Dalle sezioni del PCL

Il lato profit del no-profit

Contributo di una compagna simpatizzante della provincia di Milano

29 Novembre 2013

L'articolo vuole denunciare uno dei tanti casi di sfruttamento cui i giovani in cerca di lavoro sono sottoposti. Verte sul lavoro di "dialogatore", ruolo utilizzato da onlus e organizzazioni no profit per la raccolta fondi. Attraverso un'oggettiva descrizione delle mie esperienze nel campo, l'articolo fa emergere le contraddizioni insite nello sfruttamento di manodopera mal retribuita da parte di enti che lottano per la protezione dei diritti umani e sottolinea l'esistenza di molte agenzie private cui le organizzazioni non governative si appoggiano per le campagne di raccolta fondi.

Succede sempre più spesso, per strada o nei centri commerciali, ragazzi con indosso pettorine o magliette di varie organizzazioni non governative, onlus e no profit, invitano i passanti ad avvicinarsi ad un banchetto, sensibilizzano su cause di indubbia importanza e invitano a sostenere con piccoli contributi mensili o annuali l’organizzazione di riferimento. Niente di male in tutto questo, anzi un ottimo modo di partecipazione della società civile, soprattutto di studenti universitari e neo laureati, a favore della lotta contro la povertà nel terzo mondo, della tutela dell’ambiente o dei diritti umani, della ricerca scientifica sulle malattie rare. Volontariato, pensano in molti.

Si tratta invece di personale debitamente formato per questo scopo. Ho lavorato per quasi un anno come dialogatore, con un contratto a chiamata che prevedeva 75 ore al mese per un compenso fisso di 400 euro lordi, ridotti al netto a 320 euro, ossia 4,26 euro l’ora. Eventuali ore in più non venivano retribuite, né il contratto prevedeva rimborsi spese per gli spostamenti effettuati durante la prestazione del servizio. Un compenso aggiuntivo era previsto dietro il raggiungimento di determinati risultati, ossia un certo numero di sostenitori che aderivano alla campagna attraverso la compilazione di una scheda RID. Superfluo dire che il contratto non prevedeva riposi settimanali ed annuali, e tanto meno un trattamento di fine rapporto. Questo è solo un esempio delle tipologie di contratto utilizzate da queste organizzazioni per la raccolta di fondi privati, campagna chiamata più comunemente “face to face”. Moltissimi sono i casi in cui i contratti non prevedono alcun fisso, e il guadagno del dialogatore deriva esclusivamente dalle provvigioni che ottiene in compenso ai risultati raggiunti. Altri contratti prevedono un minimo di schede RID da dover fare ogni mese, pena il mancato rinnovo del contratto il mese successivo. La precarietà dell’impiego, l’incertezza sui risultati, l’ansia da prestazione e la totale e potenzialmente immediata sostituibilità del personale sono i caratteri fondamentali di questo lavoro. Se lavoro si può definire.

Trovare personale per questi impieghi è diventato semplicissimo, le organizzazioni hanno un vasto oceano di disperati senza lavoro a cui attingere, molti dei quali escono dall’università con la speranza magari di lavorare nel mondo del no profit o della cooperazione internazionale, persone quindi con una formazione già di per sé fruibile all’interno del settore e quindi ancor più produttivi in cambio di compensi a dir poco ridicoli. Qualcuno potrebbe obbiettare che in tempo di crisi non bisogna certo lamentarsi, che d’altra parte assicurazioni, call center, compagnie telefoniche e agenzie di promoter hanno contratti del tutto simili. E’ vero, ma si tratta anche di settori in cui il profitto economico e la relativa crescita aziendale sono gli unici reali obbiettivi che ogni dipendente deve perseguire durante il compimento della sua mansione. Non è la stessa cosa per onlus e no profit, che come proferisce la stessa definizione perseguono scopi ben diversi dal guadagno economico essendo appunto “non a scopo di lucro”. Ora mi chiedo se risulti coerente che chi lavora per sostenere lo sviluppo nei paesi del terzo mondo, denuncia le violazioni dei diritti umani e le multinazionali che non rispettano l’ambiente, lotta per sensibilizzare l’opinione pubblica su situazioni drammatiche e sull’importanza della solidarietà, possa allo stesso tempo cercare fondi privati sfruttando manodopera sottopagata e approfittando dei giovani in cerca di impiego. Molti di questi giovani sono laureati, alcuni hanno addirittura conseguito master in cooperazione internazionale e simili, accettano di lavorare come dialogatori nella speranza di riuscire ad accedere successivamente a posizioni all’interno delle organizzazioni per svolgere funzioni più gratificanti e soprattutto concernenti la loro formazione universitaria. Non succede praticamente mai, anche se durante i colloqui una delle prime cose che viene sottolineata al candidato è che entrare all’interno dell’organizzazione è certamente più semplice se già si fa parte del gruppo del “face to face”. Una bella presa in giro.

Se possibile, tuttavia, c’è un lato ancora più oscuro della medaglia.
Molte di queste organizzazioni si appoggiano per la raccolta fondi ad agenzie esterne specializzate proprio in questo lavoro. In questi casi si raggiunge il massimo dello scempio: agenzie profit che lavorano alla raccolta fondi per conto di enti no profit. I contratti dei dialogatori in questi casi sono più o meno gli stessi, si aggirano sui 3,50 euro l’ora più provvigioni, e l’unica differenza è che anziché mensili a volte sono addirittura settimanali. In questi casi le persone che scelgono di sostenere la onlus non sanno il più delle volte che il loro primo anno di donazioni servirà per ripagare il lavoro dell’agenzia esterna e che solo successivamente i loro soldi cominceranno ad essere utilizzati per la causa che si è scelto di sostenere, sia essa un sostegno a distanza per un bambino dell’Etiopia, donazioni a favore dei campi profughi in Siria o per un progetto di ricerca su qualche rara malattia genetica. Un bel giro d’affari insomma, in un settore in cui non dovrebbe esserci alcun interesse di tipo economico.

Niente di tutto questo è illegale naturalmente, i contratti sono regolari, i bilanci di ONG, onlus e organizzazioni no profit sono pubblici e controllati da enti esterni, le cause vengono portate avanti, come anche la maggior parte dei progetti di sviluppo nel sud del mondo. Tuttavia suona male, fa sentire frustrati e anche un po’ disgustati l’idea che con le proprie donazioni si vada da una parte ad arricchire agenzie private che speculano sulla solidarietà altrui e sulle disgrazie del terzo mondo, e dall’altra si favorisca un processo di sfruttamento dei giovani senza lavoro disposti ormai ad accettare impieghi senza nessuna garanzia o prospettiva futura e con un ritorno economico quasi nullo. Il tutto camuffato dietro la bella faccia della solidarietà e dell’aiuto ai più sfortunati.

Crisi o no, io resto fermamente convinta che esista un limite di decenza oltre il quale mettere a disposizione le proprie capacità senza pretendere quasi nulla in cambio, anche se a favore di cause nobili come l’aiuto ai più deboli, vada a contribuire allo sfacelo che caratterizza ormai il mondo del lavoro. Siamo disposti a fare tutto, dagli stage non retribuiti ai tirocini protratti per anni, e lavoriamo con contratti che fino a pochi anni fa non erano neppure considerati legali. Ormai sembra che formalmente sia tutto possibile e che scendere a compromessi sia un dovere. Solo nostro per giunta.
Eppure in un ambiente lavorativo potenzialmente basato su principi etici e valori quali il rispetto dei diritti umani, incontrare persone che approfittano dell’attuale situazione economica per disporre di lavoratori sfruttati e mal retribuiti, risulta davvero disdicevole. Ci sono cose per cui non dovremmo scendere a compromessi, principi che per essere portati avanti vanno prima di tutto protetti nella propria diretta esperienza . Non si può parlare di uguaglianza, distribuzione equa delle risorse, aiuto volontario e solidarietà e allo stesso tempo sfruttare e farsi sfruttare rendendo sempre più lontana la speranza che questi stessi valori tornino a realizzarsi veramente anche da noi. Credo fermamente nel volontariato e in quell’aiuto che ognuno di noi sceglie liberamente di dare al prossimo. Ma sono anche convinta che la gente debba essere al corrente di cosa si nasconda a volte dietro la raccolta fondi, di quanto alcune onlus ed enti del no profit approfittino, in modo del tutto legale ma non per questo meno vergognoso, della difficile condizione in cui versano la maggior parte dei giovani laureati in cerca di occupazione.

Il mio intento è quello di mandare un massaggio ai giovani che come me pensano di dover sottostare ad ogni tipo di trattamento economico e lavorativo pur di avere qualcosa che assomigli ad un impiego. Dobbiamo essere noi a storcere il naso di fronte a proposte indecenti, come lavorare per 4 euro l’ora anche se in possesso di una laurea, dobbiamo essere noi a rifiutare stage non retribuiti e tirocini senza fine, dobbiamo essere noi a dare il giusto valore alle nostre capacità per non permettere ad altri di guadagnare speculando sulla nostra difficile condizione.
In base alle mie esperienze e a quelle di molti altri, mi chiedo come sia possibile dichiarare di lavorare a favore dei diritti umani e a protezione dei più deboli approfittando di altri deboli a cui vengono negati i diritti.

Valentina Muscente

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