Rassegna stampa

America Latina tra crisi economica e crisi politica: quale ruolo per i rivoluzionari?

Il punto di vista di Osvaldo Coggiola, esponente storico del Partido Obrero

31 Gennaio 2016

dal sito: Il Pane e le rose

Lo scorso 24 gennaio, presso la sede della sezione "Vito Bisceglie" di Roma del PCL, si è tenuta un'interessante iniziativa sulla situazione politica ed economica dell'America Latina. Come relatore è stato chiamato Osvaldo Coggiola, docente di Storia all'Università di San Paolo del Brasile e militante storico del Partido Obrero. Il suo articolato intervento è stato preceduto dall'introduzione di un compagno del PCL, il quale ha subito richiamato uno dei principali argomenti di discussione: la crisi delle democrazie progressive in America Latina. Una crisi dai molteplici risvolti che, ad esempio in Brasile, si traduce nell'incapacità di confrontarsi con le istanze provenienti dal basso e con un approccio pesantemente repressivo nei confronti di quella protesta giovanile che, in altre forme, prosegue la rivolta dell'estate del 2013. Ma anche in un'esperienza complessivamente più avanzata come quella venezuelana, negli ultimi anni non è mancato un fenomeno deteriore come il burocratismo, e si sono fatte scelte controproducenti e in linea col verbo economico dominante a livello planetario come quella di svalorizzare la moneta per attirare gli investimenti esteri.

Prima di riallacciarsi a queste problematiche, Coggiola ha tenuto a presentarsi, rinviando alla sua pluridecennale esperienza politica, cominciata nella natìa Argentina nel 1969. Da tempo, però, egli vive in Brasile, dove è stato per tre volte Presidente del Sindacato Nazionale dei docenti universitari. Poiché la sua esperienza professionale e d'impegno politico si è svolta in più paesi, egli ha potuto definire un discorso piuttosto compiuto sulla realtà continentale, ponendosi nella condizione ideale per criticare la mitizzazione europea di certe esperienze sudamericane. In primo luogo, ha voluto sottolineare che, in paesi come Brasile e Argentina, gli esecutivi progressisti non hanno nazionalizzato quasi nulla, salvo, nel secondo caso, il sistema pensionistico che, nelle mani dei privati, era praticamente andato in fallimento. L'unico paese che si è seriamente mosso in questa direzione è stato il Venezuela, in cui non solo si è impedito che i proventi del petrolio finissero - com'è stato per troppo tempo - a Miami, ma si è sviluppato l'intervento pubblico in diversi settori dell'economia. Considerando infondata la definizione di "socialismo del XXI secolo", il relatore ha ricordato che le politiche dei governi bolivariani - soprattutto in virtù dello slancio, poi affievolitosi, del primo decennio - hanno portato a conquiste sociali rilevanti, che oggettivamente possono preparare il socialismo, come l'alfabetizzazione di diversi milioni di persone. Ma nella definizione dell'ondata progressista che ha investito il continente dalla fine degli anni '90, vanno tenuti in considerazione anche fattori squisitamente politico-culturali. Tra questi, va menzionato il retroterra intellettuale che ha ispirato queste esperienze oggi in crisi. Quella venezuelana, ad esempio, non era immediatamente ricollegabile alle tradizioni del movimento operaio, né venezuelano né internazionale. Coggiola, parlandone, ha ricordato che, quando Chàvez, nel 1992, si è prodotto con altri militari in un tentativo di colpo di Stato, il Partido Obrero è stato tra i pochi a non condannarlo, mentre il grosso della sinistra (anche rivoluzionaria) lo ha assimilato a Videla o a Pinochet, salvo poi - in una fase successiva - farne un alfiere del socialismo. Di fatto, l'avvicinamento dell'esperimento bolivariano ad un percorso di emancipazione tipico della sinistra è avvenuto in corso d'opera, dopo la vittoria elettorale del 1998. In Argentina, certe idealità hanno radici salde, dato che il locale Partito Socialista s'è formato nel 1892, ma i coniugi Kirchner vengono da tutt'altro alveo, quello peronista. Oltretutto, quando Nestor è andato al potere, a lui e a sua moglie è stato fantasiosamente attribuito un passato da combattenti nei Montoneros, organizzazione armata del peronismo di sinistra che arditamente sfidava la dittatura, laddove la sua esperienza politica giovanile è stata molto meno epica. Per quanto riguarda l'ex sindacalista cocalero Evo Morales, presidente boliviano dal 2005, il suo MAS ha cominciato ad assumere una fisionomia più chiara solo dopo aver conquistato, tramite elezioni, il Potosì. Così, si è delineato un indigenismo di nuovo tipo, meno ancorato all'idea (impraticabile) di un ritorno alla tradizione inca e all'annessa concezione di un territorio non circoscritto alla sola Bolivia. Maggiormente interno alle tradizioni di una sinistra globale e più solido sul piano teorico è il PT brasiliano, fondato nel 1980 da sindacalisti e militanti della sinistra marxista. Del resto, proprio questo suo evidente legame con le radici del movimento operaio ha consentito di farne un riferimento a livello planetario. Lo testimonia il fatto che il Forum Sociale Mondiale, a partire dal 2001, ha svolto i suoi primi incontri a Porto Alegre, città-laboratorio del modello che poi Lula e i suoi avrebbero esteso all'intero Brasile.

Ora, tutte questi esperimenti politici si sono fatti strada in un contesto peculiare, coincidente con tre crisi successive che hanno segnato il capitalismo a livello mondiale: quella asiatica (1997), quella russa (1998) e l'argentina del '99-2001. Quest'ultima ha comportato l'impossibilità, per lo Stato, di saldare i debiti sia nei confronti dei grandi creditori internazionali sia verso i piccoli creditori locali; così sono andati in fumo i risparmi di 4 generazioni. Ciò ha portato alla diffusione di pratiche come l'incendio della banche, a piazze colme di proteste popolari e a un clima pre-insurrezionale. Nel 2001, anno in cui sono caduti cinque governi nel corso d'un mese, la soluzione Kirchner è stata accettata da tutti - Borsa di New York inclusa - per scongiurare il caos ed evitare sbocchi rivoluzionari. Ciò ha aperto la strada pure a Lula, con la svolta brasiliana dell'ottobre 2002, non ostracizzata neppure da Washington che, alle precenti elezioni presidenziali, aveva indicato Lula quasi come un demonio. Meno consenso, da parte degli imperialisti europei e americani, vi è stato nei confronti di Chàvez, presidente del Venezuela dal 1999, e del suo successore Maduro, ma anche il loro operato è risultato parte di un nuovo ciclo politico. Che, però, avrebbe potuto segnare una più radicale discontinuità rispetto alla precedente decade, quella liberista in cui, in Argentina, un peronista come Menem, sconfessando una tradizione statalista, ha praticamente privatizzato tutto. In Brasile - in virtù di un'economia più strutturata e di una borghesia meno debole - lo stesso processo s'è dato in forme meno estreme e, ad esempio, Petrobras è stata aperta ai privati solo per il 40% del suo capitale, il resto rimanendo allo Stato. Ma in particolare in questi due paesi, non sì è avuta una svolta economico-sociale. È vero, in Brasile si sono realizzati ampi programmi sociali, favorendo l'uscita dalla povertà di ben 50 milioni di persone attraverso strumenti come la Bolsa Familia e altri programmi sociali. Ma questo non è derivato affatto da una politica redistributiva, volta a ridimensionare realmente il divario tra capitalisti e proletari,ma da una crescita dei proventi dello Stato, legata a quell'aumento del prezzo delle materie prime di cui il Brasile è ricco, che è stata costante sino al 2008, quando, per effetto della crisi, è iniziato il processo inverso. Il governo brasiliano, sulle ali di uno sviluppo meno solido di quanto sembri, ha semplicemente destinato una piccola quota dell'enorme PIL nazionale alle spese sociali. In Argentina si sono avute misure sociali come quella, adottata a Buenos Aires, dei sussidi per i servizi pubblici come autobus, gas, ecc., che il neopresidente Macri vuole cancellare. Il furore antipopolare di quest'ultimo, non può far confondere le suddette misure di sostegno ai più poveri, con una seria rottura con la politica economica e sociale del passato. Dove si è fatto di più, come in Venezuela, per effetto delle scelte sbagliate degli ultimi anni si è arrivati alla recente sconfitta elettorale, causata peraltro anche da un forte astensionismo della base chavista. Qui, la situazione di "doppio potere" che s'è delineata, con un presidente bolivarista e un Parlamento che gli è in maggioranza contro, ostacolerà qualsiasi spinta di Maduro a raddrizzare il tiro.

A ben vedere, queste realtà politiche eterogenee non hanno fatto che rilanciare tematiche da lungo tempo presenti nel dibattito latino-americano. Si pensi all'integrazione politica ed economica, non solo oggetto di riflessione già sul finire dei '60, ma già prefigurata da personaggi storici di grande rilievo storico come Simon Bolivar (1783-1830) e Josè de San Martìn (1778-1850). Il guaio è che le varie ipotesi di unità continentale, incluse quelle più radicali come l'ALBA, non hanno mai avuto un vero decollo. Sono mancati, in questi senso, alcuni presupposti essenziali, come indica l'esito della proposta - partita dal Venezuela - di un'integrazione energetica, tassello fondamentale per non ricadere nella dipendenza dalle maggiori potenze imperialiste. Il progetto, sul piano tecnico, era fattibile: si pensi solo al fatto che Petrobras nel settore perforazione ha raggiunto livelli ineguagliati dagli altri colossi del settore. Però ci si è scontrati con l'annoso problema della proprietà: solo una serie di compagnie completamente pubbliche - in un contesto di nazionalizzazione di tutte le risorse del sottosuolo - avrebbe potuto permettere il raggiungimento d'un simile traguardo.

Oggi, svaniti questi discorsi, si ripresentano ipotesi pessime, legate a quegli accordi di libero scambio con gli USA e l'UE che, soprattutto per i paesi economicamente più deboli, possono coincidere con una condizione di totale subalternità. Ma proprio perché si configura una siffatta realtà, è necessario un bilancio complessivo di certe esperienze, che hanno suscitato speranze in tutto il mondo. Oltre agli elementi forniti nella sua dissertazione, Coggiola ha tenuto a precisare che le sconfitte elettorali degli ultimi tempi non rappresentano la fine di ogni prospettiva di trasformazione sociale, rimandando, al limite, al venir meno di tradizioni di lungo corso che hanno forse esaurito la propria spinta propulsiva. Oggi non è più possibile pensare a obiettivi come l'unità su scala continentale dissociandoli dall'assunzione di una prospettiva chiaramente rivoluzionaria e socialista. E lo scontro tra capitale e lavoro si pone in termini più immediati, laddove l'alleanza tra il proletariato e i settori "avanzati" della borghesia poteva proporsi - e avere una certa tenuta - solo in una fase di grande avanzata economica come quella si è data sino al 2008. In questo quadro, emergono figure nuove, come quelle affacciatesi in Brasile con la rivolta del 2013 contro l'aumento delle tariffe del trasporto urbano: giovani e giovanissimi precari non sindacalizzati e non rappresentati dalle tradizionali organizzazioni politiche della sinistra. Molti di loro non hanno una formazione politica e non sono condizionati da retaggi del passato, arrivando a vedere Lula più come un "personaggio storico" che come un proprio contemporaneo. Nella parte finale dell'incontro, anche rispondendo alle sollecitazioni dei presenti, Coggiola si è posto il problema di come rivolgersi a simili soggetti, che potrebbero giocare un ruolo cruciale nel prossimo futuro. A suo avviso è anzitutto necessario superare qualsiasi spinta ad una riduzione manualistica della lectio dei grandi rivoluzionari del passato, come Lenin e Trotsky, e qualsiasi vocazione settaria. Un esempio positivo, in questa direzione, è rappresentato proprio dal Partido Obrero che, nel suo impegno in quel Frente de Izquierda y de los Trabajadores (FIT) che in Argentina ha anche saputo raccogliere significativi consensi elettorali, si è posto con forza l'obiettivo del governo dei lavoratori, contrastando qualsiasi tendenza opportunistica. Solo soggetti capaci di legare l'intransigente difesa dei bisogni popolari a una prospettiva indipendente dalle forze borghesi possono raccogliere il dissenso di massa verso le prossime politiche di austerità, spronando alla lotta anche settori delusi dalle troppe promesse mancate dei governi progressisti.

Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma

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