Internazionale

IL QUARTO ANNO DELLA BANCAROTTA CAPITALISTA

16 Novembre 2010

Dichiarazione del Segretariato del CRQI – 1 Ottobre 2010

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Lo sviluppo degli avvenimenti internazionali, specialmente quelli di carattere politico, continua a confermare
le prospettive della bancarotta capitalistica mondiale da noi segnalate molto prima della sua esplosione nel
luglio del 2007. Rivendichiamo, fondamentalmente, la portata rivoluzionaria che abbiamo dato a questo
processo, nel senso già segnalato da Marx: “lo sviluppo del sistema del credito” (e ancor più intenso
registrato dallo sviluppo del capitale fittizio negli ultimi decenni), “accelera la crisi (…) e gli elementi della
dissoluzione del vecchio modo di produzione.”
L’aggravamento violento della contraddizioni tra Stati Uniti, Giappone e Cina, da una parte, e la massiccia
svalutazione del dollaro e, quindi, del debito estero nordamericano, dall’altra, prospettano ora una
disarticolazione dell’economia mondiale e una crisi di tutto il sistema monetario. Ciò accade quando la crisi
entra nel suo quarto anno e dopo un intervento massiccio dei principali stati imperialisti per salvare dalla
bancarotta le banche e i principali polpi imperialisti. Si sbagliano quelli che assicurano che la nuova tappa
della crisi punti ad un “riequilibrio” dell’economia mondiale: la nuova emissione massiccia di moneta, da
parte degli Stati Uniti, equivale ad una gigantesca svalorizzazione del proprio debito pubblico, a danno di
Cina, Giappone, Germania e dei cosiddetti “emergenti” che hanno accumulato riserve nelle proprie banche
centrali. D’altra parte, una rivalutazione della moneta cinese, lo yuan, prospetta lo smantellamento del
regime di protezione instaurato dallo Stato cinese di fronte alla penetrazione tumultuosa del capitale
finanziario internazionale. Lo squilibrio monetario internazionale, non è la causa della crisi ma al contrario il
riflesso della bancarotta capitalista mondiale. La sola menzione di una dichiarazione di bancarotta di fatto,
da parte degli Stati Uniti, e di ultimatum alla Cina perché liberi il proprio sistema finanziario, da parte del
capitale internazionale e degli stati imperialisti, da una dimensione della fase esplosiva che inizia. La fine
della recessione nordamericana si è rivelata un mito: la ripresa della produzione dopo il collasso di fine
2008 non ha raggiunto il livelli precedenti alla crisi ne si è realizzata in condizioni di normalizzazione
dell’economia, ma al contrario in mezzo allo sprofondamento del sistema ipotecario e a massicci sfratti;
all’incremento della disoccupazione; a sussidi massicci attraverso l’incremento della spesa e della
emissione monetaria.
È una mezza verità quella degli economisti keynesiani che sostengono come via d’uscita un programma
massiccio d’investimenti statali in infrastrutture finanziato dall’emissione di moneta. Bisogna che, in tal caso
lo Stato, si faccia carico tanto dell’investimento quanto del credito; metta da parte il sistema bancario e
trasformi il capitale in un dipendente finanziario dello Stato; sarebbe un passaggio al capitalismo di Stato,
che accelererebbe il fallimento della maggior parte delle banche. Una tale soluzione suppone la
nazionalizzazione più o meno integrale del sistema bancario e anche di parte dell’industria. Se queste
misure venissero adottate, sempre in un quadro di capitalismo di stato, accentuerebbero la rivalità
capitalista internazionale ed un ritorno all’autarchia economica. (L’impasse delle misure di salvataggio del
capitale adottate dai differenti stati accentuerà “la dissoluzione del vecchio ordine” e svilupperà le
condizioni politiche di una crisi rivoluzionaria). A nessuno sfuggono, d’altra parte, gli squilibri interni in Cina,
dove il suo sistema immobiliare si trova ad essere indebitato per l’800% del PIL e dove la maggioranza
delle sue industrie hanno una capacità eccedente enorme, in mezzo ad una espropriazione massiccia dei
contadini; l’impasse enorme del Giappone, dove le tendenze deflazionistiche stanno nuovamente
paralizzando l’economia, e il debito pubblico, del 300% del PIL, non smette di crescere; la virtuale
bancarotta dell’Unione Europea ( Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, a cui si avvicinano sempre più Italia
e Francia); e infine le cosiddette economie emergenti, che attraversano una bolla speculativa esplosiva,
come conseguenza dell’ingresso massiccio di capitali a breve termine che hanno gonfiato all’estremo la
loro economia. Non c’è ombra di dubbio che queste economie hanno un enorme potenziale di sviluppo,
però in nessun modo sulla base dell’attuale sistema di produzione, o in ogni caso senza passare prima
attraverso enormi crisi che, anzi lungi dal liberare il loro potenziale di sviluppo, potrebbero sottometterle ad
una maggiore schiavizzazione da parte del capitale finanziario. La contraddizione più esplosiva dell’attuale
situazione economica internazionale è che l’insieme dei paesi capitalisti dipendono dalla domanda che
generano gli Stati Uniti e pertanto dai loro piani di emissione e di “stimolo fiscale”; tuttavia è questa politica
che scatena una dichiarata guerra monetaria e la minaccia del collasso dei principali rivale degli Stati Uniti.
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Le possibilità di un accordo internazionale che produca un “riequilibrio” monetario tra i principali paesi è
escluso; una bancarotta di queste dimensioni non si sistema con le discussioni; qualsiasi accordo sarà, per
definizione, fittizio e precario, preparatorio di nuovi choc, perché le contraddizioni presenti non hanno altra
via d’uscita che attraverso la forza relativa dei contendenti. I termini della controversia mostrano la fantasia
che anima coloro che presentano la Cina come il polo imperialista emergente che rimpiazzerà
l’imperialismo nordamericano, perché tutto va nella direzione, al contrario, di un’enorme pressione
internazionale per sottomettere la Cina al capitale finanziario mondiale. In ogni caso, la decadenza
dell’imperialismo yankee è evidente, però questa non esprime il destino di un determinato capitalismo
nazionale bensì di tutto il capitalismo. La possibilità teorica che la Cina possa in futuro convertirsi in un
nuovo referente imperialista, presuppone crisi, guerre e rivoluzioni che dovrebbero portare ad una vittoria
dell’umanità contro il capitalismo mondiale.
La bancarotta capitalista non ha solamente messo a nudo la miseria sociale delle grandi masse sotto le
condizioni capitalistiche, specialmente nei paesi sviluppati, ma le ha anche aggravate considerevolmente.
Ha completamente sbarrato il futuro alle giovani generazioni. Questo impoverimento radicale ha cominciato
ad esprimersi nelle mobilitazioni popolari come già è stato rivelato e messo in evidenza in Grecia; negli
scioperi in Cina, Vietnam, Bangladesh, Cambogia e Sudafrica, in un quadro di carenza totale di diritti
democratici; nello sciopero del 29 settembre in Spagna; nell’aggravamento dello scontro tra la
Confindustria e la Fiat, in Italia, contro il sindacato FIOM; nelle manifestazioni e scioperi a ripetizione in
Francia, contro l’elevamento dell’età pensionabile; e nelle mobilitazioni operaie e contadine in Bolivia,
Ecuador, Venezuela, Uruguay e Argentina. Il mito dell’assenza del “fattore soggettivo”, come argomento
contro le tendenze reali della lotta delle masse, sta saltando in aria. Questo sviluppo inarrestabile mostra
che il “fattore soggettivo” che blocca la mobilitazione delle masse, sono le loro organizzazioni maggioritarie
e della sinistra ( precisamente le stesse che giustificano la propria passività e il propri compromessi con il
capitale con l’argomento che il “fattore soggettivo” è inesistente), che si sforzano di contenere questo
movimento entro certi limiti e tradirlo.
In Europa, tutte le burocrazie sindacali si sforzano di trovare una soluzione negoziata all’attacco ai diritti
sociali delle masse; in Italia, la maggior parte di queste si è alleata al grande padronato, compresa una
parte della CGIL, ma allo stesso tempo la resistenza del sindacato FIOM è frammentaria, tentennante (o
incerta), frenatrice, perché punta a far ritornare le relazioni sindacali allo stadio antecedente la crisi
scatenata dalle misure della Fiat contro i lavoratori. In Francia, di fronte alle tendenza allo sciopero
generale, le burocrazie della CGT e della CFDT, che in nessun momento hanno prospettato il ritiro del
progetto di Sarkozy, hanno cominciato a parlare di “un ritiro ordinato” – uno sforzo finale per salvare il
governo, che probabilmente non potrebbe sopravvivere a una sconfitta. In questa situazione,
un’organizzazione trotskista tradizionale (Lutte Ouvière), insiste che “i rapporti di forza” continuano ad
essere sfavorevoli; che la parola d’ordine dello sciopero generale non è all’ordine del giorno; esalta la
scelta dei sabati come giorni per manifestare, con il curioso argomento che ciò aiuterebbe a partecipare chi
non può scioperare (come se la possibilità di ciascuno operaio o luogo di lavoro dipendesse da se stessi e
non dal movimento collettivo della classe e anche del popolo).
L’insieme della sinistra continua a vedere la bancarotta capitalista come una disgrazia sociale (con tale
caratterizzazione giustifica anche l’appoggio ai piani del FMI, come è accaduto con il Bloco de Esquerda de
Portugal, che ha votato in Parlamento il programma della UE-FMI, che ha imposto misure draconiane
contro il popolo greco, o che si rifiuta di rivendicare il ripudio del debito estero), e non come l’accelerazione
della tendenza del capitale alla crisi e alla dissoluzione del vecchio ordine. E necessario sviluppare
un’avanguardia che stimoli la possibilità di rendere cosciente l’incosciente e di rivoluzionare le
organizzazioni e le forme di organizzazione delle masse. Però lo sviluppo di questa avanguardia pone la
questione dell’approccio rivoluzionario alla bancarotta capitalistica internazionale, ossia un programma di
transizione verso la rivoluzione socialista. “Il marxismo considera se stesso, sottolinea Trotsky (nelle sue
“Note filosofiche del 1933/35”), come l’espressione cosciente di un processo storico incosciente(…) un
processo che coincide con la sua espressione cosciente solamente nei suoi punti più alti, quando le masse
con la forza elementare sfondano le porte della ruotine sociale e danno un’espressione vigorosa alle
necessità più profonde del processo storico. L’espressione più alta del processo storico in questi momenti
si fonde con l’azione immediata degli strati più bassi delle masse oppresse, che sono quelli che sono più
distanti dalla teoria. L’unione creativa del cosciente con gli incoscienti è ciò che solitamente si chiama
ispirazione. La rivoluzione è l’irruzione violenta dell’ispirazione nella storia”. Portare il proletariato ad essere
cosciente della bancarotta capitalista, è il compito strategico preparatorio di un partito rivoluzionario.
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La bancarotta capitalista ha avuto un impatto ancora limitato sui regimi politici esistenti, però la tendenza è
chiara – una divisione crescente all’apice. Due anni fa, l’elezione di Obama era vista come una soluzione
all’impasse politico e internazionale creato da Bush a partire dal 2001; oggi lo si da per spacciato, proprio
perché è stato incapace di far fronte alla disoccupazione e ai massicci licenziamenti. Riemerge, in cambio,
l’ala destra a cui s’imputò la responsabilità della sconfitta repubblicana nel 2008. Il cosiddetto Tea Party,
generosamente finanziato dalle corporation, è tuttavia, una frazione ultraminoritaria esaltata dalla grande
stampa, che sostiene un programma di aggiustamento che sprofonderebbe gli Stati Uniti in una
depressione. È un fattore, non di uscita dalla crisi, ma di accentuazione dell’impasse del regime politico e di
potenziale polarizzazione politica, che distruggerebbe il famoso “centro” degli Stati Uniti. In Italia,
l’imbattibile Berlusconi, è oggi una farsa, anche nelle inchieste: la Fiat, Confidustria e le grandi banche
internazionalizzate hanno rotto politicamente con il suo governo. Il direttore della Fiat, Marchionne, ha
spiegato lo scontro con poche parole: abbiamo bisogno, ha detto, della politica di salvataggio di Obama,
non dell’aggiustamento di Tremonti, il ministro dell’economia italiano. È che il tessuto industriale dell’Italia è
direttamente minacciato dalla crisi mondiale. Lo stesso accade con lo spagnolo Zapatero, che non è
passato a miglior vita grazie alla complicità della burocrazia sindacale e all’opposizione delle borghesie
basca e catalana ad un ritorno del Partido Popular; queste contraddizioni promettono il fallimento di una via
d’uscita elettorale. La posizione più precaria, al contrario di tutto ciò che ripete la stampa mondiale, è la
Germania, il cui sistema bancario è il più esposto ai debitori inesigibili degli altri paesi; l’industria tedesca
ha approfittato dei piani di “stimolo” degli Stati Uniti e della Cina per esportare la propria crisi – però è
proprio ciò che ora è entrato in crisi con la crisi monetaria internazionale. Queste crisi ancora contenute, ci
rivelano l’altro aspetto del “fattore soggettivo” : la crisi ai vertici della borghesia, l’incapacità di governare
come stava facendo prima. Il superamento rivoluzionario del confronto tra il proletariato (e le masse urbane
e agrarie espropriate) e la borghesia mondiali, porta con se il focolaio di tutte le contraddizioni in seno al
capitale come anche agli sfruttati – in questo caso la loro percezione della situazione attuale, da un lato, e
della propria funzione storica, dall’altro.
Il capitalismo mondiale non si è avviato alla bancarotta sistemica venendo da un passato armonico o in un
contesto di equilibrio. La bancarotta attuale è stata preceduta e annunciata da veri terremoti finanziari –
specialmente dalle crisi asiatiche, russa e argentina. Ma soprattutto in un quadro di guerre di aggressione e
di occupazione militare, che hanno tre assi strategiche: il controllo delle risorse energetiche, da parte degli
Stati Uniti, per sottomettere i propri rivali capitalisti; l’occupazione economica, politica e anche militare
dell’ex spazio sovietico, che è caduto sotto la dipendenza del capitale finanziario internazionale dopo la
dissoluzione dell’URSS, e terzo, ma più importante, tutelare, attraverso l’espansione militare e politica la
restaurazione del capitalismo in Cina. Il fallimento dell’occupazione militare in Iraq; il completo
impantanamento in Afghanistan, il fiasco della NATO nel dominio del Caucaso attraverso l’aggressione
della Georgia contro l’Ossezia del sud e l’Abkazia; i fallimenti di Israele contro il Libano e, poi, del
bombardamento indiscriminato su Gaza; cosi come l’impasse del governo restaurazionista russo in
Cecenia e nel Caucaso, e in altri stati asiatici, questi fallimenti hanno messo a nudo i limiti “tecnologici” del
militarismo nordamericano; hanno scosso il medio oriente da cima a fondo; hanno provocato una rottura
nella NATO; e hanno aggravato la crisi di bilancio degli Stati Uniti e la capacità economica dello stato di
salvare il capitale. La destra nordamericana reclama un ritorno alla coscrizione obbligatoria.
L’establishment nordamericano si trova diviso tra l’organizzazione di un ritiro parziale dal medio oriente e
accettare un direttorio che controlli la regione insieme alle potenze imperialiste dell’Europa, gradito da
Russia e Cina – o lo scatenamento di un attacco contro l’Iran per imporre un nuovo ordine alla regione e
una nuova soluzione per lo stato sionista. La bancarotta capitalista e la crisi dei suoi regimi politici, così
come le mobilitazioni popolari crescenti, tanto in numerosi paesi colpiti dalla crisi, quanto nelle nazioni
musulmane colpite dalle aggressioni imperialiste e dai propri regimi reazionari, dicono che l’imperialismo
mondiale non ha soddisfatto le condizioni per uscire dall’impantanamento politico-militare nella regione
mediante un attacco, che potrebbe essere nucleare, contro l’Iran. Prima di questa istanza, l’imperialismo
mondiale cercherà un cambio di regime in Iran, con il concorso della burocrazia restaurazionista e dei
capitalisti di Cina e Russia. La soluzione alla crisi mondiale è ostacolata enormemente dal gigantesco peso
dell’apparato militare dell’imperialismo – una gigantesca risorsa che dovrebbe funzionare come
riattivazione della domanda aggregata che esige il keynesismo, ma che si contende in realtà i fondi statali
necessari per salvare il capitalismo, e che opera come un poderoso fattore aggravante della miseria
sociale dei popoli.
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La prospettiva di coesistenza di sue stati nel territorio di Palestina, è stata completamente disdetta. Il
tentativo di ravvivarla attraverso i negoziati imposti all’AP, da parte di Obama, sono una farsa;
trasformerebbero i territori occupati dal sionismo in bantustan o in città dormitorio sotto il controllo sionista
(ne tanto meno si contempla una soluzione per l’asfissiata Gaza). Molto tempo prima di ciò, intellettuali
progressisti eminenti, tanto palestinesi come israeliani( rispettivamente uno, tra gli altri, Edward Said,
l’altro, molto dopo, Ilàn Pappé), misero in guardia sul fallimento dei due stati e prospettarono la lotta per
uno stato laico in seno ad Israele, che rispetti la cittadinanza degli arabi e degli israeliani. Il governo
sionista ha inventato, al contrario una formula nuova di lealtà allo stato, che rafforza l’infida discriminazione
che già esiste contro gli arabi che vivono dentro le frontiere di Israele, anche se questo non ha rinunciato in
alcun modo, ne pensa di farlo, alla propria formula programmatica di costruire il “grande Israele” – inclusa
eventualmente l’altra riva del Giordano. La rivendicazione dell’intellighenzia progressista poneva l’accento
sul fallimento della resistenza palestinese nel piegare la potente macchina militare del sionismo; in realtà,
la formula dei due stati fallisce per un'altra incompatibilità: il sionismo non ammette ne il diritto al ritorno
degli arabi palestinesi alle proprie case e terre espropriate (e anzi continuano ad espropriare case e terre),
ne uno stato al proprio fianco con un esercizio pieno della sovranità. In Sudafrica, dove la popolazione
bianca ha accettato il principio di una persona un voto per la popolazione nera, il grande capitale che
sfrutta le miniere, la risorsa per eccellenza del paese, ha bisogno della classe operaia nera, con le cui
direzioni piccolo borghesi e le direzioni sindacali negoziò il cambiamento di regime senza colpire il diritto di
proprietà. In Israele, la borghesia non ha bisogno dei palestinesi: anzi li ha rimpiazzati con lavoratori del
sudest dell’Asia oltre a sfruttare gli operai ebrei. La realizzazione delle rivendicazioni nazionali palestinesi, il
ritorno alle proprie case e terre, è incompatibile con il sionismo – implica un cambiamento del regime
politico e sociale. Nel corso della storia, la colonizzazione sionista adottò forme sociali variegate e allo
stesso modo fu variegata la relazione tra i lavoratori arabi e ebrei. Questa forma può cambiare nuovamente
e più volte. Tutto dipende dall’orientamento politico delle direzioni delle masse arabe palestinesi e anche
della sinistra ebraica. Le vecchie direzioni (OLP, Al Fatah, Fronte Popolare) hanno fallito miserabilmente e
sono finite tra le braccia del sionismo e in una corruzione ignominiosa; gettando le masse arabe palestinesi
nelle mani dell’integralismo. È necessaria una nuova direzione. L’inespugnabilità dello stato sionista non
risiede nelle sue forze armate ne nel suo arsenale atomico, ma nel dominio dell’imperialismo mondiale e
nel ruolo antipalestinese dei governi feudal-capitalisti e piccolo borghesi delle nazioni arabe. Però il
dominio dell’imperialismo e dei regimi di oppressione arabi è minato dalla bancarotta mondiale e dai
fallimenti delle occupazioni militari dell’imperialismo. Il futuro del popolo ebraico in Palestina non può
dipendere dal suo supposto alleato, l’imperialismo, in ciò consiste la sostanza dello Stato sionista, perché
l’imperialismo programma nuove guerre che minacciano la sopravvivenza di tutti i popoli del medio oriente.
Tutta la tendenza della crisi mondiale costituisce una minaccia per le masse del medio oriente, a cui
potranno sfuggire solamente mediante l’unione. Questa prospettiva è incarnata dalla formula della
sostituzione, attraverso la mobilitazione internazionale delle masse, dello Stato sionista con una
Repubblica palestinese unica, laica e socialista, e con gli Stati socialisti del medio oriente.
Nel quadro di questa gigantesca crisi capitalista, Cuba ha annunciato in maniera formale il passaggio ad un
processo di restaurazione del capitalismo, nel segno della ex URSS, della Cina e di altre nazioni, con
l’annuncio del licenziamento da 500 mila a un milione di lavoratori. Questa caratterizzazione non è dovuta
a quelle che si annunciano come riforme economiche correlate al marasma in cui si trova Cuba da
moltissimo tempo, e nemmeno al fatto che molte di esse comportano la sostituzione del regime di
amministrazione statale dell’economia con forme d’interscambio mercantile. Così come lo Stato non
scompare immediatamente dopo una rivoluzione sociale vittoriosa, tantomeno succede ciò con il mercato.
Il punto centrale è che le riforme economiche sono lanciate ed eseguite dalla burocrazia statale e non dai
lavoratori; che esse rispondono agli interessi di quella, non a quelli delle masse, e che perciò mirano ad
una restaurazione del capitale. La prova più completa di ciò è che le libertà che si concedono ai direttori
delle imprese, al capitale straniero o a chiunque soddisfi le condizioni di sfruttamento del lavoro salariato,
non sono ammesse per gli operai che saranno oggetto dello sfruttamento di gestori delle imprese,
capitalisti e borghesi in corso – in primo luogo la libertà sindacale, di organizzazione autonoma nelle
imprese, di libertà politica e, ultimo e fondamentale, di diritto a supervisionare e porre il veto sulle
cosiddette misure riformiste, in primo luogo i licenziamenti massicci. L’esperienza recente e la teoria
marxista insegnano che la libertà di mercato per il burocrate politico o economico costituisce una
transizione verso la conversione del patrimonio statale in capitalista. Una restaurazione capitalista a Cuba,
è chiaro, non sarà una ripetizione meccanica di ciò che è successo in Cina e nella ex URSS, laddove
questa restaurazione capitalista deve affrontare l’impatto dissolvente della bancarotta mondiale. Scatenerà
una lotta sociale più intensa che nei suoi predecessori; Cuba non potrà godere delle possibilità di un
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mercato mondiale in espansione, ma della rivalità commerciale dei paesi centroamericani e della Cina, in
primo luogo, per un posto nel mercato nordamericano che si contrae di giorno in giorno. Perciò l’ambizione
del capitale straniero, a Cuba, punta al petrolio e alle miniere, il che significherebbe una riconversione
verso la mono-produzione. La Spagna di Zapatero e il Brasile di Lula-Roussef sono l’avanguardia della
pressione internazionale restaurazionista. La borghesia brasiliana e il capitale internazionale accarezzano il
sogno di convertire Cuba nel paradiso dei biocombustibili che si ottengono a partire dallo zucchero. Lo
smantellamento della protezione economica rafforzerà la pressione dell’imperialismo, in primo luogo della
borghesia della Florida, che già si serve dei meccanismi esistenti per trasferire capitale a Cuba. Nemmeno
il contesto politico mondiale e dell’America Latina è quello che prevalse due decenni fa; l’annuncio formale
di un processo di restaurazione capitalista pone in crisi il socialismo del XXI secolo del movimento
bolivariano – che, oltre a preservare le relazioni capitalistiche nei propri territori e combattere con ferocia
qualsiasi tendenza all’autonomia della classe operaia, ha riconfermato la propria vocazione capitalista con
l’integrazione nel Mercosur e nell’Unasur.
Noi rivoluzionari socialisti dobbiamo denunciare con energia il marasma economico e opporci a che sia
trasformato in un pretesto per la restaurazione capitalista. Le concessioni mercantili per animare la piccola
produzione e i servizi, o anche le convenzioni con questo o quell’investimento straniero, devono essere al
servizio di una transizione al socialismo. Le cooperative e il piccolo commercio, sull’esempio della
restaurazione capitalista nell’ex URSS, sono state cinghia di trasmissione per lo smantellamento delle
imprese statali da parte della burocrazia dirigente.
Riaffermiamo la necessità di combattere la privatizzazione mediante il controllo operaio della produzione e
la sostituzione della burocrazia con una gestione operaia collettiva, nel quadro dello sviluppo di un sistema
politico di consigli operai eletti e revocabili.
Riaffermiamo, ugualmente, la difesa del monopolio statale del commercio estero. Un riforma monetaria
integrale, che ponga fine alla diseguaglianza sociale che è approfondita dall’esistenza di un doppio sistema
monetario, deve essere accompagnata da un aumento corrispondente dei salari. Cuba ha necessità di
elevare in maniera profonda la produttività del lavoro, però il punto di partenza deve essere,
necessariamente, restituire al salario il suo potere d’acquisto reale, e far ricadere il peso della riforma
economica sopra gli speculatori e la burocrazia, responsabili di un gigantesco sperpero di risorse. Il
rafforzamento della cosiddetta disciplina del lavoro da parte della burocrazia, è un appello al
supersfruttamento e allo smantellamento dei servizi sociali offerti dalle imprese statali, che saranno
terziarizzate per il loro sfruttamento mercantile. Una separazione di questo tipo, che avrebbe la sua
giustificazione in una razionalizzazione del processo industriale, pone la necessità del controllo operaio
collettivo e della gestione operaia delle riforme. I lavoratori e la gioventù di Cuba hanno dimostrato, in
differenti manifestazioni di critica e protesta, che hanno una coscienza allarmata circa la fase che si va
inaugurando. Facciamo appello ad una campagna di difesa delle conquiste della rivoluzione cubana e
ripetiamo che la difesa della rivoluzione cubana presuppone la rivendicazione globale degli Stati Uniti
Socialisti di America Latina.
Una fase rivoluzionaria, i cui elementi vanno configurandosi di giorno in giorno, è la più complessa di tutte
le fasi politiche. Chiamiamo coloro che lottano a osservarla con gli occhi ben aperti e a lasciar perdere gli
indovini che dicono che semplicemente tutto ciò l’abbiamo già visto prima. La nostra opportunità è che
l’abbiamo ancora una volta e lo stesso vale per la coscienza che si va formando l’umanità di essa.

SI CRQI

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