Dalle sezioni del PCL
Contributo alla discussione dell'assemblea del 1 ottobre inviato ai compagni dell'Appello dobbiamo Fermarli
3 Ottobre 2011
Cari compagni e compagne ho seguito via streaming parte della conferenza del 1° ottobre. Concordo che sia stato un fatto storico importante questa conferenza perché rappresenta nella sostanza la costituzione di un fronte unico su una rivendicazione dal chiaro contenuto anticapitalistico che ci consente di porre ora, tra le masse la questione urgente del rovesciamento del capitalismo e del potere da connettere, in questo particolare momento, con la lotta per rovesciare il governo Berlusconi. L'unica cosa che vorrei rilevare e porre alla discussione dell'assemblea, e dei compagni e compagne che costituiscono il nostro fronte, è un limite della massima importanza, cruciale, che dovremo assolutamente superare al più presto: quello dell'inserimento, accanto alla parola d'ordine dell'abolizione del debito e della nazionalizzazione delle banche, della rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori anche delle fabbriche che chiudono e licenziano. Il rischio, infatti, è che senza questa rivendicazione la nostra parola d'ordine dell'abolizione del debito senza indennizzi, che ha pure un carattere dirompente, rischi di essere percepita solo in maniera propagandistica o peggio ancora velleitaria. Come possiamo infatti rivendicare l'esproprio di quella parte di capitale costituita in forma monetaria, di titoli, prodotti finanziari ecc, senza al pari porre la questione del capitale cristallizzato nei mezzi di produzione? Ogni marxista, e ogni operaio marxista, sa che la distinzione tra i due è puramente astratta o se vogliamo “contabile”, che si tratta in realtà della medesima cosa espressa in forme differenti, ma la maggioranza delle persone e dei lavoratori questo ancora non lo percepisce, per loro questa identità non è automatica. Oltre a ciò il fatto fondamentale è che l'abolizione del debito pubblico non è ancora l'abolizione del capitalismo, anche se per il capitale avrebbe delle conseguenze catastrofiche, perché lascia pur sempre irrisolta la questione della forma giuridica della proprietà. Quindi nei termini attuali la nostra campagna è incompleta .
Qui veniamo al primo problema che pone l'incompletezza della nostra rivendicazione. Senza porre a fianco dell'abolizione del debito la rivendicazione della nazionalizzazione, oltre che delle banche, anche delle fabbriche si lascia comunque spazio, in qualche modo, al riformismo, cioè a quelle correnti che anziché lottare nell'attuale crisi per rovesciare il capitalismo, sfruttando l'esplosione delle sue contraddizioni, frenano l'evoluzione della lotta di classe alimentando l'illusione sulla possibilità di concessioni e di compromessi, o dell'attesa di congiunture economiche migliori. Dato il carattere con cui più direttamente si manifesta la crisi in corso, come crisi finanziaria e dei bilanci sovrani, dove la recessione economica nella sfera della produzione appare addirittura come un mero sottoprodotto di essa1, queste correnti hanno comunque margini di manovra per riproporre una linea riformista, o una critica al capitalismo che non vada oltre “l'antiliberismo”- nella forme ad esempio della falsa contrapposizione tra il “capitale finanziario” (speculativo, parassitario, irrazionale, reazionario ecc) e quello “industriale” (produttivo, progressivo, razionale, ecc.) quando nella realtà sono la stessa cosa.
È questo il principale canale attraverso cui i settori opportunisti, riformisti o apertamente traditori nel movimento operaio e democratico antiberlusconiano lavoreranno per disinnescare il carattere esplosivo della nostra rivendicazione dell'abolizione del debito.
Veniamo quindi alla questione dell'articolazione concreta della rivendicazione dell'abolizione del debito nelle lotte in corso. Ad esempio la vertenza Fiat, e le altre numerose vertenze in corso. In questo caso, il primo problema che i lavoratori hanno di fronte è quello della chiusura dello stabilimento. Cosa dobbiamo dire a questi lavoratori: aboliamo il debito pubblico e poi con le risorse così liberate facciamo ripartire la produzione e le fabbriche? Certo. Ma, stiamo attenti, perché posta unicamente in questi termini la rivendicazione è ancora debole e ambigua e rischia di non essere seriamente percepita o di ritorcercisi contro. Il primo problema, infatti, per questi lavoratori è la difesa del posto di lavoro. Noi sappiamo che la difesa del posto di lavoro o della singola unità produttiva o settore produttivo dipende da come è gestita l'economica e la produzione generale. Il problema è come far evolvere le lotte concrete particolari per la difesa del posto di lavoro verso il problema della pianificazione economica generale, quindi anche la questione del bilancio dello stato e del debito pubblico, e, in definitiva, verso il problema del potere. È chiaro che se non poniamo contemporaneamente il problema dell'esproprio anche dei mezzi di produzione, cioè della fabbriche, la nostra rivendicazione rischia di non essere compresa, di prestare duramente il fianco alla campagna di obbiezioni della stampa e ideologia borghese, di cui un potente veicolo sono anche i burocrati dei sindacati confederali, o di essere snaturata e svilita dai riformisti. Un borghese o un riformista diranno ai lavoratori: “ma se aboliamo il debito è la catastrofe economica, le fabbriche inevitabilmente chiuderanno, perché il capitale va in crisi, dove prendiamo le risorse per rilanciare l'economia, stimolare i consumi, anticipare i capitali necessari alla produzione, ecc ecc, non resta altra strada, quindi, che fare necessariamente tutti quanti dei sacrifici, al massimo si può “colpire” la “speculazione” ( e quindi tobin tax ecc.).” Indubbiamente sarebbe così se noi ci limitassimo a proporre solo un'abolizione del capitalismo a metà, come nei fatti facciamo chiedendo solo la cancellazione del debito pubblico, e lasciando intatta la questione della proprietà! Sarà difficile allora rispondere a simili obiezioni. Mentre dovremo invece già essere pronti a rispondere perché anche da questo dipenderà la nostra credibilità tra i lavoratori. Ma la sola risposta efficace, come dice il PCL, è semplicemente questa: “noi non vogliamo l'esproprio di una sola parte del capitale ma di tutto il capitale: cioè la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle fabbriche.”
Il problema del potere.
La crisi catastrofica del capitalismo oltre a mettere in evidenza il suo carattere storicamente finito, la sua fase terminale, oltre a togliere ogni spazio di concessioni per il riformismo, come dimostra la lettera di Trichet-Draghi, sta facendo emergere di fronte alle grandi masse un altro fondamentale dato: la crisi di potere della borghesia, la crisi di direzione politica della società da parte della classe dominante. Questa crisi è ben evidenziata dalla constante denuncia nella stampa borghese “della distonia tra i tempi della politica - delle democrazie e del consenso - e quelli fulminei dei mercati” (Bastasin Sole24ORE), dai tentativi di centralizzazione in senso autoritario al livello dell'UE per porre sotto controllo la gestione economica degli stati aderenti, dalle critiche di Confindustria alla lentezza del governo. Essa è anche una crisi di credibilità agli occhi dei lavoratori e delle grandi masse che si accresce ogni giorno di più. Questo dato di fatto offre ai rivoluzionari e alle avanguardie del movimento operaio l'occasione di porre e far ragionare, ora, in maniera credibile, i lavoratori e le grandi masse, nel momento di più acuta crisi storica della direzione politica ed economica borghese della società dal secondo dopoguerra, sulla questione della loro gestione del potere, di tutto il potere economico e politico, in un momento in cui loro stessi iniziano a percepire e sentire la necessità di trovare una soluzione a questa questione, anche se nelle forme ancora elementari ed embrionali della critica alla corruzione e privilegi della classe politica e della sua inadeguatezza e indegnità. E qui ritorniamo alla rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo delle fabbriche. In che modo oltre che rendere credibile la rivendicazione dell'abolizione del debito noi possiamo iniziare a far maturare la coscienza dei lavoratori verso la comprensione del loro compito storico di prendere in mano la gestione dell'intera società? Attraverso la lotta in primo luogo per il controllo e la gestione totale della produzione, delle loro fabbriche. Le condizioni per la credibilità e la comprensione da parte dei lavoratori di questa campagna ci sono tutte, il problema e che ci sia qualcuno a dirglielo e spiegarglielo. Il ragionamento sulla nostra esperienza concreta delle lotte in Sardegna e sul carattere della crisi economica in generale ci porta a credere questo. Semplicemente perché ogni giorno che passa ai lavoratori non resta altra alternativa allo soccombere se non questa. Voglio citare due casi a tutti noti: la Vinyls di Porto Torres e L'Alcoa. Nel caso della Vinyls, e del petrolchimico in generale, la lotta si trascina da anni, il governo ha tentanto di tenere buoni i lavoratori illudendoli su possibili soluzioni, non quella di salvare la fabbrica con l'intervento pubblico, ma balenando ogni volta l'arrivo di imprenditori o gruppi industriali privati in qualità di salvatori. È quella che noi definimmo una strategia del logoramento. Tutto si è rivelato una truffa e un modo per tirare alle lunghe, distogliere da forme più dure di lotta, isolare e demoralizzare i lavoratori. Una tattica di logoramento usano oggi anche con i lavoratori della Fiat di Irisbus, di Termini e Pomigliano, e con molte altre vertenze nello stato italiano. Oggi i lavoratori dopo un anno di inutile occupazione dell'isola dell'Asinara sono punto e a capo. Anche se non si rassegnano ancora alla chiusura tant'è che alcune settimane fa hanno bloccato l'accesso delle squadre di manutentori che sarebbero dovuti entrare per degli interventi che di fatto erano l'inizio della procedura di spegnimento degli impianti.
Nel caso dell'Alcoa, quella lotta, che aveva il vantaggio anche di essere meno isolata, e che coinvolgeva in maniera diretta un numero maggiore di lavoratori, quindi con una forza oggettiva maggiore, attraverso una battaglia molto decisa e violenta è riuscita ad imporre una sorta di armistizio: la garanzia del funzionamento della fabbrica per ancora due anni circa. La decisione e la forza di quella lotta è stata tale da costringere, l'allora segretaria in pectore della Cgil, Susanna Camusso, nel suo intervento allo sciopero generale sardo, a parlare pubblicamente di requisizione della fabbrica in caso di una sua chiusura.
Oggi di fronte alla crisi in corso, alla recessione internazionale imminente, se non già in atto, con la conseguente contrazione della produzione e il rischio di ulteriori chiusure e licenziamenti, e all'esplodere delle vertenze operaie, la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo non solo sarà ben più comprensibile ma si rivelerà ancor più chiaramente come l'unica soluzione concreta al problema dei lavoratori che si vedono chiudere le fabbriche, e ancora una volta alle conseguenze catastrofiche della crisi del capitalismo.
È il momento di lanciare una campagna della FIAT per la nazionalizzazione.
La vertenza Fiat cosa sta dimostrando? Questo: che pensare che la Direzione e Marchionne vogliano rilanciare l'impresa e salvare la produzione in Italia è pura illusione. Ogni giorno che passa appare evidente che Marchionne vuole spostare tutto negli USA. Vogliamo lasciare ancora illusioni sul contrario ai lavoratori? Anche nell'ipotesi che i lavoratori siano disposti, perché costretti, ad accettare sacrifici, la realtà non cambia. Pomigliano dimostra questo. E comunque è anche chiaro che c'è un limite ai sacrifici che i lavoratori sono disposti ad accettare. Anche questo dimostra Pomigliano.
Si è aperto lo spazio perché per agli occhi dei lavoratori Irisbus, Pomigliano e Termini divenga credibile, di fronte alla chiusura o pesanti sacrifici, come unica soluzione la rivendicazione della nazionalizzazione. Purché ci sia un'avanguardia che organizzi una campagna su questo. È questo il nostro compito.
Veniamo ora al secondo punto di carattere strategico: una battaglia della classe operaia Fiat, che rappresenta il cuore della classe operaia dello stato italiano, per l'esproprio senza indennizzo della fabbrica e di tutte le proprietà e il capitale Fiat, avrebbe effetti di trascinamento sulle altre lotte e vertenze aperte, grandi o piccole che siano: chimici, Fincantieri, ecc, fino alle imprese locali. Fornirebbe un potente esempio alla generalità dei lavoratori dello stato italiano. Ci consentirebbe ancora una volta di porre la discussione sul problema del potere. Creeremmo un'enorme scuola di educazione politica di massa, la possibilità concreta di far ragionare milioni di lavoratori sul problema della loro presa in consegna diretta della gestione della produzione nei rispettivi settori. In altre parole avremo la possibilità concreta di far maturare la loro coscienza verso la consapevolezza della necessità della loro conquista del potere. I lavoratori dello stato italiano avrebbero la possibilità di chiarire a se stessi, e alle altre classi non capitaliste della società ( queste ultime incapaci di un'azione indipendente e che sono tendenzialmente gettate sempre più dalla crisi fuori dall'orbita di influenza della borghesia), che sono i lavoratori salariati la vera classe in grado di dirigere e sanare la società. Avremmo la possibilità di mostrare concretamente alle grandi masse della società, che già assistono alla crisi di direzione politica della borghesia, l'assoluta inutilità di quest'ultima anche dal punto di vista economico. In altre parole avremo la possibilità di candidare concretamente i lavoratori alla direzione della società. È questa la vera alternativa di potere alla borghesia, al capitalismo, al berlusconismo, al centro sinistra o ai governi “di emergenza nazionale” che dobbiamo indicare. È questa la sola alleanza ed egemonia, all'infuori di una sua subalternità alla borghesia, che il proletariato può costruire.
Per fare questo bisogna però che la parola d'ordine generale della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle industrie venga inserita al più presto nel nostro programma di rivendicazioni a fianco a quella dell'abolizione del debito e della nazionalizzazione delle banche e si combini con esse.
Per fare questo bisogna che si sviluppi una campagna per l'agitazione combinata di queste rivendicazioni nelle fabbriche e in particolar modo alla Fiat, e in tutte quelle che, in un modo o nell'altro, sono in lotta e agitazione e da noi raggiungibili. Questo, solo la sinistra sindacale interna alla FIOM e ai sindacati di base, unitamente alle forze della sinistra politica e sociale che aderiscono al nostro appello “Dobbiamo fermarli”, può farlo. In mancanza di questo la nostra stessa battaglia contro il debito rischierebbe di apparire molto più debole, come già detto, e velleitaria agli occhi della maggioranza dei lavoratori. Le critiche nostre, della sinistra sindacale Cgil e del sindacalismo di base, all'opportunismo e ai tradimenti della Camusso, e della burocrazia di CGIL CISL e UIL si ridurrebbero a puro radicalismo verbale. Infatti, che programma e obiettivi alternativi a quelli della burocrazia sindacale avremo da offrire ai lavoratori, oltre alla mera denuncia di quello che i lavoratori già sanno o iniziano a capire, e cioè che i burocrati sono dei venduti e firmano continue capitolazioni?
Una proposta per iniziare una campagna della Fiat potrebbe essere questa: convocare il prima possibile una conferenza di delegati delle fabbriche Fiat attualmente in lotta e degli altri stabilimenti, o almeno delle loro avanguardie, invitando a partecipare anche i rappresentanti o delegati delle altre industrie e fabbriche in lotta. Proporre in quella conferenza 1) la discussione e l'approvazione sulla rivendicazione della nazionalizzazione delle fabbriche insieme alle rivendicazioni su debito e banche; 2) la costituzione di un coordinamento permanente di tutti gli stabilimenti e l'avvio coordinato di forme concrete e decise di lotta per questa rivendicazione a partire dall'occupazione di tutte le fabbriche e imprese del gruppo Fiat e di quelle degli altri settori che vorranno unirsi.
Per tutti questi motivi è indispensabile superare il prima possibile le carenze e i limiti del nostro programma di rivendicazioni inserendo tra i punti, possibilmente già per il 15, la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori delle fabbriche che chiudono e licenziano, pianificando delle vere e proprie campagne di agitazione su questo, come quella della Fiat che si propone qui.
Infine sempre sul problema del potere. Il compagno Chiesa diceva nell'assemblea del Jovinelli: “bisogna fare della manifestazione del 15 il giorno della spallata al governo”. È in sostanza quello che come PCL diciamo da tempo e anche adesso, quando proponiamo di marciare il 15 sui Palazzi del potere. Il 15, marciando verso i palazzi del Potere abbiamo l'occasione di dimostrare a tutto il fronte democratico, operaio e popolare in aperta opposizione, dissenso e insofferenza nei confronti del governo Berlusconi e della casta politico parlamentare, che esiste un'avanguardia decisa a lottare per buttare giù il governo Berlusconi e ripulire la società appellandosi alla mobilitazione generale delle masse intorno a un programma economico radicalmente alternativo alla borghesia per la soluzione della crisi, e non alle inutili manovre di corridoio e ai vuoti appelli alle dimissioni del governo dell'opposizione parlamentare.
Organizziamoci quindi per marciare il 15 verso i palazzi del Potere e per preparare l'iniziativa con l'agitazione di questa rivendicazione e l'appello a buttare giù il governo in tutti i luoghi di lavoro e tra i settori di avanguardia e di movimento in cui siamo presenti.
02/10/2011
Gianmarco Satta sezione provinciale di Sassari del PCL
PS. Proprio il giorno successivo alla stesura di questo contributo, si è verificato il fatto dell'occupazione della fabbrica da parte degli operai della Fincantieri, non solo conferma le tendenze descritte sopra ma si pone con ancor maggiore urgenza la necessità della campagna sulla nazionalizzazione delle fabbriche e dell'inserimento di questa rivendicazione nel nostro programma, tenendo conto ovviamente, nel caso delle industrie statali o controllate dallo stato, di una sua articolazione specifica nelle forme, ad esempio, della requisizione pubblica delle quote di capitale controllate dai privati e del controllo dei lavoratori su tutta la produzione del settore e la gestione dell'impresa.
1)Mentre la crisi finanziaria non è altro che la manifestazione del carattere storicamente limitato del capitalismo, della sua incapacità appunto di condurre oltre lo sviluppo delle forze produttive, della sua trasformazione in un ostacolo alle forze produttive, o per dirla con le parole dirette di Marx: “...che dunque lo sviluppo delle forze produttive provocato dal capitale stesso nel suo sviluppo storico a un certo punto sopprime l'autovalorizzazione del capitale, invece di generarla. Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto capitalistico diventa un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro. (...)”