Rassegna stampa

LE SINISTRE E I COMUNISTI

articolo da il manifesto

12 Giugno 2007

La ricomposizione che investe la sinistra italiana ha una portata obiettivamente storica: chiude il ciclo apertosi con lo scioglimento del Pci sullo sfondo internazionale dell’89, e ridisegna gli assetti di rappresentanza a sinistra del prossimo decennio.
La costruzione del Partito Democratico - al di là delle pesanti incognite sulla tenuta del governo dopo il voto di maggio - è a suo modo un’operazione rilevante: è il disegno di ricomposizione di una rappresentanza centrale delle classi dirigenti del Paese, dopo il crollo della DC e l’incapacità di Forza Italia - per i suoi caratteri aziendalistici - di rimpiazzare quel vuoto. Dietro le sue autorappresentazioni culturali e le sue defatiganti contese intestine, il progetto del Partito Democratico dispone di radici materiali ben solide: il sostegno di larga parte dei vertici confindustriali, delle principali banche del Paese, del grosso della grande stampa e dell’alta burocrazia statale. La sua forza sta qui: non certo nel consenso elettorale, ben più modesto delle attese, né nell’assetto istituzionale, ancora esposto a variabili imprevedibili, ma nel cordone ombelicale con i salotti buoni della borghesia, ed in particolare del grande capitale finanziario.

Il sommovimento parallelo che si va producendo, in queste mesi, a sinistra del Pd, è inseparabile da quel processo, e al tempo stesso è subalterno ad esso.
Le attuali componenti della sinistra di governo, con in testa il PRC, puntano a unire le proprie forze in una rifondazione socialdemocratica; in buona sostanza: “se i DS lasciano sgombro il terreno della socialdemocrazia, perchè non occupare noi quello spazio?” Questa, secondo ogni evidenza, è la leva reale dell’unificazione, al di là delle sue forme e dei suoi tempi.
Anche qui non contano le (molteplici) autorappresentazioni ideologiche del nuovo cantiere, ma la materialità di una collocazione di fondo: una sinistra del centrosinistra, alleata del Partito Democratico e quindi del blocco di interessi che questo rappresenta; solidamente ancorata al governo coi portavoce dei poteri forti e quindi coinvolta nella concertazione di missioni militari e sacrifici sociali; una sinistra che mira a portare in dote al Partito Democratico e al centrosinistra un proprio controllo sui movimenti, la loro subordinazione al quadro politico dell’alternanza, l’emarginazione delle loro pulsioni interne più radicali (anche al prezzo di loro fischi o della loro astensione elettorale). Non è questa forse la funzione classica di una socialdemocrazia, piccola o grande che sia? Questo progetto è oggi in Italia, al tempo stesso, debole e forte. Debole perchè somma due storie sconfitte (PRC e Sinistra DS); perché logorato dalla quotidiana compromissione governativa delle sue forze trainanti, come dimostra il dimezzamento elettorale del Prc; perché una socialdemocrazia di governo, in un tempo di crisi storica degli spazi materiali del riformismo non ha nulla da offrire alla propria base sociale e non trascina, quindi, grandi entusiasmi. Ma al contempo quel progetto è forte della funzione materiale che si candida a ricoprire: quella di sponda politica della concertazione sindacale e di fattore di disinnesco di una possibile opposizione sociale di massa. Una funzione utile per le classi dirigenti e l’equilibrio di sistema, e per questo salutata da autorevoli organi di stampa come elemento di razionalizzazione del centrosinistra.

Se così stanno le cose, la necessità di una sinistra anticapitalistica, politicamente e organizzativamente autonoma, è tanto più oggi irrinunciabile e non rinviabile.
Non si tratta di una petizione “ideologica”, ma dell’esigenza obiettiva di una rappresentanza indipendente del movimento operaio e dei movimenti di lotta.
Non servono allo scopo correnti “critiche” e anfibie del PRC, tanto più se attestate sull’ appoggio esterno a Prodi; né l’eventuale ennesima riproposizione di aggregazioni politiche “leggere”, sommatoria arcobaleno di mille antagonismi senza collante strategico e baricentro sociale, e quindi destinate (come sempre) o alla dissolvenza o alla subalternità, oppure a qualche effimero cartello elettorale senza futuro. A fronte dell’organicità dei nuovi processi politici in corso crediamo necessaria una costruzione alternativa altrettanto seria e robusta: quella di un partito di classe indipendente. Ossia una forza organizzata e socialmente radicata, capace di memoria storica, basata su un progetto complessivo; che lavori a difendere l’autonomia dei movimenti dall’alternanza bipolare e a unificare le loro ragioni; che riconduca a un disegno d’insieme le forme molteplici del proprio intervento (sindacale, politico, istituzionale…); che sappia far vivere e ricostruire in ogni lotta particolare l’attualità di una prospettiva generale anticapitalistica, nazionale e internazionale; che sappia fondare su questa prospettiva la propria opposizione a tutti i governi delle classi dominanti, nazionali e locali.
Non si dica che “non c’è spazio“ o che “non sono i tempi“. I tempi e lo spazio sono qui e ora: nel rapido tramonto di tante illusioni sul governo “amico“; nello sciopero del voto di significativi settori di massa; nella precipitosa deriva di una sinistra governativa che è giunta a votare la guerra ed a esaltare la Folgore pur di accreditarsi agli occhi del potere; nella stessa formidabile accelerazione del processo di ricomposizione a sinistra. Francamente: se non ora quando?

La costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori, che terrà in autunno il proprio Congresso fondativo, vuole rispondere a questa necessità. La nostra stessa presentazione elettorale alle ultime amministrative – con il lusinghiero risultato dell’1% a meno di un anno dalla nostra nascita – è investita in questa prospettiva, paziente e tenace. Con la massima apertura a tutti i lavoratori combattivi, gli attivisti di movimento, i militanti critici della sinistra, indipendentemente dalla diversità di provenienza e di percorsi. E al tempo stesso con il massimo rigore sui principi dell’anticapitalismo e dell’antistalinismo: perché non vogliamo ripercorrere, quindici anni dopo, la stessa parabola di Rifondazione, nata all’opposizione e finita ministeriale. Né vogliamo rimuovere, dietro la semplificazione ideologica dell’ ”unità dei comunisti“ l’esigenza di un bilancio reale del Novecento. Vogliamo insomma davvero cimentarci con l’impresa di costruire “una sinistra che non tradisca”, contro la lunga tradizione storica del trasformismo.

Marco Ferrando, portavoce naz. del Movimento per il Partito Comunista dei Lavoratori

CONDIVIDI