Dalle sezioni del PCL

La sostanza del nome

30 Maggio 2016

Episodi, soltanto episodi che solo il caso ci sottopone all’attenzione e che sono irrilevanti nell’attuale tendenza storica, o segnali che iniziano a tracciare un sentiero nel deserto del totalitarismo mercantile?

Cosa sta incrinando il “pensiero unico” della fine delle ideologie che afferma il trionfo del capitalismo e quindi la fine della storia, quando anche dalla campagna presidenziale americana e da quella per l’elezione del sindaco di Londra emergono, per quanto improbabili (dato il contesto), accuse reciproche di fascismo e socialismo?

Dato che da più di vent’anni sono state spese miliardi di parole per spiegare che il comunismo è come il fascismo e che la lotta di classe è un rottame dell’ottocento, come mai rifiorisce l’interesse per il marxismo e si moltiplicano i gruppi di studio, più o meno informali, sul pensiero del suo fondatore (Karl Marx) e dei suoi successori?

Certo, si tratta di gruppi ristretti, élite che per il momento non colmano il vuoto di senso fra società politica e società civile, ma la realtà dei fatti ha la testa dura e la sua osservazione prima dà forma all’idea del mondo a un livello più alto, per poi semplificarsi, definirsi e diffondersi fra le masse.

Naturalmente i guardiani del pensiero unico hanno sempre fatto di tutto per distorcere e ricondurre a norma ciò che, per la sua forza oggettiva, non potevano ignorare.


Così a suo tempo Marx, da rivoluzionario, divenne riformista per il sol fatto che, dopo la sconfitta della comune di Parigi, convenne che il movimento operaio doveva imparare ad usare i metodi della democrazia borghese, cioè presentarsi alle elezioni ecc. Era soltanto un cambio di tattica e non certo una rinuncia dell’atto cosciente rivoluzionario di massa (come unica via al socialismo), ma la corrente riformista piccolo borghese della socialdemocrazia la interpretò come un’abiura di uno dei fondamenti del suo pensiero. Ci pensò Lenin a sgombrare il campo da tale opportunismo ideologico: i bolscevichi si presentavano alle elezioni di ogni ordine e grado e non c’è dubbio che fossero rivoluzionari.

Anche Antonio Gramsci continua ad essere oggetto di attacchi revisionisti. Qualche giorno fa, su “La Stampa”, il solito custode del dogma liberale ci spiega che Gramsci prese atto della sconfitta del comunismo e che “bisognava ripiegare sull’egemonia culturale”. Insomma la rivoluzione doveva essere culturale. Una sciocchezza clamorosa come se la “cultura” non fosse strettamente connessa

alla concretezza dei rapporti di proprietà fra classi sociali e alla situazione economica contingente: addio ad ogni interpretazione dialettica della storia, anche idealista.

Però ha funzionato, infatti non è raro che qualche sedicente marxista sostenga che Marx, da vecchio, fosse diventato un “democratico”, per poi concludere con saccenza: “Come diceva Gramsci, bisogna fare una rivoluzione culturale che cambi la mentalità degli italiani”. Insomma la solita via di uscita per gli ignavi moralisti di sinistra, che vorrebbero che cambiasse tutto senza cambiare niente, perché loro tutto sommato se la passano bene.

Niente può cambiare senza la ribellione concreta delle masse oppresse, ma senza le idee che la sostengono e che traccino una via, ogni ribellione, per quanto estesa, non diventerà mai rivoluzione; Verrà facilmente repressa o rifluirà nel nulla. In quanto a questo, basta ricordare la fine ingloriosa del movimento no-global, che i compagnucci del quotidiano “comunista” “Il Manifesto” avevano dichiarato essere la seconda potenza politica mondiale dopo gli Stati Uniti.

Le idee contano se si basano sui fatti, non sui desideri; per esempio la nascita dei partiti comunisti coincise con il tradimento della socialdemocrazia tedesca (la più potente d’Europa) che prima si schierò contro la guerra, al congresso della seconda internazionale, per poi voltare faccia e votare i crediti di guerra in Parlamento: senza la complicità della SPD e dei suoi sindacati, la prima guerra mondiale non sarebbe stata possibile.

Ma se le idee possono essere distorte e riviste ad uso e consumo del presente e le vere intenzioni mascherate con virtuosi sofismi, nessun partito o movimento, o semplice associazione di individui può barare sul nome che sceglie di darsi; perché è questo che lo distingue dagli altri.

Nel nome, nel simbolo, nella bandiera si materializzano in sintesi le idee, il programma e il pensiero politico che soprassiede. Il nome e il simbolo sono una garanzia, una certificazione di identità, chi viola la coerenza fra ciò che fa e il come si rappresenta è condannato all’oblio.

Partito Comunista dei Lavoratori - sezione Romagna "Domenico Maltoni"

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