarono le possibilità di successo della difesa proletaria contro l’offensiva borghese. Inoltre la sinistra socialdemocratica, altro volano della linea della KPD, non fu posta di fronte alla scelta […] se schierarsi con i comunisti oppure legarsi le mani dal punto di vista degli interessi proletari con la disciplina di un partito che, a dispetto di ogni richiamo demagogico a questi stessi interessi, se li metteva continuamente sotto i piedi.








Fu l’atteggiamento nei confronti della sinistra socialdemocratica a impedire che questa tendenza – cresciuta a dimensioni ragguardevoli nel 1922-23 e, da ultimo, alimentata dalle proteste della base operaia nei confronti della politica dei capi all’interno della «grande coalizione» [formata da Stresemann dopo le dimissioni del governo Cuno] – superasse ogni esitazione. La Centrale della KPD tenne quindi un comportamento codista nei confronti dei socialdemocratici di sinistra.








Trotsky lo sottolineò efficacemente, e altrettanto fece Radek, fermo restando che dopo la “ritirata” accettata dalla Centrale del partito e per necessità ratificata dalla delegazione dell’Internazionale, né l’uno né l’altro, pur criticando Brandler, sollevarono il problema della sostituzione degli uomini della Centrale tedesca […]. Chiedere la formazione di una nuova Centrale sarebbe stato soltanto un escamotage per aggirare il lato politico della faccenda. All’escamotage fece ricorso pochi mesi dopo la presidenza dell’Internazionale, cioè Zinov’ev. Ma il materiale umano e politico per la rivoluzione in Germania era quello scaturito dalla storia della KPD, e con tale materiale e non con altro si doveva procedere, per quante fossero le difficoltà, a una seria riflessione sugli avvenimenti. Purtroppo, si mise in moto il rullo compressore della controrivoluzione staliniana e Brandler e il suo gruppo, cercando di difendersi dalle critiche e adattandosi sostanzialmente alla corrente, rivelarono ciò che Trotsky più tardi denunciò come una forma di «opportunismo comunista».








Il programma che la KPD sottopose alla socialdemocrazia della Sassonia per il proprio ingresso nel governo, analogo a quello presentato in Turingia, fu steso, con l’assenso implicito dell’Esecutivo di Mosca, nella convinzione che occupare tutte le posizioni utili per migliorare la preparazione del piano insurrezionale era un compito che prevaleva su qualsiasi altro. Ma l’operaismo che nel programma stesso traspariva fece sì che il partito imboccasse il cammino di una genuflessione inaudita di fronte ai socialdemocratici, come fu riconosciuto da Radek quando affermò che la KPD non era ancora un partito comunista.








Sull’inversione di rotta di Brandler rispetto agli accordi presi a Mosca pesò la divisione del movimento di classe, che egli sentì come un fattore di debolezza del piano per l’Ottobre tedesco. Come avrebbe potuto essere compensato questo dato negativo della situazione? Soltanto in parte con quella risolutezza che alla conferenza di Chemnitz mancò e che, se vi fosse stata, avrebbe dovuto confrontarsi con problemi molto più difficili. La divisione del movimento operaio poteva essere affiancata da un fattore di forza […] unicamente collocando al primo posto nella politica comunista la crisi complessiva della società tedesca.








Quest’ultimo aspetto […] equivaleva al riconoscimento dell’esistenza di una questione nazionale suscitata dalle mosse della Francia. A tale questione – rimasta senza soluzione fino all’avvento al governo di Hitler e da questi riportata poi nell’alveo degli interessi borghesi – fu messa praticamente la sordina dal mese di agosto nella propaganda e nell’agitazione della KPD. Se così non fosse stato, le resistenze da parte della SPD e dei vertici sindacali alla proposta dello sciopero generale e le loro stesse manovre per impedirlo si sarebbero ridotte a ben poca cosa. Era su questo terreno che i comunisti potevano passare sopra il corpo della «grande coalizione», della destra e dell’estrema destra, dell’esercito e della polizia, dando all’obiettivo della conquista del potere una dimensione appropriata al coinvolgimento della gran parte della popolazione, cioè, oltreché del proletariato, dei ceti medi messi alle corde dall’imperialismo e dall’affarismo miope della borghesia.
















L’obiezione che i socialdemocratici di sinistra avrebbero interrotto la collaborazione con la KPD se questa avesse posto tra le rivendicazioni per i governi di Sassonia e Turingia quelle concernenti la questione nazionale tedesca non è molto consistente. La sinistra socialdemocratica doveva infatti fare i conti con la partecipazione di massa che aveva caratterizzato la «resistenza passiva» [proclamata dal governo Cuno] nella Ruhr e con lo sdegno popolare per la capitolazione, alla fine di settembre, di Stresemann e della borghesia a Poincaré [capo del governo francese]. Sarebbe stata un’idiozia credere che la sinistra della SPD […] fosse da imbrogliare nascondendo le posizioni comuniste. La KPD inoltre non avrebbe dovuto mettere in disparte le idee sulla questione nazionale nemmeno se fosse stata costretta, a causa del poco tempo che aveva a disposizione, ad accettare una soluzione di compromesso per entrare nei governi delle regioni rosse e migliorare l’armamento delle Centurie proletarie. Ma le cose andarono come si è visto. Il progetto di programma immediato presentato a Zeigner [socialdemocratico di sinistra, capo del governo di Dresda] il 9 ottobre venne considerato dalla Centrale della KPD – a dispetto dei tentativi compiuti successivamente da Brandler e dai suoi per imbrogliare le cose – molto più che come un momento della politica dell’organizzazione, e si finì con l’identificare la socialdemocrazia, per lo meno nella Germania centrale, come un alleato in tutto e per tutto affidabile. In tal modo l’esperienza compiuta a Dresda e a Weimar si ridusse a quella che fu chiamata una «commedia parlamentare».








È evidente che ragionando così si risponde politicamente alla domanda sui motivi del «fiasco» del 1923, dando senso anche all’affermazione di Radek (fatta alla riunione dell’Esecutivo Internazionale del gennaio 1924 dedicata alla sconfitta), secondo la quale la KPD era un «buon partito operaio», ma non ancora un «buon partito comunista». E qui si apre il problema di quali fossero allora e siano oggi le caratteristiche di un «buon partito comunista».





Non è detto che tutti debbano condividere la mia risposta sulle ragioni del «fiasco», ma è sicuro che è controproducente parlare di queste ragioni in modo evasivo.





Corrado Basile

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