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Lista Arancione e riformisti: cronaca di una morte annunciata

8 Gennaio 2013


L’operazione “Rivoluzione civile” permette di leggere, meglio di quanto sia stato possibile finora, la conclusione della parabola discendente della sinistra riformista (PRC e PdCI) rispetto non solo al terreno elettorale, ma anche e principalmente rispetto alla loro natura politica.
Ben al di là della valenza elettorale, infatti, il cartello capeggiato da Antonio Ingroia costituisce il naufragio - simbolico e reale - della strategia (sempre diversa ma sempre uguale) della stessa sinistra riformista negli ultimi cinque anni.
Dell’inevitabile percorso di riavvicinamento al PD da parte dei riformisti “Rivoluzione civile” rappresenta, nella sua disastrosa inconsistenza, lo scontato approdo.
Per quanto riguarda il PRC, la tanto declamata “svolta” di Chianciano, seguita al secondo governo Prodi e alla disfatta della lista Arcobaleno, si dimostra ancor più, a vederla oggi, ciò che non poteva non essere: una mera petizione di principio di buoni propositi, al di là dell’entusiasmo con il quale venne accolta dalla base. La resa dei conti dei gruppi dirigenti del PRC fu tanto impietosamente combattuta quanto pietosamente priva di contenuti e di reale riorientamento strategico. A seguito del congresso di Chianciano, infatti, il PRC non solo continuò nel suo sostegno e partecipazione alle giunte comunali, provinciali e regionali di centrosinistra, ma nei fatti non arrivò mai a mettere in discussione, una volta per tutte, la politica di collaborazione di classe che è sempre stata l’alfa e l’omega di tutte le maggioranze di quel partito. Laddove collaborazione di classe, è il caso di ricordarlo, può esservi anche stando all’opposizione, non necessariamente quando si è in maggioranza con i partiti borghesi. Ed è esattamente ciò che ha contraddistinto, soprattutto a livello nazionale, i rapporti fra il PRC ed i liberali (PD e IdV).
Gli intenti che sembravano configurare non diciamo una svolta o un cambio di indirizzo, ma quantomeno una riattivazione, anche in forme nuove, di militanza e di radicamento, si sono risolti nella migliore delle ipotesi in (peraltro effimere ed estemporanee) fughe in avanti semimovimentiste (“partito sociale”). Chi, all’interno del PRC, prese “sul serio” la svolta di Chianciano, come Falcemartello, dovette irrimediabilmente fare i conti con la realtà.
Dal 2008 ad oggi, le oscillazioni e le giravolte della linea del PRC, soprattutto in seguito alla caduta di Berlusconi e con il governo Monti, testimoniano di una ulteriore involuzione opportunista rispetto allo stesso PRC bertinottiano.
La vocazione più organicamente e storicamente governista del PdCI ha invece consentito al partito di Diliberto un riposizionamento al fianco del PD più disinvolto e meno dissimulato, ma non privo di sue apparenti contraddizioni.
Il richiamo della foresta delle urne ha infatti obbligato il PdCI ad archiviare, almeno temporaneamente, il disegno dell’”unità dei comunisti” e della “ricostruzione del partito comunista”. Disegno che rappresentava il progetto nel quale il PdCI aveva investito la sua stessa strategia fin dal 2004. Il richiamo ideale e programmatico al togliattismo e ai suoi miti “maggioritaristi” ed unitari non poteva minimamente, a conti fatti, entrare in conflitto con l’unità col PD, anzi: ne costituiva inappuntabile corollario. E lo si è visto bene.
Proprio l’esperimento unitario della Federazione della Sinistra, peraltro, ha mostrato tutti i limiti di un processo di riaggregazione che, nella permanenza della medesima strategia politica riformista, conservava intatto il principio di fondo circa il rapporto con i liberali.
Di più: l’insuccesso della FdS è esattamente il portato dell’insuccesso di ogni tentativo di “autonomia” che la sinistra riformista ha saputo o potuto finora darsi. Autonomia politica, ancor prima che organizzativa.
L’alleanza con il PD e lo “spazio vitale” del centrosinistra sono stati ancora e sempre al centro di qualsiasi ipotesi di ricomposizione frontista, magari di governo, sia per il PdCI che per il PRC. Come poteva essere altrimenti, d’altra parte, quando non una parola di autocritica è stata pronunciata in tutti questi anni (tranne ipocrite ammissioni di pentimenti tardivi)?
Guardando ad oggi, quindi, possiamo ben vedere come la sconfitta del riformismo sia tutta iscritta nel suo epilogo: il volontario dissolvimento all’interno di una formazione elettorale apertamente liberale. Un epilogo che segna un vero e proprio trapasso: lo stesso riformismo socialdemocratico è (o dovrebbe essere) di fatto estraneo ad un progetto che al massimo può essere classificato come radicalismo civico, quindi di sinistra liberale, appunto. Quella sinistra liberale cui guarda caso legittimamente plaudono le schiere dei paladini della Costituzione, dei difensori della magistratura, degli ex girotondini e di chi, dalla sua cattedra, annuncia da vent’anni le magnifiche sorti e progressive del capitalismo.
Coloro che, all’inizio della legislatura che si sta concludendo, annunciavano trionfalmente: “mai più con il PD!”, “mai più al governo finché non si modificano i rapporti di forza nella società!”, “bisogna essere comunisti!”, si ritrovano oggi aggrappati disperatamente ad una formazione che ripropone la stessa strategia fallimentare nei confronti del centro liberale e contenuti ancor meno “radicali”.
Una formazione che non a caso trova fin dal suo manifesto la riaffermazione più o meno esplicita delle politiche economiche degli Obama e delle tante “terze vie” rispetto alle quali persino un serio (ma oggi impossibile) keynesismo sarebbe alternativo. Un programma che perciò si colloca all’interno della cornice istituzionale e sociale che caratterizza la fase attuale della ristrutturazione capitalistica a livello italiano ed europeo, e che nulla dice in proposito.
Non meravigliano, quindi, l’assenza di qualsiasi richiamo stringente alle ragioni del lavoro e delle lotte di classe degli ultimi anni, così come l’assenza di qualsiasi riferimento al Fiscal Compact, alle banche, al debito. Temi sui quali qualsiasi sinistra che si voglia di classe non può essere indifferente. Almeno fino a quando non si passi dal riformismo socialdemocratico alla rivoluzione… liberale.


Sergio Leone

Sergio Leone

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