Rassegna stampa

Ritiro delle truppe, no basi. Migliaia a Roma senza partiti

Le grandi organizzazioni non scommettono sulla giornata mondiale. Ma la gente ci va lo stesso:«Mai più un voto di guerra»

18 Marzo 2007

Roma - Dallo spezzone del partito comunista dei lavoratori, a quello del partito Umanista. Niente male, come colpo d'occhio, la composizione della manifestazione che ieri pomeriggio ha sfilato a Roma per dire no a tutte le guerre. I primi - cioè gli aderenti al Pcl fondato dall'ex rifondarolo Marco Ferrando - sfilano dietro un grande striscione munito di aste per sorreggerlo. Quelli seri di una volta, insomma. I secondi, almeno un centinaio di persone arrivate da tutta Italia, si fanno notare invece per le loro bandiere arancioni con cui mamme militanti hanno bardato le carrozzine di un paio di pupi che espongono il cartello «giù le mani dal nostro futuro!». A seguire, fino alla testa del corteo - aperto dallo striscione «ritirare le truppe, chiudere le basi», seguito da uno che chiede la liberazione dell'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo e «libertà per il popolo afghano» - è un susseguirsi di gruppi, piccole associazioni, con una buona dose di studenti arrivati anche da Palermo. In tutto, secondo gli organizzatori, 30 mila persone. Come dire: il variegato mondo dei pacifisti che l'appuntamento nazionale contro la guerra non se lo perdono di certo. Checché ne dicano le grandi organizzazioni e i partiti di sinistra, che hanno disertato praticamente al completo l'appuntamento.

Si può dunque capire la malcelata soddisfazione di chi, invece, ci ha creduto. Dai Cobas alle Rdb, dalla Sinistra critica di Rifondazione comunista al Forum Palestina. «Oggi lanciamo due grandi messaggi - ragiona il portavoce nazionale dei Cobas Piero Bernocchi - Il primo è per il governo: il grande imbroglio non ha funzionato. Il secondo è che si può ricostruire un movimento, anzi, lo stiamo già ricostruendo. Qui in piazza ci sono dagli antimperialisti radicali ai pacifisti integrali». In effetti, a parte la presenza dei temutissimi Carc (Comitati di appoggio alla resistenza - per il comunismo), ci sono per esempio i «giovani maoisti» di Red block, che in un volantino esprimono «il nostro sdegno e l'odio di classe verso il governo Prodi». Poco più in là la sezione delle Donne in nero di Roma, esegete della pratica non violenta. Spiega Teresa: «Ci è sembrato giusto esserci, semmai è grave che non ci siano quei partiti che mi riesce difficile definire di sinistra. Non nego che alcune parti della piattaforma non ci appartengono: si parla di appoggio alla resistenza armata, anche se in maniera abbastanza vaga».

Gli organizzatori, ben consci della scommessa, erano corsi ai ripari per tempo contro qualsiasi possibile strumentalizzazione: con tanto di appello scritto ai manifestanti a «portare in piazza striscioni e scandire slogan coerenti con la piattaforma». E ieri è filato tutto liscio: nessuna bandiera bruciata, nessuna solidarietà con chissà chi. Tutti agnellini imbufaliti con il governo Prodi. Moltissimi quelli che dicono di aver votato, chi Verdi, chi Pdci, chi Rifondazione «e non lo farò mai più». Tra di loro Nella Ginatempo, storica voce del pacifismo romano e esponente della neocostituita assemblea Sempre contro la guerra. Ieri innalzava il cartello «mai più un voto di guerra»: «richiamo agli eletti, ma anche agli elettori».

Presente il senatore «dissidente» Nando Rossi (Turigliatto, ex Prc, non c'è per un contrattempo). Ribadisce che voterà «no» al decreto, e promette solo che uscirà dall'aula se «sarà necessaria la compattezza della maggioranza».
Il ritiro delle truppe dall'Iraq (praticamente sparito da slogan e striscioni) operato dal centrosinistra non conta: chiunque ti spiega che «l'avrebbe fatto anche Berlusconi». Ma la profonda spaccatura tra l'elettorato e il governo lo si capisce anche da altri segnali: altoparlanti e microfoni non parlano solo di guerra, ma anche delle decine di lotte locali, come quella contro la discarica di Serre, in Campania, l'ormai classica «no Tav» della Val di Susa e il nuovo totem «no dal Molin» di Vicenza. «L'assenza dei partiti, oggi, dimostra la grave frattura che è stata operata», commenta Salvatore Cannavò, il deputato del Prc, autosospesosi in solidarietà con Turigliatto. Chi lo incontra ormai non gli chiede «come stai?», ma «ti hanno già buttato fuori?». Lui non si scompone e annuncia la sua partecipazione al Global meeting organizzato a fine marzo dall'area disobbediente del nordest. D'altronde «come si sa a Ferrando preferisco Casarini». Anche Ferrando non si scompone. Dice di aver incontrato al corteo «tante persone, della base del Prc, del Pdci, e anche della sinistra Ds». E' verso di loro, cioè «le masse», che «il nostro partito, rigorosamente anticapitalista e rivoluzionario» si vuole proiettare. Intanto, le masse del partito Umanista, alla fine della manifestazione in piazza Navona, costruiscono con i loro corpi il simbolo della pace.

Articolo da "il manifesto" - di Cinzia Gubbini

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