Rassegna stampa

Per un reddito sganciato dal lavoro

24 Aprile 2010


Ancora una volta i dati Istat pubblicati a fine marzo e riguardanti il IV trimestre 2009 non regalano buoni segnali per quel che riguarda il mondo del lavoro. La perdita dell’occupazione continua a crescere e il numero delle persone in cerca di lavoro ha raggiunto la cifra di 2.145.000 unità (+369.000), con un aumento del 20,8 % rispetto al quarto trimestre 2008. Malgrado questi dati il Ministro dell’Economia Tremonti ha dispensato ottimismo, dichiarando che “sull'occupazione il dato italiano è migliore della media europea” . Com’è consuetudine ormai da qualche tempo in Italia, il ministro ha utilizzato la modalità comunicativa più in voga: dire l’esatto contrario della realtà e spacciarla come verità. Come già scritto infatti in un precedente articolo, se si avesse la bontà di raffrontare i dati occupazionali con quelli relativi agli ammortizzatori sociali si vedrebbe come la situazione è assolutamente imparagonabile con quella degli altri paesi europei, avanti anni luce nelle politiche sociali e di sostegno al reddito.
Partendo da questo dato di carenza occupazionale senza adeguate protezioni sociali, dato oggettivo e non interpretabile a piacere, è possibile estendere l’analisi verso uno scenario che provi a immaginare possibili soluzioni a questo che, essendo legato al reddito, sta diventando un problema sempre più incisivo e doloroso su determinate fasce sociali.
Nella società attuale la disoccupazione è diventata ormai non un fattore congiunturale dovuto a momenti ciclici di crisi o ristagno economico, ma un dato strutturale, una componente del mercato del lavoro che non è il contraltare dell’occupazione, ma un suo complemento derivato da una serie di fattori, non ultimo quello che ha visto negli ultimi dieci anni le politiche di deregolamentazione e liberalizzazione del mercato del lavoro marciare di pari passo col dominio della finanza sull’industria, o più precisamente del capitale speculativo su quello produttivo. La società del lavoro si è trasformata e il lavoro stesso in alcuni casi tende a scomparire o quantomeno a riguardare la vita di sempre meno persone.
Tra le tante trasformazioni sociali introdotte dal nuovo mercato del lavoro basato su precarietà e demansionamento, c’è poi anche quella di aver allargato e ampliato la classe dei cosiddetti “working poor”, vale a dire i lavoratori che pur avendo un reddito, vivono in situazione di povertà, non riuscendo con quel che guadagnano a garantirsi sostentamento e servizi sociali minimi. Pensiamo ai tanti lavoratori impiegati nei call-center, con stipendi che a malapena raggiungono i 300-400 euro mensili, o se vogliamo guardare a fasce specialistiche più alte, magari a ricercatori universitari che sopravvivono con assegni da 700/800 euro mensili. Il Rapporto 2008-2009 della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (Cies), mostra come l’Italia presenti una percentuale tra le più alte in Europa di working poor. Secondo l’indagine Eu-Silc, infatti, con il 10% di lavoratori occupati al di sotto della soglia di povertà relativa, il nostro Paese si trova alla pari con Lettonia e Portogallo e in posizione migliore soltanto rispetto a Spagna (11%), Polonia (12%), Grecia (14%) e Romania (19%).
Questo perchè mentre nella quasi totalità dei paesi europei viene garantito un reddito minimo non solo a chi non ha lavoro, ma anche a chi lavora e non guadagna abbastanza, in Italia non viene fatto nulla di tutto questo né sul versante dei sostegni al reddito né tantomeno su quello delle politiche di ricollocazione.
Di fronte a questo quadro sociale d’abbandono bisogna prendere atto che siamo di fronte ad una situazione sociologicamente nuova, in cui il diritto alla sussistenza non è più legato in maniera indissolubile al lavoro e che la corrispondenza salario-tenore vita non ha più ragione di essere, almeno in molti casi. È per questo che bisogna cominciare a ragionare sull’introduzione di un reddito di cittadinanza che sganci le prospettive di vita dei singoli cittadini dall’avere o meno un lavoro.
In molti paesi europei questo dato è ormai acquisito e la condizione di disoccupazione non porta come conseguenza quella della povertà, cosa che invece avviene ancora molto frequentemente in Italia. In Francia dalla prossima estate entrerà in vigore il Revenu de Solidarité Active (RSA), un nuovo sussidio pubblico che non sarà diretto solo a chi è disoccupato, ma che sarà una forma di complemento al reddito usufruibile anche da chi, pur lavorando, non percepisce redditi adeguati che gli consentano di vivere. Per chi non ha un lavoro si tratterà quindi di un reddito minimo, per chi ha un’occupazione retribuita di un complemento al reddito.
L’RSA si pone come uno strumento misto, che garantisce a chi lavora un livello decente di sussistenza e evita a chi il lavoro lo ha perso e non ha ammortizzatori sociali, di finire nel buco nero della povertà. Oltretutto l’introduzione del RSA sarà accompagnata da pratiche di incentivo al rientro al lavoro e ricollocamento; in assoluto i redditi percepiti sia da chi lavora, che da chi non lavora rimarranno comunque minimi, evitando il rischio, sempre sbandierato da chi si oppone a queste forme di sostegno del “parassitismo sociale”.
In Italia ogni volta che si parla di reddito di sostegno, di cittadinanza, o di qualsiasi altra forma di supporto, ci si scontra subito col discorso del debito pubblico e con l’impossibilità di mettere mani a riforme strutturali. L’introduzione del RSA, che sostituisce altre forme di sostegno, costerà alla Francia 13 miliardi di Euro a carico dell’amministrazione centrale.
Recentemente la Banca Mondiale (forse non proprio un organismo di propaganda bolscevica…) ha calcolato che il costo della corruzione in Italia si aggira intorno ai 50 miliardi di Euro. L'evasione fiscale, combattuta nel nostro paese sempre a parole ma raramente nei fatti se non con scudi e condoni tesi a favorire chi aveva già allegramente evaso o esportato capitali all’estero, sfiora i 250 miliardi di Euro. Volendo, i soldi per una riforma veramente rivoluzionaria ci sarebbe dove prenderli, senza contare poi che Italia la spesa sociale (al netto della spesa pensionistica e delle indennità di disoccupazione riservate a pochi) è una delle più basse d’Europa, pari al 9,6% del Pil.
In Germania una recente sentenza del Tribunale Costituzionale ha sottolineato come la “minima sussistenza” sia da garantire a tutti, ma che essa debba anche essere compatibile con la “human dignity”, la quale non può coincidere con la semplice possibilità per le persone di sopravvivere.
Quello del reddito sganciato dal lavoro può e deve essere l’argomento e il terreno da cui ripartire in tema di politiche sociali e su cui si ricostituisca un fronte del lavoro, per una nuova stagione di diritti e giustizia sociale indispensabili in un momento dove tutto nelle politiche governative italiane sembra andare nella direzione opposta, quella dell’esclusione e dell’ingiustizia.


Stefano Giusti, Sociologo, Consigliere Nazionale dell’ass.ne Atdal Over 40, che si occupa della disoccupazione in età matura. Autore del saggio “Non ho l’età”, una ricerca sul fenomeno stesso.

Stefano Giusti

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FONTE

  • stefano.giusti0@gmail.com