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Il fronte dei contratti sullo sfondo del plebiscito d'autunno
22 Gennaio 2016
Lo scorso settembre, Renzi e il padronato hanno provato a ridefinire le regole che determinano salari e organizzazione del lavoro (turni, ritmi e tempi). Di fronte al protrarsi della Grande Crisi, cioè, hanno sperato di generalizzare il “modello Marchionne”, tentando così di rilanciare competitività e esportazioni. Lo sganciamento della FCA (ex FIAT) dal contratto nazionale di lavoro, infatti, nonostante l’articolo 8 del buon Sacconi (Dgls 138 del 2011, la possibilità di derogare nei contratti aziendali anche a norme di legge) è rimasta sino ad oggi un caso esemplare nelle grandi imprese (sostanzialmente unico, ad eccezione della grande distribuzione: le catene nazionali e internazionali di iper e supermercati, come Auchan, Carrefour, Coop, Ikea, ecc.). Ancor più raro nell’insieme del sistema produttivo. Il capitale italiano, infatti, preferisce procedere in un quadro condiviso, considerato il permanere di un significativo tasso di sindacalizzazione (superiore ad un terzo dei lavoratori e lavoratrici, rispetto ad una media UE intorno al 20%, concentrato nelle medie e grandi imprese); l’ancora maggior penetrazione dell’associazionismo imprenditoriale; la significativa presenza di imprese private a partecipazione pubblica (ENI, ENEL, Poste, ecc). Preferisce cioè imporre un modello generale di relazioni sindacali, che le garantisca un certo comando, invece di destrutturarlo nella scia di Marchionne e Sacconi.
A settembre sembrava arrivato questo momento. La chiusura delle mobilitazioni contro il Jobs act (primavera 2015), lo spegnimento estivo dell’imprevisto grande movimento della scuola, l’incapacità di rilanciare una minima conflittualità persino sui contratti del pubblico impiego (bloccati dal 2010), avevano infatti creato un evidente vuoto di iniziativa sindacale. Un vuoto che permetteva quindi di rilanciare l’offensiva, grazie all’assestamento politico del governo (dopo la relativa sconfitta elettorale alle amministrative di giugno) e grazie alla stessa modifica dei rapporti di forza tra le classi ottenuti nel corso dell’anno precedente (crescita della rassegnazione nel mondo del lavoro). Come lo scorso autunno (annuncio del Jobs Act), è quindi partita una manovra a tenaglia.
Renzi ha dato fuoco alle polveri con una campagna mediatica contro il diritto di sciopero (vicenda del Colosseo), facendo circolare l’ipotesi di un imminente normativa sul passaggio del diritto di sciopero da individuale a collettivo (dichiarabile solo ed esclusivamente se una significativa percentuale di dipendenti lo avessero approvato in uno specifico referendum). Ed ha proseguito prospettando l’intervento del governo sul modello contrattuale (anche di carattere legislativo), se non si fosse realizzata una rapida convergenza delle parti sociali per estendere gli accordi aziendali (in stile, appunto, Marchionne).
Il padronato (Confindustria) ha quindi colto l’occasione per proporre la riduzione dei livelli contrattuali, da due (nazionale e di aziendale) ad uno (nazionale o locale, a libera scelta): in pratica istituzionalizzando le deroghe, con le grandi e le medie aziende che inevitabilmente si sarebbero costruite il proprio personale quadro di riferimento, e le PMI che avrebbero adottato un CCNL ridotto a quadro normativo e salariale essenziale. Inoltre ha prospettato l’erogazione degli aumenti sotto forma di welfare aziendale (assicurazione sanitarie e previdenziali, asili nido e buoni pasti, ecc): elemento subito ripreso dal governo, che ha introdotto nella Legge di stabilità la decontribuzione totale su questi elementi del salario (nessuna tassazione!). In questo quadro, infine, Confindustria ha annunciato l’intenzione di non rinnovare i contratti in scadenza (chimici, metalmeccanici, alimentaristi, ecc) sino alla definizione di un nuovo modello: una vera e propria dichiarazione di guerra, con l’intenzione di chiudere l’offensiva prima possibile!
Con l’avanzare dell’autunno il quadro è però mutato. Un cambiamento maturato nonostante il perdurare dello sbandamento sindacale, con la convocazione di due passeggiate romane sostanzialmente fallimentari: il corteo FIOM del 21 novembre - il meno partecipato della sua recente storia; quello del 28 novembre dei pubblici e della scuola (CGIL-CISL-UIL), di poco superiore a quello della FIOM e molto, molto, molto al di sotto dei trentamila dichiarati dalle Confederazioni (un numero già molto basso per il carattere del corteo e l’insieme di lavoratori e lavoratrici coinvolti). Diversi i fattori che probabilmente hanno consigliato prudenza: l’approfondimento degli squilibri economici mondiali (guerra monetaria, rallentamento cinese, recessioni nei BRICS, ecc); la precipitazione dei conflitti mediorientali (IS, Libia, attentati di Parigi); la crisi dei profughi e della UE; le divisioni nel fronte padronale, tra settori in difficoltà per la lunga depressione, interessati ad un rapido recupero dei margini di profitto a spese del lavoro, e settori che stanno cavalcando il ribasso dell’euro e quindi rilanciando volumi produttivi per l’esportazione, preoccupati dal rischio di ripresa di una conflittualità sociale e operaia; il rilancio politico delle altre due destre populiste (Lega e M5S); la prospettiva di un nuovo e difficile voto amministrativo per il PD (Roma, Milano, Napoli, ecc).
Governo e padronato, in ogni caso, hanno fatto un passo indietro. Le dichiarazioni di Renzi sono sfumate nel tempo. Nel contempo, in 24 ore si è firmato il rinnovo dei chimici (categoria di Squinzi, presidente di Confindustria, con una consolidata tradizione concertativa): con un rapido blitz è evaporata la minaccia di tener bloccati i contratti e nello stesso tempo la proposta di un unico livello contrattuale. In cambio, CGIL CISL e UIL hanno lasciato mano libera sui contratti di secondo livello: bilateralità, welfare, flessibilità salariale in caso di crisi (riduzione del costo del lavoro). La strategia padronale, cioè, è sembrata cambiare: nel quadro di un ricostituito confronto sindacale, ci si proponeva di ottenere il logoramento progressivo del contratto nazionale, attraverso uno spostamento sul secondo livello degli aumenti salariali e di un pieno controllo dell’organizzazione del lavoro.
CGIL CISL e UIL hanno registrato questo cambio di passo. Nel giro di pochi mesi, hanno definito una propria proposta complessiva per un nuovo sistema di relazioni industriali (documento del 14 di gennaio, approvato dagli Esecutivi riuniti). Nel perenne inseguimento di un grande patto dei produttori, hanno cioè pensato di stabilizzare questa fragile intesa costruendo un modello contrattuale generale. Una doppia illusione: primo, l’illusione di trovare un terreno di grande mediazione tra lavoro e capitale in una fase depressiva (con una riduzione dei volumi produttivi, del salario globale, dei diritti sociali); secondo, l’illusione di tracciare una trincea, nel pieno di una grande crisi, senza difenderla nel conflitto. CGIL CISL e UIL, infatti, hanno semplicemente pensato di realizzare, come nei chimici, uno scambio.
Nel secondo livello, hanno pienamente assunto gli obbiettivi padronali. Tali contratti, infatti, secondo il loro modello devono essere un “fattore di competitività ed un volano di sviluppo economico”: devono garantire la crescita della produttività, competitività, efficienza, qualità e innovazione organizzativa. Cioè, la loro funzione è sostanzialmente quella di garantire gli interessi dell’impresa. Di più: sul lato salariale, si concede un ruolo rilevante al welfare contrattuale e anche la durata quadriennale dei contratti (come una volta, certo, ma senza rinnovi biennali: in pratica si stabilizza nel medio periodo il costo del lavoro, con un conseguente contenimento degli stipendi). Non solo: si promette la cogestione delle crisi (licenziamenti) e della formazione (riqualificazione su obiettivi aziendali, ma nel quadro del fondo salariale dei lavoratori e delle lavoratrici), arrivando persino a preludere ad una partecipazione sindacale al capitale, in stile tedesco (comitati di gestione) o americano (proprietà di quote azionarie). Il tutto certificato da un rilancio per via legislativa del Testo unico del 10 gennaio: l’accordo sulla rappresentanza che garantisce l’impossibilità di scioperare contro gli accordi, anche se non li si condivide; la non agibilità sindacale e l’incandidabilità nelle RSU se non si condivide questa regola; la disciplina delle RSU elette, pena loro decadenza automatica. Essendo stato firmato oramai da due anni, e non essendo mai entrato in funzione per le sue difficoltà di attuazione per via pattizia, si garantisce sulla sua effettività, chiedendo tutti insieme di introdurlo per Legge!
In concreto, questo documento delinea una capitolazione nei luoghi di lavoro, soffocando di fatto l’indipendenza sindacale in quel contesto, comprimendo cioè le possibilità di una sua azione autonoma dal capitale, dagli interessi imprenditoriali dell’azienda. Nel contempo, traccia una sottile trincea sul piano nazionale e generale: mantiene il CCNL ed un ruolo del sindacato nella contrattazione nazionale del salario. Certo, i contratti nazionali saranno fortemente ridotti nel numero, limitati ad un “sistema generale di regole basilari”. Ma rimangono, con una “funzione di primaria fonte normativa e di centro regolatore dei rapporti di lavoro”. Inoltre, dovranno comprendere tutti i lavoratori e lavoratrici (contrattazione inclusiva, eliminando sperequazioni tra le diverse tipologie precarie e contrattuali presenti in uno stesso luogo di lavoro). Soprattutto, questo sistema dovrà garantire una “crescita dei salari – non solo riferita alla tutela del potere d’acquisto - che si rivolga alla generalità delle lavoratrici e dei lavoratori”, conseguendo anche gli obbiettivi macroeconomici del “rilancio della domanda interna e della produttività”. A questo scopo, vengono indicati due indici di riferimento (per i diversi livelli contrattuali): uno relativo alle dinamiche macroeconomiche (PIL), uno agli andamenti settoriali. Inoltre, si prova a utilizzare questo terreno, quello dei contratti, per tamponare gli elementi più deleteri del Jobs Act: libertà di licenziamento, demansionamento e telecontrollo. Si prospetta infatti di introdurre nei CCNL normative sui licenziamenti disciplinari, “per aggiornarli secondo il principio della proporzionalità tra mancanza e sanzione”; si ipotizza una regolamentazione sulle mansioni; si propongono prassi condivise di utilizzo degli strumenti tecnologici di controllo, “escludendo comunque l’utilizzo dei dati per fini disciplinari”.
Un documento, quindi, che nella doppia illusione di una strategia fallimentare (il grande accordo di fase con il capitale), introduce anche alcuni aspetti che contraddicono governo e padronato, la loro ricerca di un pieno controllo del salario e dell’organizzazione del lavoro. Questi aspetti contraddittori presentano però un problema: la totale assenza di un percorso di mobilitazione. Questo modello è pensato esclusivamente nell’ottica di un rapido accordo con il padronato: non è una piattaforma che identifica interessi, che delinea una strategia di difesa, che costruisce una vertenza generale e nazionale. È semplicemente una proposta di scambio, che decade nel momento stesso in cui è rifiutata. Questi elementi contraddittori, cioè, sono solo dichiarazioni astratte di principio. Al contrario, le concessioni agli interessi imprenditoriali (il quadriennio, il welfare, la cogestione delle crisi, il Testo unico del 10 gennaio) diventano inevitabilmente il terreno da cui riparte l’ulteriore sfondamento padronale.
Questa non è un’analisi astratta delle tattiche sindacali: è una cronaca degli avvenimenti concreti. Appena CGIL CISL e UIL hanno varato il proprio documento, Federmeccanica ha infatti aperto la propria offensiva. Fabio Storchi, il suo presidente, anche nel quadro del prossimo rinnovo dei vertici confindustriali, ha denunciato pubblicamente sia il contratto dei chimici, sia il documento di CGIL CISL e UIL. Nella loro piattaforma il CCNL è solo un quadro di riferimento vuoto, con la definizione di un salario minimo di garanzia (un tetto minimo degli stipendi, comprensivo di tutte le voci e di tutte le sue componenti ad ogni livello: in concreto interessa solo il 5% dei lavoratori e delle lavoratrici della categoria); gli aumenti si concentrano quindi solo sul secondo livello (comunque sulla base di un tetto massimo nazionale, che non possa capitare di conquistare qualcosa in più dove si ha maggior potere contrattuale!) e sostanzialmente solo attraverso il welfare. Non a caso Sacconi gioisce, e indica questo come il terreno concreto di costruzione del nuovo modello contrattuale. Entro fine gennaio si esauriranno gli incontri con FIOM FIM e UILM e si capirà la determinazione di Federmeccanica. In ogni caso, Confindustria ha per il momento declinato (per l’ennesima volta) la proposta di patto dei produttori di CGIL CISL e UIL. L’elezione del suo nuovo presidente a maggio determinerà poi il suo futuro atteggiamento.
I contratti sono quindi il nuovo fronte su cui si stanno misurando i rapporti tra le classi nel nostro paese.
A questo appuntamento la CGIL e la FIOM arrivano disarmati. La CGIL perché tutta concentrata sull’unità ritrovata e sulla ricerca del "grande accordo". La FIOM perché è al suo traino. Dopo aver deciso congiuntamente di chiudere la battaglia sul Jobs Act, dopo aver passato l’estate a litigare sulla coalizione sociale ed i futuri gruppi dirigenti confederali (conferenza d’organizzazione), Landini e Camusso hanno trovato una nuova intesa proprio sul modello contrattuale. La FIOM ha appoggiato il documento di CGIL CISL e UIL. Di più: ha riagganciato convintamente FIM e UILM, nella speranza che in quel quadro si potesse rapidamente chiudere il contratto dei metalmeccanici. Su questa linea ha chiuso il Comitato Centrale dei primi di gennaio reprimendo la minoranza interna (vicenda Destradis e delegati/e FCA, di cui abbiamo dato notizia nei giorni scorsi) e prospettato una rapida soluzione positiva sul fronte contrattuale. Anche la FIOM, quindi, rimane senza nessuna prospettiva concreta di lotta, leccandosi le ferite del fallito corteo di novembre e della sua difficile situazione economico-organizzativa.
Questa è la grave responsabilità di questo gruppo dirigente. La ripresa del conflitto, nella guerra di movimento fra classi che è determinata dalla Grande Crisi, è essenziale. Loro ci hanno rinunciato. Chi si ferma, però, sperando in una tregua o nel riposo della trincea, è rapidamente accerchiato.
Il prossimo autunno si voterà il plebiscito costituzionale sul governo Renzi. Se la svolta bonapartista sarà completata, la forza accumulata dal governo sarà subito scagliata proprio contro lavoratori e lavoratrici, contro i loro diritti, contro le loro organizzazioni. Riprendendo quel programma antioperaio annunciato lo scorso settembre (normativa antisciopero, sistema contrattuale per legge, ecc.). Questa battaglia referendaria, quindi, non può e non deve avvenire nel vuoto delle lotte sociali, nell’arretramento sul fronte contrattuale. Perché i due termini della questione sono intrecciati: difesa democratica contro la svolta bonapartista, difesa di classe contro lo sfondamento padronale sul salario globale - diretto, indiretto e sociale. Per vincere in autunno sarà necessario convincere milioni di lavoratori e lavoratrici ad andare a votare, e votare no: contro una riforma costituzionale autoritaria, contro un governo che difende esclusivamente gli interessi dei padroni. Per reggere contro l’offensiva padronale, per difendere stipendi e diritti nei luoghi di lavoro, per mantenere un reale contratto nazionale, è necessario sconfiggere oggi Federmeccanica, ma domani anche Renzi, la sua torsione autoritaria e la sue politiche padronali.
Per entrambi questi obiettivi, allora, deve esser condotta oggi la lotta dei lavoratrici e dei lavoratori. Su questo ci impegneremo come PCL, con le nostre limitate forze. Nella minoranza della CGIL, della FIOM e nei sindacati di base, dove militano i nostri compagni e le nostre compagne. Sostenendo ogni lotta e ogni resistenza, nei territori e nei luoghi di lavoro. Facendo appello a tutta la sinistra sociale, politica e sindacale, perché su questi obbiettivi si mobiliti al più presto, costruendo un grande fronte unico di resistenza, contro il governo e contro il padronato.