Teoria

Problemi di fondo e inviti alla lettura

10 Maggio 2015

Una critica al neo-nichilismo passa dalla critica al postmodernismo.
Appunti in difesa della prospettiva rivoluzionaria.

Punk


Assistiamo da tempo all’assenza della costruzione di un progetto alternativo alle politiche di austerity prodotte da un capitalismo agonizzante. La risposta, se così si può chiamare, è avvenuta in modo confuso e disordinato; ne è un esempio la recente contestazione all’Expo di Milano oppure, con sfumature diverse ma atteggiamenti analoghi, ciò a cui si è assistito a Baltimora e in decine di episodi analoghi sparsi per il mondo. È il segno di una fase, contraddistinta dall’assenza di presupposti e premesse... dall’assenza, in ultima istanza, di un programma rivoluzionario.

Invece di lavorare sul terreno della conflittualità sociale e sul rigore dell’analisi, è stato il pantano dell’immediatismo ad aver avuto campo libero. Per invertire la tendenza è necessario andare al fondo del problema, affinché si aprano i presupposti perché nei settori d’avanguardia l’obiettivo della costruzione del partito diventi la priorità rispetto alla messa in scena della rivolta che finisce semplicemente per estetizzare la politica, riducendo a puro gesto simbolico l’opposizione. Un’opposizione, se si può definire tale, che non scalfisce minimamente il sistema dominante.
Tantomeno è il nostro compito corteggiare e celebrare lo spontaneismo di questa area: la dobbiamo combattere.

La lotta per l’alternativa di società e di potere, non è affare degli immediatisti. Ed è ora di farlo comprendere anche agli immediatisti.
C’è un documento in particolare che circola da alcuni anni e che ha avuto una certa risonanza, al quale è il caso di prestare attenzione, al fine di comprenderlo per superarlo (per dirla con Hegel). Mi riferisco a “L’insurrezione che viene”, il quale ha finito per influenzare diverse aree del cosiddetto “antagonismo”.

I am what I am... L’insurrezione che viene, o la Rivoluzione?

Nel 2010 uscì in Francia un opuscolo edito da un collettivo denominatosi “invisibile”, il contenuto di quello scritto polemico rappresenta per certi versi una ventata d’aria fresca per un’area militante che ha perso completamente la prospettiva rivoluzionaria e anticapitalista. In questo documento sono presenti alcuni passaggi spassosi e condivisibili:

(...)Tutti i “come va?” scambiati in una giornata fanno pensare a una società di pazienti in cui ci si misura vicendevolmente la febbre.
(...)Chiamare “società” il popolo di estranei in cui viviamo costituisce una tale usurpazione che anche i sociologi, i quali per un secolo hanno trovato in quel concetto il proprio mezzo di sostentamento, pensano ormai di rinunciarvi. Oggi preferiscono la metafora della rete per descrivere le modalità di connessione di solitudini cibernetiche, le deboli interazioni conosciute sotto il nome di “collega”, “contatto”, “amico”, “relazione” o “avventura”.
(...)L’unico modo di sentirsi francesi consiste nell’imprecare contro gli immigrati, contro chi è più visibilmente straniero come me. In questo paese, gli immigrati detengono una singolare posizione di sovranità: se non ci fossero, forse i francesi non esisterebbero più.
(...)La coppia è in certo modo l’ultimo gradino del grande debacle sociale. È l’oasi nel bel mezzo del deserto umano. Sotto gli auspici “dell’intimità”, si cerca tutto quanto è stato evidentemente disertato nei rapporti sociali contemporanei: calore, semplicità, verità, una vita senza teatro né spettatori. Ma passato lo stordimento amoroso, “l’intimità” getta la maschera: anch’essa è un’invenzione sociale, parla il linguaggio delle riviste femminili e della psicologia, schermata fino alla nausea da innumerevoli strategie. Non vi si trova più verità che altrove; anche lì dominano la menzogna e le leggi dell’estraneità. E allorché, per buona sorte, vi si trova una verità, quest’ultima ci invita a una condivisione che smentisce la forma stessa della coppia.
(...)Contrariamente a quanto ci ripetono fin da bambini, l’intelligenza non consiste nel sapersi adattare; tale è, al massimo, l’intelligenza degli schiavi. Il nostro essere disadattati, la nostra stanchezza, costituiscono un problema solo dal più punto di vista di chi vuole sottometterci.
(...)L’urbano è più del teatro dello scontro: ne è il mezzo. Tornano in mente i consigli di Blanqui, questa volta ad uso del partito dell’insurrezione, il quale raccomandava ai futuri insorti di Parigi di utilizzare le case delle strade barricate per proteggere le loro posizioni, di sfondare i muri per farle comunicare, di abbattere le scale al pianterreno e di bucare i soffitti per difendersi da eventuali assalitori, di sradicare le porte per barricarne le finestre e di fare di ogni piano una postazione di tiro.
(...)Georges Guingouin, il “primo partigiano di Francia”, nel 1940 ebbe come unico punto di partenza la certezza del suo rifiuto dell’occupazione. All’epoca, per il Partito comunista, non era che un “pazzo che vive nei boschi”; finché non furono in ventimila i pazzi a vivere nei boschi e a liberare Limoges.
Ci sono inoltre riflessioni sulle quali lavorare per assimilarle nel corpo militante della sinistra rivoluzionaria:
(...) essere visibili è essere allo scoperto,ovvero prima di tutto vulnerabili.
(...) Il privilegio concesso a molti di noi di poter «circolare liberamente» da una parte all’altra del continente e senza troppi problemi nel mondo intero, è un vantaggio non trascurabile per fare comunicare i focolai di cospirazione.
Nel primo caso abbiamo la capacità di comprendere che talvolta è necessario interrompere le azioni legali quando le condizioni necessitano il passaggio all’illegalità e dall’altra la comprensione che l’internazionalismo non può e non deve porsi come dichiarazione di principi ma farsi reale; il primo punto ha il limite di scadere nel ribellismo e non comprende che talvolta può essere opportuno utilizzare i pochi spazi democratici a disposizione.
Il neo-anarchismo contenuto in L’insurrezione che viene ha tuttavia altri limiti evidenti a partire dal rifiuto della presa del potere (come suggerito anche da alcuni “neo-marxisti” tra i quali Badiou o Negri), questa impostazione finisce per impoverire le potenzialità del discorso. Come è possibile immaginare una rivoluzione senza uno scopo?
La risposta è nel titolo: L’insurrezione che viene, appunto, e non: rivoluzione. Tuttavia un’insurrezione senza progetto e senza strategia sul lungo periodo è puro antagonismo ma non alternativa.
Oggi c’è la necessità di ricostruire una strategia e non fermarsi ad un semplice problema tattico. Gli scivoloni postmoderni del testo non si limitano ad alcuni passaggi letterari, ma rientrano anche nel corpo di questa tensione non risolta tra progetto politico ed azione. L’assenza di un programma definito e di un riferimento di classe lasciano inoltre alquanto perplessi.
Si dice:
1-In ultima analisi, “divenire autonomi” potrebbe significare anche imparare a battersi nelle strade, a occupare case vuote, a non lavorare, ad amarsi follemente e a rubare nei grandi magazzini.
Prima opposizione: nulla in contrario al battersi nelle strade, ad occupare, a porsi al di fuori delle regole della schiavitù salariale, ad amarsi o persino al “rubare”... ma possono queste semplici opposizioni esaurire una progettualità? Non manca forse il perché battersi nelle strade, con quale finalità occupare, con quale modalità sottrarsi dal lavoro, ecc.?

2- Si detestano i padroni, ma si vorrebbe ad ogni costo essere assunti. Avere un lavoro è un onore, lavorare un marchio di servilismo. In breve: il perfetto quadro clinico dell’isteria.
Seconda opposizione: spesso per molti avere un lavoro è un onore e purtroppo nemmeno detestano i padroni; ma c’è di più, spesso la necessità del farsi assumere è legata a non aver alternative e non è rappresentata certo dall’accettazione del servilismo: ciò genera isteria? Direi che crea piuttosto la contrapposizione tra capitale e lavoro che nel testo è completamente rimossa.

3- Sullo sfondo di questa nevrosi i vari governi possono ancora dichiarare guerra alla disoccupazione e annunciare l’ennesima “battaglia per l’occupazione”. Nel frattempo, però, ex-dirigenti vanno ad abitare, coi loro telefonini, nelle tende di Médicins du monde lungo la Senna.
Terza opposizione: l’interclassismo di fondo del testo è forse una degli errori più gravi.

4- Ammettiamo la necessità di procurarsi denaro, non importa con quali mezzi, perché oggi non si può farne a meno. Ma non ammettiamo la necessità di lavorare.
Quarta opposizione: un manifesto che ha il coraggio di aprire all’ipotesi del furto e della rapina in una società basata sulla rapina non può che raccogliere un caloroso applauso, ma come è possibile sostenere “non ammettiamo la necessità di lavorare”? Bene, finché esiste la società del capitale, il lavoro è negazione di libertà, asservimento, alienazione. Ma possibile pensare ad una società senza lavoro? Senza produzione? Se tutti praticano il sabotaggio, l’azione diretta e il saccheggio... cosa ci sarà da saccheggiare? È un non-sense, una sorta di meccanismo inceppato che è presente in quasi tutto il testo.

5- Il lavoratore interinale rappresenta la figura di questo operaio che non è più tale, dotato non più di un mestiere, ma solo di competenze messe periodicamente in vendita e la cui disponibilità è, essa stessa, un lavoro.
Quinta opposizione: non abbiamo nulla di nuovo. L’operaio non è un artigiano, non aveva “un mestiere” nemmeno nel ‘900, è la rivoluzione industriale ad aver archiviato i mestieri e creato il proletario: l’operaio salariato che appunto mette periodicamente in vendita la sua forza lavoro. Semmai il lavoratore interinale del XXI secolo può essere paragonato ad un salto all’indietro della Storia, quando esisteva la figura del caporale.

6- Organizzarsi al di là del lavoro e contro di esso, disertare collettivamente il regime della mobilitazione, manifestare l’esistenza di una vitalità e di una disciplina nella smobilitazione stessa è un crimine che una civiltà senza scampo non può perdonarci; in verità, è la sola maniera di sopravviverle.
Sesta opposizione: come scelta individuale può essere assunta come soluzione, a saper da che parte farsi per organizzare una rapina, poi potrebbe assolutamente essere una ottima soluzione individuale, ma si rimane al postmoderno: I am what I am. La sfera collettiva necessita di altre risposte. Per quanto ci siano casi non troppo lontani nel tempo come quelli di Horst Fantazzini, Sante Notarnicola o più datati nel tempo come la banda Bonnot, Pancho Villa e il partito bolscevico russo, che utilizzavano le rapine come forma di autofinanziamento. Ciò che tuttavia lascia sbigottiti è che non si comprenda il potenziale esplosivo della contraddizione capitale-lavoro. Questo aleggiare al di sopra delle classi rende il testo non accettabile nel suo insieme, non facendoci comprendere a chi e, in particolare, a quale classe si riferisce.

7- Non è la crisi, ma la crescita che ci deprime
Settima opposizione: all’ottavo anno della più grande crisi del capitalismo quest’affermazione si è cancellata senza bisogno di esser commentata. Ma anche qui, questo vitalismo che tenta di archiviare il progresso nasconde tinte fosche.
L’insurrezione che viene cosa propone quindi? La costruzione di zone d’ombra sottratte al potere come soluzione stessa al problema del potere, dove l’auto-organizzazione si sostituirebbe al controllo. Possibile pensare che creando zone d’ombra si riesca davvero a sostituire il potere?
Le aree dalla Rojava in parte rispondono affermativamente a questo quesito, ma sul lungo periodo abbiamo esempi che danno indicazioni opposte e in questo caso arrivano dalle Giunte del Buon governo zapatista che sono soffocate dalla repressione statale. Se ipotizziamo un Kurdistan in cui a vincere saranno i Peshmerga, possiamo immaginare che le “zone d’ombra” saranno permesse? Qui sta il vero problema ed è la tensione tra rapporti di forza e obiettivi.
Se non si osa vincere quando le condizioni lo permettono, si permette la ripresa e la ri-organizzazione delle forze avverse e a quel punto si diventa oggetto del “permissivismo esterno”.
Un’insurrezione che non vuole vincere ma “appartarsi” è l’orizzonte a cui siamo destinati?
O forse sarebbe necessario immaginare e costruire una strategia che ci permetta di liberarci dal controllo e dall’oppressione degli Stati capitalisti?
E come costruiremo queste “zone d’ombra” negando la necessità dell’organizzarci?
Si trova scritto: Alla decentralizzazione del potere corrisponde, in questa epoca, la fine delle centralità rivoluzionarie. Teoria alquanto discutibile:
1- La decentralizzazione del potere è ad oggi solo apparente, gli Stati hanno ancora un ruolo decisivo e funzionano ancora come comitati d’affari della classe dominante.
2- L’assenza di un centro decisionale significa non avere un coordinamento, quindi non poter agire in maniera unitaria e trans-nazionale. Non è sufficiente liquidare la questione con una frase priva di contenuti: Le organizzazioni sono di troppo laddove ci si organizza (frase che per quanto seducente è vuota). Come ci si organizza? In quali forme? Dire la Comune è banale, senza spiegarne il funzionamento e il tipo di relazione. Nel testo inoltre si finisce per sostenere una visione oligarchica della politica, quando rifuggendo la questione decisionale si giunge alla conclusione che le assemblee, e i momenti di confronto (in particolare con altre tendenze) siano in qualche modo da sfuggire... aggiungendo: solo i fanatici della procedura si pongono il problema del “carattere democratico del processo decisionale”. Porsi contro la logica dell’egemonia in questi termini significa non sottrarsi al problema, perché in ogni caso l’egemonia o la subisci o la eserciti. Non esiste un modo di non essere egemonici. Se vincesse la tesi del “collettivo invisibile” infatti avremmo l’egemonia di questi, non l’assenza di egemonia; gli autori appaiono i sostenitori della post-modernità quando parlano della morte dell’ideologia... eppure l’ideologia dominante purtroppo è viva, ed è la post-modernità.
Al di là di alcuni pregi evidenti, in particolare se paragonati al riformismo o al centrismo; questo documento che pure merita rispetto, rientra dentro un meccanismo inceppato.
La critica che venne fatta a Deleuze e Guattari può essere ripresa per questo documento:
Romanticismo guerrigliero, terrore alla Pol Pot o squadroni della morte? Manfred Frank parla d’inclinazione al pensare pericoloso che è innocua per il dominio reale ed è utilizzabile alla stessa maniera a “sinistra” come a destra. (Frank 1983, pp. 435-6). E questa critica sembra assolutamente pertinente. Effettivamente, Deleuze e Guattari hanno scelto per la loro estetizzazione del gauchismo parigino proprio i sui elementi più irrazionali (...) tutte cose che hanno un posto fermo anche nella retorica rivoluzionaria dei movimenti populisti di destra e fascisti. Jan Rehman “I nietzschiani di sinistra”
Detto questo, non è certo con la cristallizzazione e la ripetizione del “sempre uguale” che riusciremo a registrare le lancette dell’agire politico con la realtà, ma non lo sarà nemmeno con una neo-estetizzazione della politica che otterremo la rinascita di un’opposizione al capitalismo e al suo controllo. Apprendere il fallimento della fase ’68-’77 significa andare al fondo del problema e liberarsi dai suoi scadenti insegnamenti. Abbiamo la necessità di tornare a guardare alla sinistra che a seguito degli orrori della I guerra mondiale seppe rinascere.

Tutta colpa di Foucault?
Estetizzazione politica e immediatismo non sono tendenze recenti, ma in assenza di un progetto anticapitalista internazionale finiscono per raggiungere il proprio apogeo nella nostra epoca; ed è la postmodernità la vera madre del neo-nichilismo.
Quando ha origine l’imposizione della ideologia dominante che finisce per assorbire anche le opposizioni al fine d’integrarle? Tema interessante, ma secondario. Non è tanto il problema della periodizzazione che deve interessarci, quanto di definire qual è il nodo da sciogliere per comprendere la fase e superarla. Diversi sono i testi che problematizzano questo tema ed è il caso di suggerirne la lettura di alcuni: Loren Goldner “L’avanguardia della regressione”; Jan Rhemann “I nietzschiani di sinistra”; Terry Eagleaton “Le illusioni del postmodernismo”. Interessante è anche “Vivere alla fine dei tempi” di Slavoj Zizek, seppur vada letto con maggior attenzione e con sguardo critico.
C’è il segnale che qualcosa si smuova. Che il torpore intellettuale ceda il passo al ritorno dell’analisi. Tuttavia ciò che ci circonda è il nulla cosmico: dalle ideologie antispeciste, alla rinascita dei movimenti populisti e reazionari, la vecchia Europa sembra piombata in un nuovo medio-evo politico e sociale. Dove un cane abbandonato sulla statale crea un pathos maggiore di quella che crea un immigrato sbarcato a Lampedusa.
Nelle università si studiano Nietzsche ed Heidegger; s’insegna l’immutabile e la necessità di adattarsi, di trovare il proprio spazio ed accasarsi; la ribellione è descritta in termini di disperazione, non di speranza. La vita di un animale è equiparata a quella di un uomo. Non è “Dio” ad essere morto in questa società, ma l’umanità. La beffa è che questo avvenga in una fase che oggettivamente avrebbe caratteristiche pre-rivoluzionarie.
A Nietzsche erano chiari i motivi per i quali bisognava essere contro l’idea di una “specie” umana: questa idea è un punto di riferimento centrale delle morali sino ad oggi esistite e di quelle scienze che, dipendono da esse, si preoccupano di stabilire un rapporto che va e persiste al di là degli individui, deducendone l’“eguaglianza” degli uomini (Jan Rehmann)
Tra gli interpreti di sinistra del pensiero neo-nietzschiano indubbiamente ha giocato un ruolo decisivo Foucault, l’allievo di Althusser e intellettuale del PCF dal 1950 al ’53; che dal 1965 al ‘66 aveva lavorato al progetto gollista di riforma universitaria, per poi subire l’attrazione del ’68 culminato nel suo impegno successivo nel GIP (Gruppo d’informazione sulle prigioni), il quale si sciolse nel 1972 dopo il suo fallimento. Alla base di queste esperienze si muove la polemica foucaultiana contro le teorie totalitarie e l’ipotesi repressiva di quello che definisce freudo-marxismo.
La sua polemica antitotalitaria punta ad archiviare la contrapposizione di classe, ma si focalizza sul discorso del potere: non si fronteggiano più proletariato e borghesia ma combattiamo “tutti contro tutti”... “e c’è sempre qualcosa in noi che combatte qualcos’altro in noi”.
Foucault tuttavia si spinge ben oltre, mettendo nel mirino il concetto di verità e riprendendo Nietzsche proclama l’illusione come unica realtà delle cose: tutto è messa in scena. Avviene la finzionalizzazione (Fiktionalisierung) di ciò che è vero, negando il confronto tra soggettivo ed oggettivo. Paradossalmente, Foucault, il grande critico del potere, diviene il più grande servitore del potere stesso assegnando un ruolo neutro alla menzogna, perché svelare, ricercare la verità e imbattersi nella “volontà di sapere”, a differenza di quanto sostennero gli epigoni di Nietzsche, non significa cedere alla malvagità dell’accanimento inquisitorio, ma alla necessità di mettere a nudo la realtà; detto in altri termini, cercare la verità rappresenta l’arma più potente per infondere coraggio alla volontà di cambiamento.
Con Foucault si accetta la rinuncia alla teoria a vantaggio delle esperienze: droga, sesso, vita comunitaria (occupazioni), ecc. Cosa c’è di meno pericoloso per la classe dominante che un esercito disarmato di una teoria rivoluzionaria, e magari appartato in un “centro sociale”, che agita parole scarlatte, ma si limita in realtà all’antagonismo fine a se stesso?
Assegnare la “colpa a Foucault”, sarebbe semplicistico e banale, ma è più in generale l’approccio antistorico e trascendente che è alla base dell’attuale situazione d’impasse in cui ci troviamo. Dietro alla retorica “libertaria” non è un caso che spesso finiamo per trovare l’eterno ritorno nietzschiano, che rappresenta una reazione confusa al concetto di progresso.
Può esistere una sinistra politica al di fuori del concetto di progresso? La risposta è nelle tradizioni storiche che si sono sviluppate; l’evidenza è che tutto ciò che si è agitato contro gli stessi concetti di verità e progresso, è finito inesorabilmente per piegarsi, suo malgrado, a destra.

Il fronte di “sinistra” della postmodernità
Riprendendo Goldner, possiamo dire che il postmodernismo dilagò agli inizi degli anni ’70 come parte generale di una guerra al sociale, rappresentando una risposta ai sommovimenti successivi al ’68; probabilmente non è azzardato sostenere che sia stato anche una conseguenza di questo periodo.

Oltre al fronte di destra della post-modernità (egemone), si è sovrapposto un fronte che si dichiara di sinistra: la progenie di Foucault e Derrida ha infatti prodotto i Glucksmann e gli Henri-Levy, stalino-maoisti che dopo aver glorificato i regimi stalinisti, a seguito dell’uscita di Arcipelago gulag di Solženicyn nel 1974 dichiararono che i marxisti, compresi quelli che per 50 anni si erano opposti da sinistra allo stalinismo (consiliaristi, trotskisti, bordighisti, ecc) erano necessariamente totalitari.
Riprendendo Foucault, si costituì una scuola di pensiero informale, la quale finiva per condannare la
pretesa di unificare le realtà frammentarie in una sintesi più alta, contrapponendo l'esaltazione delle “differenze”.
In Francia la differenza è diventata con Foucault le differenze di desiderio, e con Derrida delle altre voci; all’apparenza pseudo-radicale, in America è diventata il contrappunto ideologico della polverizzazione del sociale nell’epoca del neo-liberismo high tech, l’ultima truffa intellettuale.

Alle correnti di sinistra rimaste ostili o scettiche verso il post-modernismo d’ispirazione francese è andata male questa lotta, a causa della propria confusione a diversi livelli. I teorici della razza/del sesso/della classe apparivano abbastanza radicali e poche persone di formazione marxista sono abbastanza attrezzate filosoficamente per combattere la teoria alla sua radice. (Goldner)

Nasceva così un postmodernismo di sinistra, finanche di “estrema sinistra”, descritto da Goldner come “radicalismo dei ceti medi”, che finiva per concepire la libertà in termini di trasgressione e rifiuto delle costrizioni. Gli stessi problemi o priorità per questi teorici della “negazione della negazione” diventavano: gerarchia, autorità, dominio, potere.
I teorici della differenza finivano così per rimanere suggestionati dal ridimensionamento di alcuni
storici bastioni operai come Detroit, Manchester e Torino finendo per avvallare l’idea che la classe operaia non fosse più il soggetto universale della trasformazione.
Anche se molto del radicalismo dei ceti medi poté sembrare, nel corso del XX secolo sovrapporsi al
progetto marxista del comunismo, in ultima analisi, esso vi si contrapponeva apertamente.

C’è da chiedersi se nella sinistra anticapitalista internazionale si sia consumata una frattura simile a
quella che avvenne tra Bakunin e Marx. Questa esaltazione dell’aspetto culturale ha ribaltato i temi del confronto, producendo un ostinato analfabetismo nella critica dell’economia politica.

I filantropi vogliono insomma mantenere le categorie che esprimono i rapporti borghesi, ma senza l'antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile.
Essi credono di combattere sul serio la pratica borghese e sono invece più borghesi degli altri. Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici della classe borghese cosi i socialisti ed i comunisti sono i teorici della classe proletaria. Finché il proletariato non è ancora sufficientemente sviluppato da costituirsi in classe, e, per conseguenza, la sua lotta con la borghesia non ha assunto un carattere politico, finché, in seno alla stessa borghesia, le forze produttive non si sono sviluppate abbastanza per lasciare intravedere le condizioni materiali necessarie all'affrancamento del proletariato ed alla formazione di una società nuova, questi teorici non sono altro che degli utopisti che, per soddisfare gli interessi delle classi oppresse, improvvisano dei sistemi e si sforzano verso una scienza rigeneratrice. (Marx, Miseria della filosofia)
L’underground emerse per diventare lecito ed esplicito trovando la sua collocazione nel disordine
capitalista. I nuovi movimenti sociali, delle minoranze etniche o sessuali o degli ecologisti finivano essenzialmente a rivendicare il loro ruolo nell’ordine costituito. (Goldner)

Nitetzsche e Heidegger loro malgrado finivano per diventare i padri nobili riabilitati del post- moderno. Per Nietzsche i valori universali (o quel che i postmoderni chiamano “discorsi fondamentali”) sono stati inventati dal debole per regnare sul forte; per i postmoderni che hanno scoperto Nietzsche attraverso Foucoult, il marxismo, sia nella sua variante ortodossa che in quella eterodossa, finiva per rappresentare un programma di potere.
Giungendo al sillogismo che: se il PC francese, o lo stalinismo in generale, invoca il marxismo per
giustificare la burocrazia totalitaria, la logica vuole che allora “ogni marxismo” conduca necessariamente alla burocrazia totalitaria.
L’attacco al pensiero dialettico giungeva quindi a sferrare un attacco ai grandi schemi narrativi e all’universalismo, che in Marx si fonda sulla nozione di umanità come specie distinta dalle altre:
Gli animali riproducono soltanto la loro propria natura - scriveva Marx nei manoscritti del 1844 -
ma l’umanità riproduce tutto della natura.

La storia umana è la storia di continue rivoluzioni in natura e di conseguenza della stessa “natura umana”. Rispetto a questo tema Goldner ha evidenziato che quel che importuna la sinistra contemporanea sedotta dalla post-modernità è che la lettura marxista dell’esistente rappresenti la più formidabile sfida al culturalismo dominante.
Mentre i reduci del ’68 provenienti da ambienti stalinisti (e non) si sono riciclati all’idea imperante, si è sviluppata in modo speculare una tendenza in cui lo stalinismo contemporaneo anche quando si oppone alla post-modernità finisce per rafforzare i teorici della differenza.

Il punto di partenza dei postmoderni è la loro asserzione che ogni universalismo è necessariamente un’apologia mistificata del potere, come nel potere dello Stato.
Samir Amin non vuole disingannarli. (Goldner)

Non è un caso che un'altra critica generata dal nuovo spirito del tempo a Marx sia il suo presunto eurocentrismo, denunciato anche da marxisti come Samir Amin, con la pretesa in questo caso capovolta che il marxismo non sia sufficientemente universale.
Benché l’universalismo di Amin finisca per essere “quello dello Stato”, e non “quello della classe”. Ma Amin non è certo il solo ad avere assunto questo atteggiamento, basti pensare al sostegno di sinistra, spesso acritico, nei confronti del chavismo o persino a Gheddafi.
Samir Amin, preso ripetutamente a riferimento da significativi settori della sinistra radicale e anticapitalista in particolare, è giunto al presupposto teorico dello “scollegamento”: un’idea sviluppata per la prima volta da Stalin con il socialismo in un solo paese. Amin e la scuola della “Monthly Review” da cui proviene, fondano la loro strategia mondiale su una teoria dello “sviluppo ineguale”. Teoria in realtà già elaborata da Trotsky ottanta anni prima. Tuttavia, per Amin e la MR vi è comunque un’interpretazione innovativa, dove scollegare diventa una strategia per spezzare gli anelli deboli nella catena del capitalismo internazionale.
Anche Marx, pur partendo da presupposti diversi aveva elaborato una teoria degli anelli deboli, che
aveva denominato “rivoluzione permanente”. Analisi e terminologia non a caso indigeste ad Amin.

Per gli orfani dell’URSS, oggi si tratta di ragionare in termini geopolitici affidandosi al BRICS.
Fa riflettere che, di fronte alla più grande crisi del capitalismo, si finisca per assistere ad uno scontro in cui le tesi che trovano più spazio sono quelle rappresentate da quanti finiscono per rannicchiarsi su se stessi, limitandosi a intravedere elementi di socialismo dove non ve ne è traccia (Cina, Nord Corea, Venezuela, ecc), o a quanti si limitano a contestare l’autorità in quanto tale, spacciando il proprio ristagno intellettuale per fine della storia.

Terry Eagleton ha brillantemente sintetizzato che: con conformismo darwiniano, buona parte della cultura di sinistra ha preso il colore del suo ambiente storico: se viviamo in un'epoca in cui il capitalismo non può essere sfidato con successo, allora, a tutti gli effetti, esso non esiste.
Se Marx seppe quindi smarcarsi dal solipsismo di Stirner, oggi in pochi si smarcano da questo neo-
solipsismo che rivendica che non esiste lo stato, la classe, la stessa possibilità di cambiamento.
Daniel Bensaid ha parlato di una nuova forma di totalitarismo che coincide con la scomparsa della
politica a vantaggio della tirannia del mercato: una politica senza partiti (o qualsiasi ne sia il nome) finisce in molti casi come una politica senza politica (…) la peggiore forma di avanguardismo individualista elitario, o infine una repressione del politico a favore dell'estetica o di ciò che è etico.

Il fatto che, chi domina non abbia alcun bisogno di rappresentare se stesso in una “veste ideologica” è l'indice del suo potere, non del suo superamento. L'indeterminatezza ha così favorito il populismo:
In altre parole, per un populista, la causa dei problemi in ultima analisi non è il sistema in quanto tale, ma l'intruso che l'ha corrotto (per esempio gli speculatori finanziari e non i capitalisti in quanto tali).

Anche su questo punto la nuova fase post-ideologica impone la sua originalità, confondendo la
coercizione con la conquista del consenso, una confusione che ha generato la messa in discussione del concetto stesso di egemonia.

La sinistra politica ha quindi subito un contesto che assiste gli individui intrappolati nella prigione del proprio discorso e privi del coraggio di mettere da parte alcune convinzioni individuali a vantaggio di un progetto collettivo. Non sarà facile uscirne, ma è necessario. O si costruirà il partito internazionale per la rivoluzione o è fin troppo facile prevedere un futuro a tinte fosche.

In questa eventualità alcuni testi potrebbero tornare utili a capire come prepararci: Jack London “Il tallone di ferro”; Jean Malaquais “Pianeta senza visto”.

Al contrario, se sapremo svegliarci in tempo, forse, in un domani meno remoto di quanto si possa pensare, ci sarà invece la necessità di nuovi cronisti che descrivano i giorni che faranno tremare il mondo.

Trotsko

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