Dalle sezioni del PCL

Salvador Allende, la Scuola di Chicago e noi

5 Dicembre 2015

La bella città di Chicago oltre ad essere la capitale del Blues nonché la terza città statunitense ha, sotto certi aspetti, un poco pregevole primato. Fu la “cuna” di quella che viene definita “La scuola di Chicago”. Tale termine anche se sottende architettura, sociologia ed altro, essenzialmente è adoperato per indicare un pensiero economico di matrice profondamente liberale che può essere sintetizzato in alcuni principi canonici secondo i quali i mercati in condizioni di libera concorrenza sono, essi stessi capaci di allocare correttamente le risorse economiche necessarie allo sviluppo e distribuire in maniera “efficiente” il reddito prodotto senza la necessità di alcun intervento statale di programmazione od indirizzo, salvo quello del controllo delle fluttuazioni macroeconomiche derivanti dalla creazione delle condizioni
favorevoli alla crescita dell’offerta monetaria, proprio per eliminare il pericolo di politiche fiscali che potrebbero
danneggiare gli operatori economici.

Su questo paradigma, un gruppo di professori tra i quali primeggiavano due Premi Nobel, Milton Friedmann e George
Stigler formarono nella prima metà degli anni settanta un gruppo di giovani economisti i “Chicago Boys”, parecchi dei
quali collaborarono con il ministro dell’economia del governo Pinochet, José Piñera, alla stesura dei piani di politica economica che affossarono le riforme varate, prima del colpo di stato militare, dal legittimo governo presieduto da Salvador Allende.

Proprio in Cile il capitalismo americano sperimentò, in maniera brutale ma vincente, quanto successivamente avrebbe attuato su scala planetaria attraverso le “Riforme” economiche realizzate da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Facendo un passo indietro nella storia del novecento si incontra l’evento economicamente più tragico del secolo. La crisi del 1929. Scoppiata negli Stati Uniti con il crollo della borsa di New York, generata essenzialmente da errori
speculativi di un sistema finanziario cresciuto, in maniera esponenziale e senza alcun controllo. La crisi costrinse la
politica a concepire un nuovo rapporto tra stato ed economia, superando il concetto neoclassico “dell’astensionismo” ed ammettendo, per la prima volta nella storia economica capitalista, la possibilità di interventi di programmazione, indirizzo e controllo dei rapporti economici, al fine di correggere gli squilibri, regolamentando conseguentemente, le attività economiche. Qualcosa di profondamente diverso dal sistema Sovietico di programmazione e pianificazione, ma
qualcosa di innovativo pur nel quadro di sviluppo capitalistico della società, attraverso il quale erano disegnati e delimitati i confini dello sviluppo, con paletti il cui superamento era interdetto agli operatori economici.

Allo stato venne affidato l’incarico di stimolo dell’economia, favorendone lo sviluppo, nelle fasi recessive, attraverso massicci investimenti, ma frenandolo in caso di crescita squilibrata. Funzione complessiva non certamente programmatrice di tipo globale come quella Sovietica, ma regolatrice ed equilibratrice.

Nonostante queste scelte, contestate peraltro aspramente dalla destra statunitense, il periodo recessivo, pur se con
limitata virulenza proseguì innescando, in seguito al rallentamento degli interventi statali, la crisi del 1938 superata con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Come già era avvenuto con la crisi del 1912, superata con lo scoppio della prima guerra mondiale, la fase recessiva anche in questa occasione è superata con la guerra e la conseguente distruzione di capitale, secondo i canoni classici individuati e denunciati dall’analisi marxista.

Il modello “Rooseveltiano” ha retto fino all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, nonostante i profondi
cambiamenti subiti a partire già dagli anni cinquanta e nonostante la diversa interpretazione e realizzazione attuata al di qua ed al di la dell’Atlantico.

Il riuscito esperimento Cileno operato dai “Chicago Boys” mette le ali alle sfrenate politiche liberiste teorizzate dalla
“Scuola di Chicago” e realizzate del duo Reagan – Thatcher, lo stato sociale, conquistato con dure lotte, viene
smantellato prima in Inghilterra e successivamente negli Stati Uniti, la globalizzazione e la parallela delocalizzazione delle attività produttive prende sostanzioso corpo e cosa più grave vengono slegati ogni e qualsiasi lacciolo imbrigliante la speculazione finanziaria. Nasce la finanza creativa tanto cara a quell’avida economia che attraverso l’utilizzo dei mezzi, anche informatici, realizza enormi profitti turlupinando grandi e piccoli risparmiatori ed instaurando di fatto una gigantesca “Piramide Ponzi”.

La fallimentare esperienza del periodo Reagan – Thatcher si
conclude con lo scoppio della bolla finanziaria dei mutui “Subprime” che pose fine ad una serie di manovre
speculative come quelle della vendita del debito attraverso fondi d’investimento strutturati, studiate suggerite ed attuate attraverso i dettami della “Scuola di Chicago”.
Nonostante i risultati fallimentare l’egemonia culturale di quella scuola ancora oggi è più vivo che mai. Tutta la
politica economica occidentale specialmente quella della vecchia Europa associata nell’Unione, trasuda i dettami
ispirati da quelle teorie, che privilegiano, nella liberalizzazione selvaggia e nella deregulation la speculazione attraverso investimenti nelle attività finanziarie, stornando, (nei paesi ad alto sviluppo economico) l’attenzione degli investitori dalla generazione del profitto attraverso attività industriali e relegando questo tipo di investimenti nei paesi emergenti a bassissimo costo salariale e sociale, desertificando conseguentemente le strutture produttive dei paesi
industrializzati. In Italia la Fiat ha fatto scuola.

Entrando più specificamente nel tecnico per cercare di spiegare gli attuali meccanismi di prelievo ed accumulo di
capitale, emerge che la tecnica utilizzata dal capitalismo internazionale per la valutazione dei beni “capitale”,
attraverso il massiccio acquisto o vendita di prodotti finanziari delle singole realtà nazionali, determina l’incremento o il decremento del prezzo di mercato dei beni “Capitale” influenzando contemporaneamente positivamente o negativamente gli investimenti finanziari degli altri operatori economici presenti sui mercati spostandone i flussi dai prodotti correnti per incanalarli nelle aree speculative.
Abbassando o aumentando contemporaneamente i profitti parallelamente al costo del servizio del debito, attraverso i
meccanismi appena succintamente descritti, si rendono insufficienti i flussi di cassa delle istituzioni fortemente
indebitate; in quel momento scatta la pressione sulla necessità di confermare la capacità di far fronte al debito, pena il ritiro dei fondi da parte degli investitori dominanti. Il gioco è fatto si controlla e si indirizza così il flusso finanziario prelevato dalla pressione fiscale, verso il soddisfacimento delle azioni speculative ordite anche attraverso il braccioarmato, delle strutture sopranazionali all’uopo create (Troika docet).

Da qui nasce lo smantellamento dello stato sociale, il mito del pareggio di bilancio, le politiche di austerità e il blocco
degli investimenti di Keynesiana fattura. Questa la realtà culturale che quella scuola ha elaborato e instaurato ed con
questa realtà culturale che il moderno proletariato deve confrontarsi.

Oggi nell’era della precarietà, dove l’alta specializzazione provoca miseria, dove ragazzi dotati di elevata preparazione universitaria, padroni spesso di più lingue, sono costretti, per vivere, ad accettare retribuzioni da fame.
Dove i ricercatori vivono l’incubo della disoccupazione, dove il formarsi una famiglia diventa un sogno utopistico,
dove la certezza del domani è diventata memoria storica detenuta dalle generazioni oggi pensionate, che viene
vigliaccamente mascherata come lotta intergenerazionale per nascondere lo scempio perpetrato dal dirottamento delle risorse finanziarie drenate dalla fiscalità o dalla contribuzione verso il soddisfacimento delle azioni speculative.

Oggi il moderno proletariato deve porsi la domanda se continuare ad accettare simili frustrazioni o necessita far divampare la lotta di classe per tentare di sconfiggere la piovra la cui voracità sta distruggendo i rapporti sociali a livello planetario.

In una recente intervista rilasciata da Noriel Rubini, forse l’unico economista che già all’inizio del secondo millennio
predisse lo scoppio dell’attuale crisi, individuando nei “Mutui Subprime” l’elemento scatenante della stessa, affermava l’anomalia dell’attuale stagnazione rispetto a quelle cicliche di sistema presenti nell’evoluzione capitalista, osando l’affermazione di “Crisi sistemica” del modello di sviluppo, intravedendone nel probabile eccessivo prolungamento ilcrollo di ciò che si regge su non solide basi e che per perpetuarsi ha risolto le proprie contraddizioni distruggendo il proprio prodotto attraverso la violenza della guerra.
Pericolo reale, che i focolai innescati da sconsiderate azioni politiche o militari oggi hanno reso attuali.

Concludo chiedendomi se da qualche parte, su questo martoriato pianeta, qualche proletaria abbia partorito un bimbo dotato di quella capacità di elaborazione e sintesi che possa permettere alle future generazioni di superare le storture esistenti e fondare una società diversa dove l’uguaglianza nel senso più elevato e completo del termine sia modello di vita e di sviluppo. Me lo auguro, visto che ne la mia ne la generazione successiva alla mia sono stati capaci di mantenere le conquiste sociali ottenute dalla generazione che ci ha preceduto; altrimenti ritengo che percorrendo impavidamente questa strada l’uomo e tutti gli essere viventi saranno destinati ad ardere nel fuoco atomico generato dalla propria ingordigia e miopia.

Vincenzo Facciolo (PCL Savona)

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