Teoria

Dal moderno al postmoderno

6 Luglio 2015

Un altro intervento nella polemica contro l'ideologia "postmoderna".
Per approfondire, leggi "Problemi di fondo e inviti alla lettura" disponibile qui http://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=4374

dal moderno al post-moderno

Secondo l'ideologia post-modernista, l’odierna civiltà atomizzata, tanto da non poter essere considerata nemmeno società e studiata come tale, ma piuttosto come una rete di relazioni provvisorie, collaborative o conflittuali, fra individui separati ma egualitariamente omologati e soggiacenti all’imperativo economico globale, viene considerata la realizzazione naturale della storia umana.

In questo presunto caos dove il “culturale” diventa naturale e perciò immutabile, la rappresentazione del “principe” si concentra in figure simboliche, la cui abilità è quella di saper riproporre “il sempre uguale” con modalità sempre nuove. In tale contesto i conflitti di classe non avrebbero nessuna possibilità di emergere in quanto “il potere” risiederebbe ovunque come in ognuno di noi e quindi in nessun posto e le uniche colpe possibili sarebbero inefficienza, pessimismo e corruzione, considerate come conseguenze del periodo “sociale” precedente.

Ma questa visione non è soltanto l'autorappresentazione apologetica della borghesia e dei suoi intellettuali (cosa che dovrebbe essere scontata) ma viene data per buona anche dai movimenti sedicenti antagonisti di area anarco-movimentista.

Nell'articolo su questo blog ”Problemi di fondo e inviti alla lettura”, Trotsko sostiene giustamente che: ”Estetizzazione politica e immediatismo non sono tendenze recenti, ma in assenza di un progetto anticapitalista internazionale finiscono per raggiungere il proprio apogeo nella nostra epoca; ed è la postmodernità la vera madre del neo-nichilismo.”

E continua più avanti:”Possiamo dire che il postmodernismo dilagò agli inizi degli anni ’70 come parte generale di una guerra al sociale, rappresentando una risposta ai sommovimenti successivi al ’68; probabilmente non è azzardato sostenere che sia stato anche una conseguenza di questo periodo.”

E poi: “C’è da chiedersi se nella sinistra anticapitalista internazionale si sia consumata una frattura simile a quella che avvenne tra Bakunin e Marx. Questa esaltazione dell’aspetto culturale ha ribaltato i temi del confronto, producendo un ostinato analfabetismo nella critica dell’economia politica.”

Per quel che si intende trattare, queste tre affermazioni sono le più significative dell’intero articolo.

Sulla prima: in effetti l’anarchismo nel suo DNA mantiene al suo centro l’individuo non avendo mai praticato una rottura con l’idealismo, cioè la concezione che la realtà sia la conseguenza delle idee e non della dialettica fra queste (la cultura dominante o prevalente) e l’ambiente sociale (i rapporti reali di produzione) in cui ogni individuo si trova ad operare. Ne viene così l’esaltazione dell’atto eroico volontaristico come presunta rottura dell’esistente, che assume a sua volta una ridondanza sociale moltiplicata nell’immediatezza meta-storica dell’irrazionalismo post-moderno.
Tuttavia, il presunto irrazionalismo è soltanto apparente. In realtà è nelle tecniche assolutamente reali di organizzazione della produzione, cioè nel riverbero sociale della fase di valorizzazione del prodotto (prima che esso da bene d'uso si trasformi in merce), che sono da cercare i fondamenti di forza e debolezza della post-modernità.
Per questo chiedere al variegato mondo dell'antagonismo di prenderle in esame è come chiedere ad un muto una pronuncia perfetta.
Con il dovuto rispetto verso molte idee di vita e aspirazioni che coincidono, la lotta per l'egemonia fra le masse sfruttate fra anarchismo e marxismo rivoluzionario non può che essere condotta senza titubanze: chi vuol capir capisca, se no c'è poco da fare.
È una questione di punti di partenza e di arrivo e su questi non è mai opportuno trattare, pena la perdita di se stessi (vedi Rifondazione). Rimane però la ferma distanza con gli atteggiamenti piccolo borghesi e perbenisti che gli opportunisti rifondaroli nutrono nei confronti del pensiero e delle pratiche libertarie, per quanto esse siano controproducenti per l'opposizione al sistema.


In quanto alla seconda e terza tesi, possono trattarsi come un discorso unico; a partire dalla trasformazione dell'operaio-massa del ciclo taylorista-fordista nell'operaio autonomo (ma solo formalmente) del ciclo toyotista.
Ma, per proseguire il discorso, sarebbe necessario approfondire le differenze fra i due sistemi che nonostante le apparenze sono rilevanti, come rilevanti sono le trasformazioni da esse indotte in tutte le sfere della vita sociale.
Per capirci qualcosa, senza immergersi in un trattato sulle differenze fra un sistema e l'altro e sulle relative ricadute in tutte le branche dei rapporti sociali di produzione e scambio (impossibile in queste poche righe), basti considerare il punto focale del processo di valorizzazione, ovvero quel luogo dove, con una serie di operazioni programmate, si realizzano i beni d'uso, che poi diventano merce “indistinta” sul mercato: la vecchia e odiosa “catena di montaggio”.
Essa non è più quella di “Tempi moderni” dove un alienatissimo Charlot veniva trascinato dentro gli ingranaggi della macchina perché non riusciva a seguirne il ritmo.
Dagli anni Ottanta la catena di montaggio è cambiata, non solo tecnicamente ma concettualmente.
Se dai tempi di Charlot agli anni Settanta si trattava di un flusso continuo di operazioni da eseguire ognuna in un tempo uguale su un nastro trasportatore, con il nuovo sistema a “spinta” ogni fase (è cosi che si chiamano) può essere eseguita in un tempo diverso che dipende dalla complessità di ogni lavorazione e dalle qualità del singolo operatore.
In questo modo è possibile sfruttare meglio le capacità di ogni addetto che
teoricamente ha un margine personale di tempo di riserva in quanto, una volta concluso il compito previsto, spinge manualmente in avanti (verso la fase successiva) la colonna dei pezzi in lavorazione.
Naturalmente questo sistema vale per i prodotti di massa e peso ridotto.
Ma il principio non cambia (basta che la spinta sia decisa dal singolo, più o meno automatizzata che sia); si attua comunque una separazione che non è solo funzionale ma personale all'interno del processo di produzione con conseguenze facilmente immaginabili sulla solidarietà fra i lavoratori.
In conclusione, quando si abbandonano i capisaldi dell'autonomia di classe perdendo la critica ai sistemi di organizzazione produttiva (oltre che all'economia), si comincia anche a credere che essi significhino solo una maggiore efficienza. Al contrario essi esprimono un affinamento dei sistemi di controllo della borghesia sul proletariato nella sorgente di riproduzione del capitale.

Falaghiste

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