Teoria

La violenza di genere come debolezza del patriarcato

Combattere la violenza del patriarcato dichiarando la guerra di classe al Capitale

28 Dicembre 2015

“La violenza di genere come debolezza del patriarcato” è stato l'oggetto del dibattito di una delle giornate della festa del Partito Comunista dei Lavoratori a Firenze. Il tema sullo sfondo che ha orientato le riflessioni delle quattro relatrici è stato un caso di stupro di gruppo avvenuto nel 2008, conosciuto come “lo stupro della Fortezza” (vedi: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/21/stupro-di-gruppo-a-firenze-tutti-assolti-ragazza-giudicata-io-non-violenza/1893590/ ; vedi anche il Testo sentenza assoluzione per stupro di gruppo alla Fortezza da Basso: https://abbattoimuri.wordpress.com/2015/07/23/firenze-testo-sentenza-di-assoluzione-per-stupro-di-gruppo-alla-fortezza-da-basso/), emblematico – in modo quasi grottesco – nei suoi sviluppi mediatici quanto giuridici. Proponiamo di seguito i quattro interventi che hanno cercato di inquadrare, da prospettive diverse, i nodi contemporanei del maschilismo. Il seguente testo rappresenta il secondo intervento.

Combattere la violenza e la coercizione femminile che la crisi incrudelisce, significa oggi più che mai, dichiarare al Capitale la guerra di classe.
Engels, nelle sue teorie che riguardano l’oppressione delle donne, riceve molti e successivi contributi teorici e anche critici, come quello affrontato da Simone de Beauvoir, che in: Il secondo sesso, realizza e riconosce in considerazioni articolate quanto nell’oppressione di genere, l’economia rivesta un ruolo di primo piano, per concludere che ciò però si rese possibile, unicamente per una sorta di riappropriazione del proprio status e ruolo, nelle mutevoli condizioni economiche:
« (…) La scoperta del bronzo ha consentito all’uomo, nell’esperienza di duro lavoro di produzione, di scoprire se stesso come creatore; che domina la natura, non aveva più paura di essa, e di fronte a ostacoli da superare trovò il coraggio di vedere se stesso come una forza attiva autonoma, per raggiungere l’auto-realizzazione come individuo».
Dunque è nella messa a punto di ‘applicativi’ e in una cultura di tipo stanziale, agricola, che si consolida nel sangue delle donne e nell’utilizzo strumentale di arnesi, la possibilità dell’uomo di soverchiare le donne che prima di quel momento, avveniva semplicemente con il differente piano di forza. Altri voci critiche, seguendo la falsariga della Beauvoir, identificano in una causa naturale la vessazione sulle donne, come nella loro capacità di procreare che le renderebbero parte di quell’ecosistema che il maschile cerca da sempre di dominare, iniziando dalle stesse.
Queste teorie spiegherebbero il patriarcato però senza tener conto delle diverse fasi storiche nel momento in cui si rendono tali e delle mutevoli condizioni economiche, tanto che nel capitalismo, anche il patriarcato viene utilizzato per e nella coercizione delle donne, in quanto soggetti sfruttati e sfruttabili.
Il capitalismo è infatti un Giano bifronte opportunista, capace formalmente di sbarazzarsi dei vecchi retaggi dal momento che l’utilizzo del femminile si rende necessario e come esercito industriale di riserva e o più semplicemente nel perpetrare il sistema socio-economico che rende possibile la vessazione delle medesime.
La borghesia, nel determinarsi come classe è cruenta e “rivoluzionaria”, il capitalismo industrializzato ha mostrato la notevole capacità di mutare radicalmente i rapporti di genere all’interno della società. Gli operai che in gran numero raggiungevano le città, davano il nuovo profilo allo stato presente delle cose e ciò equivaleva anche per le donne lavoratrici: forza lavoro da poter essere sacrificata alla fame del profitto del nuovo padronato e dunque le stesse, fagocitate dallo sfruttamento capitalistico.
Da qui la previsione non troppo puntuale a dire il vero di Engels che in tale costruzione di libere merci e profitto, prefigurava la fine della famiglia proletaria. Agli albori del capitalismo industriale gli uomini tutti, senza esclusione neanche dei bambini, erano destinati fatalmente alla fabbrica e il carico di lavoro si rendeva paritario nella fatica e nella miseria.
La morte infantile, registrava però dei picchi considerevoli, come a Manchester che contava 26.125 decessi per 100.000 bambini che non arrivavano neanche ad un anno. E rappresentava ben tre volte il tasso di mortalità che le aree non industriali contenevano.
Il capitalismo dunque, espropriò i lavoratori dal controllo del processo di produzione e in definitiva anche del proprio tempo, compreso quello legato all’intimità della propria famiglia, tanto da creare reali difficoltà al sistema nella possibilità di garantirsi nuove e sempre freschi numeri tra le fila della classe operaia ‘stabilendo’ di rafforzare - proprio a cavallo tra la fine del diciannovesimo e ventesimo secolo - la strutturazione del “sistema famiglia-nucleo familiare” a protezione delle sempre più serrate regole di mercato, tanto da far dire di tale organizzazione, vista come struttura, a Michèle Barrett, nell’interessante pubblicazione “L’oppressione delle donne oggi”:
« (…) un certo numero di persone, di solito biologicamente correlate, dipendono dai salari di alcuni membri adulti, soprattutto quelli del marito / padre, e in cui tutti dipendono principalmente dal lavoro non retribuito della moglie / madre per la pulizia, la preparazione del cibo, la cura dei figli, e così via. L’ideologia della “famiglia” è quella che definisce la vita di famiglia come ‘naturalmente’ basata su una stretta parentela, come correttamente organizzata attraverso un soggetto di sesso maschile che mantiene la famiglia con la consorte e i bambini a carico, e come un rifugio privato al di là della sfera pubblica del commercio e dell’industria».
Va da sé che i capitalisti non avessero alcuna voglia, né fossero in grado di andare incontro alla propria classe operaia consentendole di allevare la prole o anche solo concedendo pur timide concessioni da “stato sociale”, in congedi di maternità retribuita o asili e per questo si rese necessario che le donne tornassero al desco, rioccupandosi della casa, dei figli e dei “doveri domestici”.
La famiglia capitalistica era dunque da questo momento, finemente congegnata in maniera tale che non vi fosse escluso alcuno degli elementi coercitivi allineati su quel processo teso a salvaguardare la struttura economica vigente e in termini di ideologie, leggi, politiche, normative, riorganizzazione del lavoro e nei rapporti con il mondo della produzione e nelle relazioni industriali e ovviamente in tutto ciò che aveva come obiettivo e fine ultimo alla sopravvivenza della classe operaia e arricchimento per la borghesia: tornaconto dal plusvalore, in termini di profitto e salario familiare per i lavoratori.
La donna dunque, in tale e successiva riorganizzazione non si ritrova in alcuna dinamica occupazionale, anzi proprio in questo preciso momento storico, vive un disagio profondo: ragazze madri, vedove, donne sposate con uomini da redditi instabili, diventano docili strumenti di un sistema che le considera bacino di manodopera utilizzabile e particolarmente vulnerabile, con oneri familiari tali da non poter essere inquadrate in alcuna organizzazione di tipo sindacale, prive di prospettive di mobilità sociale, ridotte a salari molto bassi, con orari spezzati, tanto da dare la stura a quel divario di genere, che si sarebbe intensificato sempre di più, fino ad oggi.
Il capitalismo svuota e restituisce a proprio vantaggio: consente alle donne di partecipare alla grande lotteria del mercato del lavoro ma si guarda bene dal fornire le risorse indispensabili per la cura della propria famiglia, in una pretesa di “predisposizione naturale” che le pretende come uniche responsabili di ogni sforzo in tal senso, tanto che ad oggi, dopo aver ostacolato l’annosa lotta per il congedo di maternità retribuito, continua a rendersi conflittuale, carente e assente riguardo l’assistenza all’infanzia.
Il sessismo è dunque il pretesto di cui si avvale tale sistema economico, afferendo a sé, ovviamente, le relative realtà culturali. E da qui, la distorta percezione della sessualità femminile, che si esprime nella coercizione ideologica che trasmette e perpetra l’idea di questa come pericolosa, inaffidabile e da controllare e in tal direzione d’appannaggio solo maschile.
Ancora persiste infatti negli atti di violenza sessuale, un desiderio neanche troppo celato di controllo. E nel controllo, ci si assicura l’adempienza del proprio ruolo economico. E in questo modo la cultura sessista trova conforto nello sfruttamento economico.
Non c’è nulla di meno avverso ad una società egualitaria di quella neoliberista e le donne, nelle costrizioni subite, si trovano esattamente come soggetti che di tale divario pagano di più la disparità che si stabilisce tra coloro che possono dettare regole e coloro che a queste sottostanno, infatti: nella follia di credere che tale sistema possa riequilibrarsi da sé, in realtà si determina unicamente la sperequazione che determina le enormi ingiustizie del libero mercato che certo non si sottrae a nuove forme di schiavismo.
Per questa ragione e non solo, le donne fanno ancora difficoltà ad organizzarsi pugnaci, non realizzando appieno che tale modello, si appropria del patriarcato, proprio per avvantaggiarsene in ritorno economico.
Basti pensare inoltre agli scarsissimi servizi territoriali pubblici, abbandonati spesso in rivendicazioni e lotte, basti pensare ai consultori e quanto questi non siano più da tempo, il primo e fondamentale presidio per le donne, quanto l’incontro/confronto non vi sia contemplato, tanto che questi oramai, si sono ridotti ad essere né più né meno che dei centri polifunzionali per la famiglia, di servizi generalizzati. Addirittura in quelli pubblici spesso mancano gli ecografi, presenti ovviamente in quelli a pagamento, nella non improbabile volontà di rendere poco praticato e inutile, uno spazio pubblico.
Il decentramento nella gestione politica-amministrativa della materia sanitaria, ha consentito che enormi divari vi fossero nei servizi della penisola con il proliferare di strutture private in un sistema che ha decisamente abdicato – nel pur minimo accenno anche dei bisogni elementari - ad una “socialdemocrazia welfariana”, per soggetti politici che hanno fatto proprie logiche di lucro a discapito di una presenza pubblica che fosse quanto meno capace di pianificare e garantire un’assistenza capillare e includente alle diverse classi sociali ed economiche: tale aporia invece ha eluso spesso le normative nazionali (come la legge 194) e i servizi di buona qualità.
Non vi sono ricette o risposte esaustive, è importante però che le donne non abbandonino la lotta e soprattutto si organizzino per questa, abbracciando più aspetti dell’esistente, soprattutto nei processi produttivi, tenendo conto che una delle ultime indagini Istat, riguardo l’occupazione femminile, indica in un certo non rassicurante 30% il numero di lavoratrici che hanno lasciato l’impiego dopo la gravidanza.
La condizione di esodate per le donne è più dolorosa e difficile, basti pensare al ricatto che si pone di continuo al mondo del lavoro, come la “concessione” di contributi dimezzati previsti dal Jobs Act per le imprese che assumono lavoratrici, inoccupate da almeno 24 mesi o il ddl collegato alla legge di Stabilità 2016 con cui si introduce lo smart working e che merita un veloce ma esaustivo sguardo di insieme.
Questa forma di telelavoro (lavoro agile), presenta enormi vantaggi per le aziende e non solo per quelle private, i cui obiettivi legati alla produttività esprimono notevoli “refrattarietà” alle condizioni di salute o alle oggettive condizioni ambientali, ovviamente per una busta paga rendicontata al ribasso.
Infatti, nonostante la paga si definisca corrispondente alle ore impiegate nella prestazione d’opera, le regole di recesso, preavviso e anche di rinnovo contrattuale, sono stabilite a monte dal datore di lavoro. Non solo: pur se per contratto nazionale è possibile integrare quello stabilito dallo smart working, in realtà il lavoratore si ritrova senza una postazione fissa e il proprio contributo è richiesto a prescindere dalle ferie o dalla malattia.
E quest’ultimo punto non è da sottovalutare dato che sia malato che in ferie, al medesimo si richiede un impegno continuo a cui sono demandate completamente le cure sanitarie. A carico aziendale, vi sono gli strumenti informatici, la manutenzione, anche se spesso si delega all’“home-worker”, di far fronte al lavoro con i propri applicativi, risparmiando ulteriormente e sfruttando l’impegno profuso per una nuova schiavitù salariale, soprattutto se tali ‘progetti di riqualificazione’, sono pensati al femminile, alimentando un circolarità viziosa da cui difficilmente, senza chiare rivendicazioni, è possibile venirne a capo.
Sono necessarie azioni che partendo dal basso, leghino la militanza ad una presa reale di coscienza delle possibilità che solo un impegno di monitoraggio, denuncia e infine di solidarietà si concretizzino capaci nel far fronte all’endemica debolezza sociale ed economica del mondo femminile, come ulteriore frammentazione di classe voluta dal capitale, per consentirsi lo sfruttamento e la gestione a proprio vantaggio della crisi e del profondo malessere sociale.
Combattere tra donne, per le donne, significa combattere per la classe nel riflesso di rifrazione di una più ampia guerra al Capitale da sempre foriero di violenza, coercizione, diseguaglianze e modelli che ripropongono nuove catene alle caviglie di vecchi e nuovi schiavi e in definitiva del proletariato tutto, maschile e femminile.

Chiara Pannullo - PCL Firenze

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