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Partito del Lavoro, coalizione sociale o Partito rivoluzionario?

2 Marzo 2015

Negli ultimi tempi il dibattito politico nazionale ha visto per tema l'ipotesi della nascita di un "partito del lavoro" a guida Maurizio Landini, attuale leader del più grande sindacato metalmeccanico d'Italia.

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Per anni la totale inerzia del movimento dei lavoratori aveva cancellato dalla discussione la questione del lavoro a tutti i livelli, finanche nelle avanguardie di sinistra, dove all'arretramento della classe operaia è corrisposto un arretramento della proposta politica delle stesse.
I partiti come SEL e PRC si sono insabbiati nel tentativo di coalizzarsi con i governi della borghesia sperando di poterli "spostare a sinistra".
SEL ha perso una grossa fetta della sua base militante e si è ridotta ad un partito elettorale, che esiste per via della figura del suo leader e, in più, assiste ad uno smantellamento di pezzi della sua dirigenza che corrono alla corte di Renzi.
Il PRC, che esprime un Segretario di minoranza all'interno della sua Direzione Nazionale, conferma la sua impasse e ripropone nuovamente quella che fu per anni la linea della maggioranza bertinottiana di abbandono del patrimonio politico del marxismo e dell'alleanza, per di più col ruolo di reggicoda, coi partiti della sinistra borghese.
Insieme, SEL e PRC, propongono la costruzione della Syriza italiana, ignorando completamente che la vittoria di quest'ultima in Grecia sia stata il frutto di 7 anni di lotte durissime del movimento operaio. Cosa che in Italia non c'è stata. Un tentativo che si è già realizzato in Italia ben due volte (Sinistra Arcobaleno e Rivoluzione Civile) e che non ha funzionato proprio per la mancanza di un’opposizione generalizzata e di classe nel paese contro il padronato (su questo verrebbe da chiedersi se le dirigenze attuali del PRC non soffrano di una qualche patologia che li porti a pratiche autolesioniste).
A sinistra di queste due più grandi organizzazioni, assistiamo, invece, alla riproposizione di tesi e teorie piccolo borghesi circa una presunta "scomparsa della classe operaia" o del "superamento della forma partito”, ecc, unite alla più totale disorganizzazione. Argomentazioni utilizzate in genere preziosi depositari delle verità rivelate del movimentismo fine a se stesso per il superamento della forma partito, salvo poi salire sui carrozzoni socialdemocratici in occasione di competizioni elettorali.
Insomma, diverse sono le strategie di riorganizzazione della sinistra, ma tutte hanno un minimo comun denominatore: cancellare il marxismo e il comunismo come patrimonio storico e come proposta politica.
Tali tendenze si ripresentano nella Storia in momenti difficili per la classe operaia, come analizzò nel 1937 Trotskij in "Stalinismo e Bolscevismo", affermando che "Le grandi sconfitte politiche provocano una riconsiderazione dei valori, generalmente in due diverse direzioni. Da una parte la vera avanguardia, arricchita dall'esperienza della sconfitta, difende a denti stretti l'eredità del pensiero rivoluzionario, e su questa base si sforza d'educare nuovi quadri per la lotta di classe a venire. Dall'altra parte gli abitudinari, i centristi e i dilettanti, spaventati dalla sconfitta, fanno del loro meglio per distruggere l'autorità della tradizione rivoluzionaria e tornano indietro alla ricerca di un "mondo nuovo".

Perché dunque, in controtendenza, si riapre nel dibattito politico la questione della centralità del lavoro?

Anche se l’autunno appena trascorso è risultato “tipido” ha visto un elemento di grande svolta che riapre la discussione sulla centralità del lavoro: la mobilitazione della CGIL del 25 ottobre a Roma.
Quella piazza, al netto delle considerazioni politiche sulle rivendicazioni della sua dirigenza, esprimeva una potenziale forza di opposizione al governo Renzi. E’ stato il baricentro che ha spostato l’asse anche nell’economia del dibattito politico ed era inevitabile, nel quadro di una disfatta delle vecchie direzioni politiche della sinistra, che una potenziale alternativa, nell’immaginario dei lavoratori, la rappresentasse Maurizio Landini.
Il problema è che ai proclami di lotta di Landini non è corrisposta un’azione conseguente e coerente. Questi ha affermato che la FIOM avrebbe proposto l’occupazione delle fabbriche, un’opposizione intransigente contro il Jobs Act, ma nulla di tutto ciò si è realizzato e, anzi, l’ultima riunione della DN della CGIL esce con una posizione d’incasso della sconfitta riproponendo la via giudiziaria e referendaria per opporsi alle politiche dominanti. Di fabbriche occupate nemmeno l’ombra e sparisce anche la proposta dello sciopero generale.
Oggi, Landini afferma che è necessaria una rappresentanza del mondo del lavoro, che “la FIOM ha più iscritti del PD”, che “Confindustria è rappresentata, il Lavoro no”. Verrebbe da dire "Alla buon ora, Landini!".
Perchè, dunque, non si assume la responsabilità di fare un Partito che mette al centro della discussione le questioni del lavoro, visto il grande il ruolo e la visibilità di cui gode?! Eppure la sua figura convoglierebbe nel "partito del lavoro" decine di migliaia di lavoratori, in special modo quelli del settore metalmeccanico.
Perchè quindi realizza una proposta politicamente debole come quella della"coalizione sociale"? La ragione è semplice. Landini non vuole realmente rompere col padronato. Le sue dirigenze sono formate attorno all'idea che col padronato si debba concertare e, dunque, anche coi suoi partiti di governo (fino a qualche mese fa Landini diceva che Renzi era una probabile speranza per la Sinistra, tant'è vero che si è proposto più volte al nuovo Bonaparte della Finanza di rappresentare l'interlocuzione col governo dei padroni da parte mondo del lavoro).
Sa benissimo che costruire un Partito del Lavoro in opposizione al PD e Confindustria rischierebbe d’innescare una radicalizzazione di massa contro il governo, che potrebbe portare ad un nuovo entusiasmo di massa, di classe tra operai, lavoratori e giovani, i quali vedrebbero in questo soggetto un'alternativa a Renzi ed al Jobs Act. In più, indirettamente porrebbe la contraddizione sul chi governa e per conto di chi, aprendo a sinistra la questione del “governo dei lavoratori”. Porrebbe, in sostanza, un problema di potere politico, seppur involontariamente.
E’ proprio questo che Landini vuole evitare. Sa benissimo che le sue dirigenze non riuscirebbero a gestire una situazione tanto radicale. Si troverebbero a dover affrontare da un lato il governo che attacca frontalmente il mondo del lavoro e dall'altro a dover condurre un'operazione di pacificazione al proprio interno, cercando di tenere buona una base che sarebbe disposta a lottare in maniera intransigente. Dovrebbe, inoltre, far fronte a congressi, discussioni interne, frazioni "rompiscatole". I margini di burocratismo non sarebbero gli stessi ingessati che vi sono in CGIL, perchè l'attenzione mediatica sarebbe enormemente maggiore rispetto alle dinamiche interne al sindacato.
L'obiettivo di Landini, quindi, qual è? Proseguire esattamente con le politiche fallimentari delle dirigenze di sinistra degli ultimi 30 anni. Suo obiettivo non è mobilitare i lavoratori, ma riportare in auge un ceto politico della sinistra riformista nell'arco parlamentare, pensando di poter far "pressioni" sul Governo in cambio di un riassestamento degli equilibri tra padronato e sindacato. In questo modo, egli s’illude di poter rimettere la FIOM al proprio posto nella concertazione. Ma questo periodo è oramai entrato a pieno titolo tra le anticaglie della storia, tra gli strumenti inutili e dannosi per la classe operaia ed abbandonato anche da gran parte della Confindustria.
Di cosa abbiamo bisogno?
Sicuramente non di una coalizione sociale. Abbiamo necessità di costruire un partito dei lavoratori, che sia indipendente dal mondo della borghesia, che difenda in maniera netta i diritti dei lavoratori, che non dica bugie su presunti interessi comuni tra padroni e classe lavoratrice, ma soprattutto che non si limiti alla mera questione economica, bensì che ponga in essere la contraddizione della proprietà dei mezzi della produzione e, di conseguenza, della rottura rivoluzionaria con lo Stato borghese per l’instaurazione di un governo dei lavoratori.
Non c'è nulla di "ideologico" in questo, è il semplice dato risultante di duecento anni di lotte di classe, di un antagonismo inconciliabile tra sfruttati e sfruttatori - tra le altre cose dimostrato scientificamente in materia economica politica da Marx ed altri dirigenti del socialismo scientifico -.
Abbiamo bisogno del proletariato organizzato, non di coalizioni tese a rilanciare la figura individuale di questo o quel dirigente della sinistra borghese. Tale forma di organizzazione di classe è soltanto il Partito. Fuori dal Partito, e quindi dal suo programma – espressione della Storia del tributo di lotte del movimento operaio pagato col sangue -, regnano sovrane confusione e opportunismo.
I padroni non stanno a guardare, sanno bene - e meglio di Landini – come si difendano i propri interessi, che solo sfruttando di più i lavoratori si sviluppa il capitale delle aziende, che abbassando i salari si aumentano i ricavi. Pertanto il Partito di cui ha bisogno il mondo del lavoro o è anticapitalista rivoluzionario o è solo l'ennesima speculazione della sinistra borghese sulle speranze di milioni di lavoratori e giovani, che vogliono uscire dall'attuale stato di torpore, tornare a lottare per invertire la rotta e vincere per migliorare le condizioni materiali di vita proprie e di tutta la classe.

E’ questa la prospettiva che ci siamo dati ed è per questo motivo che stiamo costruendo il Partito Comunista dei Lavoratori. Siamo coscienti che sia un percorso molto difficile, che le nostre forze sono ancora poche rispetto ai grandi compiti politici che ci prefiggiamo, ma allo stesso modo la realtà materiale dei fatti dimostra che non c’è altra alternativa. D’altronde sono sempre state le minoranze formate e organizzate che hanno cambiato il mondo.
Il PCL in questo quadro auspica che siano sempre più i lavoratori, i giovani e le avanguardie di sinistra ad assumere questa consapevolezza, che si uniscano al Partito e contribuiscano a farlo crescere. Questa scelta segnerebbe non l’interesse di un gruppo rispetto ad un altro, ma la radicalizzazione dela prospettiva comunista tra i lavoratori e le masse. Un obiettivo che riguarda l’umanità intera.

Napoli, 02/03/2015

Pcl Napoli

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