Teoria

No one is safe

Lotta di classe e questione razziale nel ventre della bestia

5 Dicembre 2015

I comunisti non devono tenersi a distanza dal movimento dei neri, che rivendica la loro parità sociale e politica e che, attualmente, in una fase di rapida crescita della coscienza razziale, si sta diffondendo velocemente tra le masse nere. I comunisti devono utilizzare questo movimento per smascherare la menzogna dell’uguaglianza borghese, ed enfatizzare la necessità della rivoluzione sociale, che non solo affrancherà dalla schiavitù tutti i lavoratori, ma che è anche l’unica via per liberare il popolo asservito dei neri.” (John Reed, 1920).




La lotta che il popolo nero ha portato avanti nel corso della propria esistenza all’interno dello sviluppo capitalistico americano è cosa lunga e complessa. Da comunisti vogliamo tentare di dare delle risposte di classe a seguito dei focolai di rabbia riemersi da qualche anno nella comunità nera americana, a seguito dei molti omicidi per mano delle forze dell'ordine.


Per il pensiero mainstream le vicende riguardanti gli omicidi di Micheal Brown e di Freddie Gray sono questioni che vengono connesse a problemi sociali esclusivamente appartenenti alla comunità nera, alla loro “estraneità” sociale, al loro essere “ghettizzati”, o meglio “autoghettizzati”, riconoscendo nella comunità di colore un qualcosa di particolare, a sé stante. Una estraneità dovuta al fatto di essere “nero”, una estraneità razziale.


Così, se da una parte si vorrebbe far credere che gli omicidi siano frutto di errori e che la comunità nera negli USA viva un’integrazione ormai compiuta (si prendano in considerazione i discorsi moralizzanti di Obama), dall’altra si cerca di giustificare e minimizzare i gravi omicidi addossando alla comunità nera una sorta di voluta estraneità alle regole sociali della società americana, pescando nelle statistiche (non certo a favore della comunità nera) le prove di tali immaginarie verità.


La verità è molto, molto più in là delle congetture e delle menzogne della borghesia americana.



UN PASSO INDIETRO: DAGLI ANNI ’60 ALLA RIVOLTA DI LOS ANGELES


... Not tear gas nor baton charge, that stops you taking the city” (Ghetto Defendant, The Clash)


Al fine di avere un quadro che risulti il più nitido possibile, ma anche più completo, è necessario affrontare il discorso guardando ad una fase in cui le lotte del popolo nero hanno assunto, per intensità e per obiettivi complessivi, una rilevanza centrale e non trascurabile. Soprattutto se si vuole guardare a questa lotta rintracciandone nel suo evolversi elementi di chiara matrice anticapitalista.


Il 1960 segna una svolta nella politica economica americana, aprendo una nuova fase caratterizzata dal sorpasso dei democratici sui repubblicani e l’avvento di nuove misure economiche che coincidono con un passaggio del tutto nuovo del rapporto tra capitale e lavoro. Un anno prima, lo sciopero dell’acciaio (durato ben 116 giorni) convinse il capitale americano che erano necessari una nuova politica e nuovi metodi per gestire le lotte ed imbrigliare le risposte della classe operaia.


Si apre a questo punto l’era Kennedy, caratterizzata dallo slogan “È ora di far muovere di nuovo questo paese”, sotto il quale non si nascondeva nient’altro che una rinnovata politica di carattere neokeynesiano. L’obiettivo di Kennedy era dotare l’esecutivo di un potere capace di tenere a bada e stabilizzare i rapporti tra le classi, al fine di mettere un freno alle lotte. L’insorgenza proletaria ed operaia doveva essere controllata, e da elemento di rottura diventare forza motrice dello sviluppo economico. Siamo alla new economy, caratterizzata appunto dall’intervento statale in direzione della stabilizzazione dei rapporti tra le classi.


Se da una parte, un esultante Walther Heller (il maggiore artefice della politica economica kennediana) affermava una vittoria sulla disoccupazione, ignorando i grandi limiti dell’economia del boom che si sarebbero verificati di lì a poco, un nuovo problema minava la tanto sventolata stabilità del rinnovato sistema americano: l’inserimento in massa dei neri all’interno del settore industriale.


A seguito delle grandi rivolte di Charleston, Savannah, Birmingham, Watts, il movimento dei neri assunse caratteri totalmente diversi da quelli avuti fino a quel momento: l’ideologia dei “diritti civili”, con le sue battaglie legalitarie e con la nonviolenza come premessa di lotta generale, perse la propria leadership sul movimento. L’uso della violenza diretta contro la polizia segna un nuovo capitolo della coscienza del popolo nero. Se fino ad allora la nonviolenza e la legalità furono gli ultimi sintomi decadenti di una vecchia concezione della posizione del popolo nero all’interno del sistema, incomincia da quel momento a prevalere nella comunità nera un atteggiamento molto più conflittuale che non si ferma alla semplice richiesta di uguaglianza giuridica.


Il nuovo sviluppo economico, la nuova iniziativa del capitale ha fatto dei neri non più schiavi, ma proletari nel senso più moderno del termine; e tra i proletari quelli più emarginati nonostante le politiche volte a contenere la rabbia di questo nuovo settore della classe. Se il capitalista, o meglio lo Stato come garante di essi, si affida al welfare state come nuova gabbia alla rabbia operaia (in special modo “nera”), il proletario “black” risponde con pretese di potere (“Power!”), mettendo al centro della propria richiesta non più l’uguaglianza fittizia ed ideologica del “movimento dei diritti civili”, bensì il tema del potere come riappropriazione del lavoro e di quello che il capitale estorce al proletariato, dal punto di vista particolare del popolo nero. Basti pensare che a seguito dell’emigrazione dal Sud verso il Nord del paese, dopo la riforma del settore agrario che espulse circa 20 milioni di persone dal settore (in particolare i neri), nei grandi agglomerati urbani vi era una persona di colore su 4. Ad esempio nell’industria automobilistica di Detroit, la forza lavoro era in prevalenza di colore: era cambiata la natura strutturale del nero nella società americana, ed in particolar modo all’interno dei rapporti di produzione.


Tuttavia, per capire meglio la natura e le richieste del movimento del popolo di colore, non possiamo non prendere in considerazione due realtà su tutte che ne hanno segnato per sempre la storia, delineandone il carattere conflittuale e di classe contro il sistema capitalistico: i fatti di Detroit come espressione della rabbia della forza lavoro nera, e la nascita del Black Panthers Party come organizzazione rivoluzionaria nera.



DETROIT


Motor City is burning” (MC5)


Difficile parlare di Detroit senza pensare che stiamo parlando della capitale dell’industria automobilistica americana, ed ancora più difficile parlare di Detroit senza immaginarla mentre brucia. “Motor City is burning”… ci si potrebbe chiedere cosa voglia significare. Molte città sono “bruciate”. Quante tuttavia con il numero forse più alto in assoluto di forza lavoro di colore all’interno dell’industria automobilistica?


Indubbiamente Detroit ha rappresentato la più avanzata realtà della natura sociale e metropolitana degli Stati Uniti, ma anche quella più complessa e completa dal punto di vista del popolo nero, delle sue rivendicazioni, dei suoi obiettivi e della collocazione all’interno del ventre americano. Le parole di apertura del primo numero dell’Inner City Voice (1967), organo d’informazione dei neri di Detroit, sotto il titolo di Michigan slavery, ci fanno toccare con mano la coscienza sviluppata dai lavoratori neri della città:


Nella Rivolta di Luglio abbiamo dato un segnale significativo a chi amministra il potere bianco, ma apparentemente il nostro messaggio non è stato recepito... Noi stiamo ancora lavorando troppo duramente, venendo pagati troppo poco; stiamo ancora vivendo in pessime abitazioni e stiamo mandando i nostri figli in scuole di scarso valore educativo e stiamo ancora pagando troppo la merce dei negozi e siamo ancora trattati come cani dalla polizia. Ancora non possediamo nulla e non controlliamo nulla… In altre parole noi siamo ancora sfruttati dal sistema e abbiamo ancora la responsabilità di dover rompere la schiena a questo sistema. Soltanto delle persone che sono forti, unite, armate e che conoscono il nemico possono affrontare la lotta che ci attende. Pensaci Fratello, difficilmente le cose andranno meglio, la Rivoluzione deve andare avanti”.


La rivolta iniziata il 23 luglio e durata cinque giorni, con morti, feriti e tutte le truppe d’America mobilitate, fu scatenata da un sopruso verso il popolo nero. La polizia voleva chiudere un locale, arrestando all’incirca un’ottantina di neri, che stavano festeggiando dei cari tornati vivi dal Vietnam, da una guerra imperialista.


La stessa presenza di gruppi rivoluzionari nella città era sbalorditiva. Il DRUM (Dodge Revolutionary Union Movement), l’ELRUM (Eldon Avenue Revolutionary Union Movement), il Wildcat Group, la League of Revolutionary Black Workers, tutte organizzazioni impegnate nella lotta allo sfruttamento e contemporaneamente alle burocrazie dei vecchi sindacati (United Auto Workers).


È doveroso sottolineare una particolarità di alcune organizzazioni nere, a volte accusate di aver separato i lavoratori neri dai bianchi. Nella lotta alle burocrazie sindacali, molto spesso gli operai bianchi erano delle vere e proprie aristocrazie operaie, guidate e manovrate da sindacati la cui natura socialdemocratica si esprimeva nel concetto “bianchi e neri uniti”, al fine di controllare ed ingabbiare gli operai più coscienti e propensi alla lotta. Una spaccatura che se da una parte fu voluta dai sindacati risucchiati dal sistema, dall’altra fu inevitabile per alcune forze rivoluzionarie. Nell’interpretazione di questa difficoltà nel realizzare un’unità di classe, che data la posta e le forze in campo definire ardua è poco, valgono significativamente le parole che ebbe a dire Malcolm X:


Stiamo vivendo in un’epoca di rivoluzione, e la rivolta dei neri americani è parte della ribellione contro l’oppressione, che ha caratterizzato quest’era. Non è corretto classificare la rivolta dei negri semplicemente come un conflitto razziale dei neri contro i bianchi, o come un problema meramente americano. Piuttosto, oggi stiamo assistendo ad una ribellione globale dell’oppresso contro l’oppressore, dello sfruttato contro lo sfruttatore.”


Per quanto possiamo essere d’accordo o meno sulla correttezza delle azioni e della prassi delle organizzazioni rivoluzionarie in quel di Detroit (e la presente riflessione non si prefigge questo obiettivo), quello che veramente ci interessa rilevare da questa bellissima pagina di storia delle lotte operaie è che di fronte a questa lotta crolla la razza e si erge la classe, nel senso più limpido del termine.



BLACK PANTHERS PARTY FOR SELF-DEFENCE


Le pantere nere sono la minaccia più grande contro la sicurezza interna del paese” (Edgar Hoover)


Affrontare qui per intero la complessa storia del Black Panthers Party è impossibile. Meriterebbe di essere scritta in migliaia di pagine, e tuttavia ci sono degli elementi tanto importanti quanto unici che ci aiutano a capire la natura di classe della questione. Non è interesse di questa riflessione esprimere pareri o giudizi su cosa siano state o meno le Pantere Nere e la loro organizzazione, se essa sia stata realmente capace di dare uno sbocco rivoluzionario alla rabbia del popolo nero, se fosse stato giusto seguire alcune strade invece che altre, se il proprio programma sia stato corretto o meno, completo o meno.


La particolarità del BPP (Black Panthers Party) fu quella di aver dotato la popolazione di colore di uno strumento di lotta di chiara matrice leninista, un partito d’avanguardia, formato da avanguardie e basato su un programma ben definito. Questi aspetti, uniti alla forma di lotta del self-defence (autodifesa) ed alla capacità di saldare un legame con il ghetto, hanno fatto delle Pantere Nere i rivoluzionari di colore più organizzati e più lungimiranti della storia delle organizzazioni rivoluzionarie “black”.


Se partiamo dal famoso “Ten Point Program”, possiamo rintracciare degli aspetti peculiari degli obiettivi che il BPP si prefisse, peculiarità che resero il programma facilmente accessibile al ghetto, e che riuscì in pochi anni ad espandere all’intero paese un progetto politico nato come piccolo gruppo ad Oakland, California.


- Vogliamo la libertà, vogliamo il potere di determinare il destino della nostra comunità nera.


- Vogliamo piena occupazione per la nostra gente.


- Vogliamo la fine della rapina della nostra comunità nera da parte dell'uomo bianco.


- Vogliamo abitazioni decenti, adatte a esseri umani.


- Vogliamo per la nostra gente un'istruzione che smascheri la vera natura di questa società americana decadente. Vogliamo un'istruzione che ci insegni la nostra vera storia e il nostro ruolo nella società attuale.


- Vogliamo che tutti gli uomini neri siano esentati dal servizio militare.


- Vogliamo la fine immediata della brutalità della polizia e dell'assassinio della gente nera.


- Vogliamo la libertà per tutti gli uomini neri detenuti nelle prigioni e nelle carceri federali, statali, di contea e municipali.


- Vogliamo che tutta la gente nera rinviata a giudizio sia giudicata in tribunale da una giuria di loro pari o da gente delle comunità nere, come è previsto dalla costituzione degli Stati Uniti.


- Vogliamo terra, pane, abitazioni, istruzione, vestiti, giustizia e pace.


Il programma nacque chiedendosi di che cosa avesse bisogno la comunità nera, le urgenze del popolo nero, quali questioni facilmente accessibili a quello che era il livello culturale a cui il capitalismo aveva relegato la comunità di colore. Il capitalismo, attraverso le sue privazioni, spinse molti giovani del ghetto a scegliere la strada della delinquenza, al fine di assoggettare continuamente la comunità di colore ed il ghetto ad uno stato di polizia permanente. A riprova del fatto basterebbe consultare la piccola introduzione autobiografica che George J. Jackson (tra i principali militanti del partito, organizzatore e dirigente del movimento clandestino dei detenuti) scrisse in apertura alle sue lettere dal carcere.


Da ragazzo dedito al furto a rivoluzionario educatosi in galera. Questa fu per molte Panthers la formazione rivoluzionaria.


Quando entrai in carcere scoprii Marx, Lenin, Trotskij, Engels e Mao, e ne fui redento”


Jackson riesce a fotografare attraverso la propria esperienza quella di altri rivoluzionari della comunità nera.


Punti del programma confermano la visione della questione nera da un punto di vista di classe. L’audacia di reclamare la libertà per la comunità nera equivaleva a ribellarsi allo status quo in cui versava la comunità di colore. Libertà equivale a fine del capitalismo, quale sistema economico che ha schiavizzato e successivamente supersfruttato la comunità nera, oltre a gettarla immediatamente nella disoccupazione quando l’economia del boom mise in evidenza i suoi limiti, propri del capitalismo.


Pensiamo che il governo federale sia responsabile e obbligato a dare ad ogni persona un lavoro ed un salario garantito. Pensiamo che se i capitalisti americani non daranno mai piena occupazione, allora la tecnologia e i mezzi di produzione dovrebbero essere presi da loro e messi a disposizione della comunità, così che le persone della comunità stessa possano organizzare ed impiegare tutta la loro gente e dargli un alto tenore di vita.”


In questo passo del secondo punto del programma troviamo la richiesta del diritto al lavoro, ad un salario garantito, alla qualità della vita contrapposta alla miseria del ghetto, mettendo al centro in maniera realistica i bisogni della comunità. Il programma continua chiedendo istruzione, diritto all’abitare, esoneri dal servizio militare (rifiuto di servire le guerre imperialiste nel nome dell’internazionalismo) e soprattutto un punto oggi più che mai attuale: “Vogliamo la fine immediata della brutalità della polizia e dell'assassinio della gente nera.”



È proprio a tal proposito che il “patrolling” (perlustrare il ghetto armi alla mano al fine di difendere la comunità dagli abusi e dalle violenze poliziesche, ma soprattutto per far sì che quelle violenze siano prevenute ed evitate, spesso senza colpo ferire) diventa prassi, unito alla conoscenza nei minimi dettagli della legge e dei diritti del “cittadino”.


Affermare il proprio diritto all’esistenza e alla resistenza, dotarsi di un programma, saldarsi alla comunità degli sfruttati, praticare l’autodifesa, rivendicare potere “nero” da un punto di vista socialista come inizio di una liberazione più generale del proletariato americano, a partire dalla ribellione della comunità di colore:


...il razzismo e le differenze etniche permettono alla struttura di potere di sfruttare le masse di lavoratori in questo paese, perché quella è la chiave con cui mantengono il loro controllo. Dividere le persone e conquistarle è l’obiettivo della struttura di potere… nella realtà è la piccola, minoritaria classe dominante che comanda, sfruttando e opprimendo i lavoratori… Quindi essenzialmente non è per niente una lotta di razza… dal nostro punto di vista è una lotta di classe fra la massa della classe lavoratrice proletaria e la piccola, minoritaria classe dominante. I lavoratori di tutti i colori devono unirsi contro la classe dominante che sfrutta e opprime. Quindi lasciatemi sottolinearlo ancora, crediamo che la nostra lotta sia una lotta di classe e non una lotta di razza”. Bobby Seale



La “colonia interna”, che mosse guerra al sistema teorizzando una lotta di popolo, ebbe il merito e l’audacia di portare nei fatti la guerra in casa, come se le foreste vietnamite fossero diventate improvvisamente le strade di Los Angeles o di New York. La complessità militare che il partito fu in grado di elaborare, unita alla propria peculiarità di arrivare così profondamente a livello teorico, è ancora oggi stupefacente. Legalità ed illegalità che si fondevano ed alternavano hanno fatto del BPP una delle organizzazioni rivoluzionarie più importanti, spingendosi molto più in là della questione della rappresentanza del popolo nero.


Come sappiamo l’FBI non rimase a guardare, scatenando un guerra contro il BPP senza esclusione di colpi, proprio come le Pantere combattevano: con ogni mezzo necessario. Il BPP fu sconfitto, forse a causa di aver osato troppo senza accumulare le necessarie forze per muovere guerra al gigante, ma non sta a noi occuparcene.


Ci basta sapere che fu lotta di classe, e in molti hanno perso. Sta a noi proletari raccogliere, nonostante la grande distanza, l’esperienza e la sconfitta delle Pantere. E forse continueremo a sbagliare, osando coscientemente, perché come ben sappiamo la lezione de “il 6 novembre è presto, l’8 novembre è tardi” siamo ancora ben lungi dall’impararla.



LOS ANGELES


« I neri non hanno la vita facile. Mio padre veniva dal Sud e mi ha raccontato com’era laggiù ai suoi tempi. Non posso dire che sia cambiato molto…» (Rodney King)


Un’automobile fermata per eccesso di velocità, un uomo a terra ed un gruppo di poliziotti intorno. Sferrano calci, pugni, e una dopo l’altra cinquantasei bastonate. Una telecamera da una casa riprende tutto. L’uomo a terra è Rodney King, un tassista di colore. Il video farà il giro degli States scatenando una delle più grandi rivolte che gli Stati Uniti abbiano mai visto. Non siamo più negli anni '60, siamo nel 1991. Los Angeles.


Città contraddittoria, città dei ricchi e vetrina scintillante, da una parte. Dall’altra, città di emarginazione e degrado, città di poveri e senzatetto. Una città, come del resto gli interi Stati Uniti, solcata da profonde ineguaglianze di classe.


Dopo la mancata condanna agli agenti che pestarono Rodney King, si scatena la rabbia di migliaia di persone. Centri commerciali e negozi dei bianchi, così come quelli dei neri, degli ispanici e dei coreani furono presi di mira e saccheggiati. I rivoltosi si “riappropriarono” della merce, persino madri con i loro piccoli in braccio.


L’ ingiustizia verso Rodney King rappresenta non solo il simbolo di un’America razzista (il poliziotto che lo picchiava ripeteva di continuo “sporco negro”), ma soprattutto la rabbia di classe che cova ed esplode a seguito della goccia che fa traboccare il vaso. E non è un caso che la massa in rivolta si sia in maniera prioritaria “riappropriata” dei beni quotidiani a cui difficilmente riuscivano ed ancora oggi riescono ad accedere. E non può essere un caso che i rivoltosi non fossero soltanto neri, ma in maggioranza ispanica, e una percentuale di bianchi non sottovalutabile.


La “riappropriazione” diretta della merce è un qualcosa che ha a che fare strettamente con il sistema capitalista. Il “saccheggio”, come veniva definito dai media borghesi, fu uno strumento di lotta capace di disturbare quel meccanismo del consumo con cui il capitale riesce ad ingabbiare e ad annichilire le masse nella quotidianità. I rivoltosi si muovevano in macchina, colpivano gli obiettivi, creavano ingorghi, permettevano la riappropriazione. Etnie divise dal capitale lottavano insieme, le due gang storiche di Los Angeles stabilirono un tregua e si unirono alla rivolta, le masse danneggiavano il capitale allo stesso modo in cui il proletariato danneggia il profitto nella sfera produttiva; i riots di Los Angeles colpirono il capitale nella sfera del consumo e della distribuzione.


Per molto tempo il capitale ha costretto gli oppressi ad ammazzarsi tra di loro. In quei giorni gli oppressi si unirono per lottare contro l’oppressore, superando il razzismo da sempre usato al fine di dividere la classe. La rivolta fu sedata con la forza, 54 persone morirono, la repressione fu di una durezza inaudita. Tuttavia a spaventare i potenti rimase e rimane quel processo di politicizzazione nato a partire dai quei giorni.


Il Newsweek non poté fare a meno di pubblicare la risposta ricevuta da un sociologo dell’urbanesimo a proposito dei fatti: «è stata una rivolta di classe».




AI GIORNI NOSTRI, DA FERGUSON A BALTIMORA


No Justice, no peace”


A causa degli omicidi di Micheal Brown e Freddy Grey la rabbia è tornata a scoppiare. Le ragioni non sono affatto diverse da quelle delle sollevazioni degli anni '60.


I riots di Ferguson sono divampati a seguito di un atto che ha una duplice natura: quella del razzismo e quella della violenza poliziesca. Lo stolto liberalprogressista vorrebbe ridurre le rivolte essenzialmente a questi due fattori (o magari soltanto ad uno dei due) vedendo il razzismo e la violenza poliziesca come estranei alla società nel suo complesso. Da marxisti, non possiamo non considerare questi due fattori come essenziali all’interno della società capitalista. Accentuati, oltretutto, dalla grave crisi economica che attanaglia il capitale. Abbiamo già messo brevemente in mostra come razzismo e capitalismo siano strettamente connessi. Lo sviluppo del capitalismo americano è strettamente legato allo sfruttamento razziale. Ci è quindi impossibile partire da questo principio, che comunque è un dato di fatto difficilmente negabile.


Nella crisi sistemica, le difficoltà di valorizzazione portano i capitale ad accentuare lo sfruttamento della forza lavoro impiegata nella produzione e allo stesso tempo ad accrescere le masse di disoccupati, a causa della distruzione di una consistente quantità di forze produttive.


Gli agglomerati sociali e di classe che vivono ai margini del sistema crescono sempre più, sempre meno integrati in esso e a rischio continuo di povertà. Negli States gran parte di questi agglomerati sono composti da persone di colore. I processi di “gentrificazione” del tessuto urbano hanno espulso i lavoratori più poveri dalla città, in lontane periferie. Ciò ha portato ad una crescita della miseria nei sobborghi. A New York, ad esempio, la percentuale dei disoccupati neri è quattro volte più grande di quella dei bianchi.


La natura razzista del capitalismo americano, il quale ha utilizzato il fattore razziale come fattore principale alla base del suo sviluppo (facilissimo sfruttare chi gode di diritti inferiori anche rispetto all’operaio bianco), è chiaramente esposta nelle mansioni di sfruttamento e marginalizzazione alle quali i neri sono legati.


Vedere nel disoccupato “cronico” un potenziale delinquente è una delle prerogative che da sempre caratterizzano la borghesia bianca americana. Se poi il soggetto sbattuto ai margini del sistema dai rapporti di produzione è nero, diventa il capro espiatorio di tutti i giustizialisti e sceriffi d’America, con o senza stella. Evidenziando una tradizione razzista che ha sempre incorporato e giustificato in nome del profitto l’inferiorità delle masse di colore. Allo stesso modo, reprimere con la paura e la violenza poliziesca le comunità nere è il giusto deterrente alle loro aspirazioni di eguaglianza, al loro malessere sociale che è portato in questo modo a non esprimersi all’interno della società e all'interno della classe. Questione razziale e lotta di classe si fondono in una sola grande diseguaglianza.
Razzismo è capitalismo, violenza poliziesca è capitalismo, terrorismo è capitalismo.


La composizione di classe che è emersa a Ferguson ed a Baltimora è molto interessante, in quanto riporta direttamente a parte degli strati sociali che hanno incendiato la prateria nei riots di Atene. I “rivoltosi” sono composti in maggior parte da salariati e disoccupati colpiti dalla crisi, da lavoratori sottopagati, ma anche da giovani emarginati… una miscela sociale che unisce le varie categorie di sfruttati dal sistema, geograficamente concentrati negli agglomerati metropolitani, caratteristica estesa a scala mondiale al giorno d’oggi.


Possiamo definire questo proletariato e semiproletariato metropolitano come la “massa del XXI secolo”, rigidamente determinata dalle trasformazioni in atto all’interno del sistema di produzione. Le voci che correvano su e giù nei riots esprimevano gradi di coscienza che solo un pazzo ignorerebbe. Una donna invitava le bande di quartiere all’abbandono dello scontro fratricida per unirsi alle lotta contro la polizia :


Dove sono i teppisti, eh? Dove sono le bande di strada quando ne abbiamo bisogno?”

“È così che ci prendono i soldi: business e tasse, polizia che ferma e multa le persone, le porta in tribunale, le fa rinchiudere – questo è il modo in cui fanno i soldi a St. Louis. Tutto è questione di soldi a St. Louis. Così, se il loro flusso di reddito si interrompe, si organizzano… ‘noi mangiamo, voi morite di fame’, gentrification – ti mettono in un certo quartiere da soli e guardano se davvero muori di fame… Ma non succederà, non a St. Louis.”


Continuiamo a dare i nostri soldi a questi bianchi, viviamo nelle loro case, e così non possiamo certo ottenere giustizia. Non c’è nessun rispetto. Sono sempre pronti a metterti alle strette se non paghi una bolletta… Non se ne può più.”



La rete della lotta di classe si arricchisce di maglie sempre più strette, sempre più fitte, sempre più forti.


L’importanza che stanno rivestendo i riots all'interno della manifestazione dello scontro di classe non è sottovalutabile. Come per piazza Syntagma, come per piazza Tahrir, come per piazza Taksim la pratica del riot di massa, espressione di disagio causato dal sistema, ha una centrale importanza nella lotta anticapitalista. Le nuove pratiche e i nuovi linguaggi delle masse nell’epoca della crisi evidenziano l’irriducibilità delle forme della lotta di classe, confermando ancora una volta e per sempre la validità dell’analisi marxista del capitalismo. I riots di Ferguson e di Baltimora sono espressioni di classe, espressione riflessa e immediata delle condizioni di masse stanche dello sfruttamento.


Tuttavia senza una chiara riflessione sulla direzione delle lotte, compito per il quale si rendono necessarie forme di organizzazione politica, queste forme di lotta finiscono per terminare dopo i fuochi iniziali. La differenza con il passato sta proprio in questo deficit: non ci sono organizzazioni politiche riconosciute capaci di portare avanti la rabbia, e di articolarla nel tempo, distillarla attraverso una strategia di lungo periodo. Manca il fattore organizzativo, come fu nelle lotte operaie di Detroit; o manca il partito, che bene o male si materializzò a partire dalla nascita delle Pantere ad Oakland.


Contrapporre una propria strategia a quella del capitalismo e dei suoi strumenti repressivi: ad oggi questo sembra mancare. Organizzare i lavoratori, gli studenti,i disoccupati della comunità nera e non solo. Non fosse altro per evitare le speculazioni democratiche del “Presidente nero”, che purtroppo ancora riesce a far breccia tra gli strati meno coscienti del popolo di colore. Organizzarsi da un punto di vista di classe, l’unica via che il popolo nero può imboccare per la propria libertà. Proprio perché “Black Lives Matters”, le vite dei neri contano.




NOTE:



Alcuni approfondimenti di singoli temi sono stati preziosi per la realizzazione di questa riflessione :


Sulla città di Detroit : Detroit è morta, viva Detroit! parte 1 e 2 di Sandro Moiso su Carmilla Un testo per approfindimento : Dan Georgakas, Marvin Surkin, Detroit: I Do mind Dying. Facilmente reperibile in PDF on line


Sul Black Panther's Party i vari scritti di G. Jackson ( Con il sangue agli occhi; I fratelli di Soledad ) di Bobby Seale (Seize the Time: The Story of the Black Panther Party and Huey P. Newton) e la propaganda del BPP.


Sui Riots di Los Angeles si veda "LA '92: The context of a proletarian uprising" pubblicato sulla rivista Aufheben e tradotto da Finimondo.




Sui riots di Ferguson e sugli ultimi avvenimenti : “Bruciare la prigione” dal sito It ain’t where ya from notes of a communist wobbly” tradotto dalla redazione di Infoaut.

L.T.

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FONTE