Interventi

“Tripoli, bel suol d’amore”

7 Marzo 2016
Libia pozzo

“Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon! Sventoli il tricolore sulle tue torri al rombo del cannon!” così recitava il refrain di una canzone che nel 1911 celebrava l’andata dei nostri soldati in Libia, adesso, invece, certe operazioni accadono con poco clamore.
Una vecchia battuta recitava che il modo migliore per nascondersi è quello di andare in giro senza nascondersi: quanti di noi sanno che attualmente sono quattromilacinquecento i militari italiani impegnati in varie missioni all’estero? L’Italia è presente dai Balcani al Mali, dall’Afghanistan all’Oceano Indiano, dall’Iraq alla Georgia e dal 2014, tra Palestina e Somalia, si sono aggiunte due operazioni di addestramento ed è stata rafforzata la presenza anti ISIS in Iraq, che impegna cinquecento uomini tra supporto aereo e addestramento delle truppe di terra. Ma la guerra combattuta dagli occidentali, trova modi infiniti per esser compiuta, sì, perché, superato il logoro cliché cui ci ha abituato il cinema con le sue pallose pellicole celebrative, oggi è tutto più moderno, veloce, diverso, un mix tra “diplomazia”, operazioni “coperte” (blando eufemismo per definire le peggiori nefandezze che si compiono senza batter ciglio), raid aerei velocissimi e ovviamente qualche fucilata.

È dell’agosto 2014 un’operazione del governo italiano che ha dell’incredibile: l’attuale ministro della difesa Roberta Pinotti (ex boy scout AGESCI, laureata in lettere, ex docente di italiano nei licei) con voce discreta, rassicurante e suadente, mentre lievitava lo sfacelo tra SIRIA, ISIS, Turchia, Curdi, tagliagole di varia natura e le regie più o meno occulte di USA, Francia e qualcun altro, ha più volte dichiarato che l’Italia, per combattere l’ISIS avrebbe aiutato i Peshmerga, fornendo loro quanto necessario a combattere.
Nel 1991 fu confiscata nelle acque territoriali italiane una nave carica di zeppa di armi, spedizione organizzata dal miliardario Alexander Borisovich Zhukov, oligarca della nuova Russia e destinata al conflitto dei Balcani; in questa nave, per chi sogna di combattere e uccidere, c’era ogni ben di Dio: razzi katiuscia, missili Fagot completi di base di lancio, razzi anticarro, mitragliatori AK-47, il tutto in quantità tale da poter armare un esercito, basti pensare che i soli proiettili per gli AK-47 (il famoso e famigerato Kalashnikov) erano trentadue milioni e questo ben di Dio, dal 1991 al 2014, è stato custodito nelle gallerie bunker scavate sotto la base della Marina Militare, nell’isola di Santo Stefano, in quel fazzoletto di mare che c’è tra Sardegna, Maddalena e Caprera.
L’incredibile di questa operazione è che l’aiuto italiano ai Peshmerga è consistito nell’inviare a questi ultimi, operativi a Erbil nel Kurdistan iracheno, l’intero pacchetto di questo imbarazzante e scomodo carico; ora, la donazione, anche se deve aver indispettito non poco i tagliagole dell’ISIS, tutto sommato è servita a più di una cosa: ha liberato i depositi della Marina Militare, ha fatto fare una bella figura al governo italiano perché i combattenti curdi godono delle simpatie dell’opinione pubblica, ha consentito di liberarsi di armi oramai vecchie di venticinque anni e soprattutto ha armato chi combatte l’ISIS viso a viso.

In realtà va detto che si arriva un po’ con le brache in mano a cercare di salvare quello che, per tutti, in Libia conta davvero: il petrolio e, per l’Italia in particolare, la presenza dell’ENI che è la nostra più importante azienda energetica, unica società internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in quelle terre dilaniate dalla guerra in atto tra due governi e decine di milizie rivali, ma che ora si ritrova con le tribù di predoni locali, cui l’ISIS ha concesso in affiliazione la propria griffe, che hanno messo nel proprio mirino gli interessi italiani in Libia.
Il petrolio va salvaguardato, perché sì, è vero che è in essere una tragedia umanitaria epocale, che la gente muore ammazzata o muore affogata se tenta la traversata in mare o muore di fame, freddo e stenti se si avvia a piedi verso i Balcani sperando in un destino diverso, ma il petrolio è su tutto e va salvaguardato ed ecco che quindi scatta un’operazione Libia che vede tutti occupati a dire che è un paese la cui situazione va normalizzata, questo per il bene dei libici e degli altri, mentre nel frattempo Francia e USA, secondo quanto pubblicato dal quotidiano Le Monde, con le loro truppe speciali, hanno già iniziato la loro guerra in Libia contro l’ISIS.

In tutto questa bailamme non si può non parlare della Russia, entrata anch’essa pesantemente nello scenario medio orientale, perché se è comprensibile che a livello strategico non voglia rinunciare al suo alleato siriano, sui fatti di Libia si tiene un po’ defilata, anche perché, storicamente Mosca non ha mai avuto grosso feeling con il colonnello e quindi non ha mai costruito con questo paese una rete di rapporti che potesse esser definita consistente, cosa che al contrario ha fatto con Egitto e Algeria, imbastendo con queste forti relazioni. C’è da dire, comunque, che quella russa rimane una presenza con la quale tutti dovranno fare i conti, a iniziare dagli USA che, dichiarazioni ufficiali a parte, sono impegnati a smussare il continuo attrito che questa vive con la Turchia; e infine va anche tenuto presente che Putin non ha un passato da politico, è un uomo che viene dai servizi segreti, (era un funzionario del KGB) quindi esprime una lucidità diversa e per certi versi, militarmente con un’analisi più acuta.
Infatti la presenza degli ex sovietici in quel teatro ha la chiara finalità tattica, nell’attuale fase della contesa, di guadagnare a Mosca una sponda a Sud (in cui rientra anche il ruolo Siria-Iraq) e quindi di alleggerire la pressione in paesi tipo Ucraina e nella zona del Baltico in generale.

Per quello che riguarda l’Italia, va detto anche che tra i leader europei i cui paesi sono a vario titolo coinvolti in questo scenario, il nostro Renzi è sicuramente il più atlantista e allora quale migliore occasione, da parte di Obama, per solleticarne la velleità offrendo all’Italia il comando di tale operazione ma chiedendo in cambio l’utilizzo della base aerea di Sigonella per la movimentazione dei droni utilizzati per bombardare l’ISIS, anche se qualche “effetto collaterale” ci scappa sempre e soprattutto chiedendo la presenza, in quella terra, di cinquemila soldati italiani. Qui in Italia, per il momento tutti sono prudenti. Le parole d’ordine sono: minimizzare e tranquillizzare, ovviamente in attesa, per intervenire, di mandato ONU e richiesta da parte del governo libico; ma qui le cose si complicano un poco e non per l’ONU, che di mandati per fare guerre ne ha dati tanti, trovando sempre una motivazione, ma perché in Libia i governi sono tre: uno a Tripoli, uno a Tobruk e un altro, nato con la benedizione internazionale e la mediazione ONU, che però sta a Tunisi, in Algeria e che non può entrare in Libia perché verrebbe accolto a fucilate dagli altri due.

Tripoli ha già dichiarato che non tollererà interventi armati sul proprio suolo, ma nel frattempo basta riflettere su quanto detto dal nostro presidente, Sergio Mattarella: “La Libia è un paese senza un governo e nel caos più totale, con molte aree in mano ai terroristi dell’ISIS (…) È stata attentamente valutata la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del Governo di Accordo Nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche.”, che tradotto, suona: “In Libia già ci siamo, perché, con discrezione, abbiamo già mandato.”, infatti a terra, le infrastrutture petrolifere, in particolare quelle comprese nell’area tra Zuwara e Sabratha, sono presidiate da mesi da nostre forze speciali e di fronte alle coste, la Marina Militare è già operativa, con le navi dell’operazione Mare Sicuro a protezione delle piattaforme offshore e del gasdotto Greenstream.

Se qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio sul fatto che l’Italia sia già in guerra e su quanto accadrà, basta leggere la nota seguita a un vertice tenuto sui fatti di Libia, che, senza girarci sopra molto, enuncia i reali motivi per cui il nostro paese ha già deciso il suo intervento, ossia la sicurezza energetica: “È stato considerato l’impatto sugli scenari di crisi e sulla sicurezza energetica italiana ed europea dell’andamento dei mercati degli idrocarburi.”.

Era il 19 marzo del 2011 quando Francia, USA e Gran Bretagna, forti della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, attaccarono, con l’aiuto dell’Italia, la Libia di Gheddafi mandando in pezzi quella fragile e difficile unità nazionale che il colonnello aveva imposto al paese per quaranta anni e ovviamente la “democrazia esportata a suon di bombe, ancora una volta, aveva rotto gli equilibri tra quella miriade di tribù e relative milizie, divise da rivalità secolari.”. Dopo cinque anni di conflitto, noi oggi discutiamo per intervenire militarmente nella drammatica situazione nella quale il popolo libico è stato trascinato dagli interessi imperialisti e dall’egoismo dell’Occidente e allora sarebbe proprio il momento di ammettere che gli scontri tra le varie fazioni locali e l’avanzata dell’ISIS sono le conseguenze dirette delle politiche occidentali.

Per l’Italia, gli interessi economici presenti in Libia sono davvero imponenti e Matteo Renzi ne è perfettamente consapevole e questi motivi, uniti alla poca lucidità del nostro governo, potrebbero trascinare il nostro paese a fare la guerra in Libia e per l’Italia, dal 1911, sarebbe la quarta volta, tutto questo in spregio del fatto che l’articolo 11 della Costituzione recita che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”
Le decisioni che si dovrebbero prendere adesso, per tentare di avviare un reale processo di pacificazione, non sono di carattere militare; Italia ed Europa dovrebbero un attimo accantonare i desiderata USA e rivedere i propri rapporti con paesi tipo Turchia o Arabia Saudita, che da tempo sostengono i gruppi legati all’ISIS.

Sarebbe il momento di avviare una seria riflessione sulle strategie fallimentari che USA ed Europa hanno colpevolmente adottato negli ultimi venticinque anni e non imbarcarsi in questa che sarebbe solo una avventura neocoloniale e che altro non farebbe che provocare nuove sofferenze, scontri e morti che aumenterebbero il risentimento arabo contro il mondo occidentale che aveva promesso di liberarlo dalla dittatura, precipitandolo, invece in una violenza senza limiti, della cui possibile fine non si coglie segno. Tutto il sangue che ha sin qui bagnato quelle terre è solo il frutto avvelenato degli errori del passato e ripeterli sarebbe devastante.

Chiara Pannullo

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