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La bozza Martinotti
22 Dicembre 2009
1. Introduzione
Il ministero dell'università e della ricerca, attraverso decreto emanato il 29 ottobre 1996, istituiva un gruppo di lavoro, coordinato da Guido Martinotti, con lo scopo di analizzare lo stato dell'alta istruzione italiana e trarne proposte per l'ammodernamento e l'innovazione, con particolare riferimento all'incalzante necessità di europeizzazione del nostro sistema formativo (1), inquadrata nell'armonizzazione degli ordinamenti didattici e delle normative inerenti all'università, in tutti i paesi membri dell'unione europea. In particolare il gruppo di lavoro dovrà operare nell'ambito di “autonomia universitaria e innovazione dei corsi di studio a livello universitario e post-universitario” (2).
Circa un anno dopo, il 21 ottobre 1997, il gruppo composto da numerosi docenti affiancati da tecnici e politici (alcuni docenti sono a loro volta politici), presenta al ministero un documento con cui delinea i risultati finali del lavoro svolto, documento che sarà poi denominato bozza Martinotti, dal coordinatore e professore di sociologia all'università Bicocca di Milano.
Il termine bozza è probabilmente dovuto alla forma di stesura scelta per il documento che, come scritto nel primo capitolo dello stesso dedicato alla presentazione, non si articola come una proposta di legge in forma giuridica, ma si limita a contestualizzare e formalizzare suggerimenti e proposte di carattere generale e specifico, questa è almeno l'intenzione degli autori.
Il documento è di straordinaria importanza nello studio delle riforme dell'istruzione in Italia, poiché segna di fatto il giro di boa nell'involuzione del sistema formativo che si appresta a diventare sistema di formazione professionale funzionale al mercato ed alle imprese del paese. Se è vero infatti che la b.m. non è una vera e propria proposta di legge, potremo apprezzare come determini e anticipi buona parte dei provvedimenti “riformatori” che si attueranno da lì in avanti. Inoltre, attraverso lo studio di questo documento, si può evincere in modo quanto mai esplicito quali siano realmente le logiche che muovono gli interventi governativi nell'ambito dell'istruzione, o almeno parte di queste.
2. Perché è necessario intervenire sull'università?
Il primissimo punto affrontato dal gruppo di lavoro è l'analisi delle condizioni di “partenza” dell'università italiana, esplicitato abbondantemente nel paragrafo “filosofia d'intervento”.
Si rileva un sistema universitario inadeguato in quanto strutturato per un corpo studentesco molto meno ampio ed omogeneo, ovvero di una sola classe sociale. Al cambiamento di queste condizioni, sempre secondo il documento, è sostanzialmente mancato un opportuno intervento centrale (del ministero) con conseguente adattamento delle singole università, avvenuto in maniera eccessivamente spontanea, a volte avventuristica, persino perversa. Allo stesso tempo si prende atto dell'impossibilità di un intervento organico da parte del ministero, in quanto contrasterebbe il processo già avviato di autonomia degli atenei (vedi interventi del ministro Ruberti).
In realtà al gruppo di lavoro è stato assegnato esplicitamente il compito di integrare e rafforzare i processi avviati all'inizio del decennio dal ministero, così come si evince facilmente dal titolo del documento “Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio...”; in questo frangente è evidente come la b.m. si inquadri in una precisa volontà degli organi centrali dello stato, perseguita nel corso di molti anni, che tende a realizzare un diverso modello di formazione. Se è vero che l'inadeguatezza del sistema possa essere causata dall'ampliamento del corpo studentesco, non è esattamente comprensibile come questo possa essere correlato al decentramento amministrativo, tanto meno agli altri provvedimenti riportati nel documento che affronteremo in seguito. Ancora più inopportuno, a nostro avviso, è il riferimento all'omogeneità dello studentato: per quale motivo l'organizzazione universitaria dovrebbe essere legata alle classi sociali di appartenenza degli studenti?
3. I cardini del nuovo modello
3.1. Contrattualità e studenti part-time
Come scritto in precedenza, questo documento anticipa e struttura gran parte dei provvedimenti attuati, in particolare, con le riforme Zecchino, Moratti e Mussi. Il primo principio enunciato è quello della contrattualità del rapporto tra studente ed ente universitario, il ché implica l'obbligo di una serie di prestazioni da parte di entrambi i soggetti. È evidente come sia in atto una mutazione dei contesti di studio e di formazione, che tende in modo esplicito alla economicità, sia terminologica che sostanziale. Individualizzare l'interazione tra studenti e università fa in modo che quest'ultima non sia più vincolata alle aspettative della collettività, ma solo al “contratto” stipulato da ogni singolo studente; inoltre non si tratta di un accordo bilaterale, in quanto è del tutto improbabile che ogni studente abbia la possibilità di contrattare le prestazioni dell'ente universitario, tuttalpiù gli sarà concesso di accettare o meno delle condizioni precostituite.
Questo nuovo tipo di “iscrizione” prefigura la possibilità di differenziazione delle figure studentesche, ovviamente in base ad un diverso contratto stipulato. Tra queste, il gruppo di lavoro prevede la figura dello studente a tempo parziale, che dovrebbe rispondere alle esigenze di “giovani adulti, perlopiù già inseriti nel mondo del lavoro, che intendono conseguire il titolo di studio senza un termine di tempo preciso”, sostanzialmente studenti lavoratori, cui il contratto riconosce possibilità limitate rispetto all'avanzamento nei corsi di studio e conseguentemente tempi più lunghi, tutto questo per favorire la sparizione della “anomalia [..] dello studente fuori corso”. Si tenta di mascherare una netta discriminazione di parte del corpo studentesco con un adattamento dell'istituzione universitaria, ignorando per altro il fatto che buona parte degli studenti che lavorano ne hanno necessità proprio per permettersi gli studi, sempre meno accessibili alle famiglie dei ceti meno abbienti. Un sistema universitario che voglia limitare le difficoltà di studenti che hanno la necessità di lavorare contemporaneamente al corso di studi, dovrebbe aumentare gli investimenti in servizi per alleggerire il carico economico delle famiglie, oppure predisporre degli impieghi lavorativi per gli studenti che ne facciano richiesta, in ambiti contestuali alla facoltà o al corso di studi di appartenenza (biblioteche, laboratori, alloggi universitari eccetera).
3.2. Differenziazione competitiva degli atenei
3.2.1 Competizione
Integrando il principio di autonomia, il gruppo di lavoro auspica che gli atenei avviino un processo di differenziazione e di competizione, grazie al quale il sistema formativo dovrebbe fare un salto di qualità e risultare adeguato ai tempi. L'idea di competizione tra gli atenei lascia pensare subito a contesti assolutamente distanti (almeno dovrebbero esserlo) dalla formazione, come per esempio il mercato e la produzione, ma in realtà è il GdL stesso che precisa al riguardo:“Indipendentemente da ogni altra considerazione, nel sistema italiano non è possibile, allo stato attuale, pensare a un sistema di atenei in competizione tra di loro, per la buona ragione che mancano le condizioni al contorno per un vero e proprio mercato accademico, sia per gli studenti, sia per i docenti”. Si noti come la competizione ed il mercato accademico (!?) non sono assolutamente disprezzati, anzi, descrivendo il contesto come prematuro per questi concetti, si lascia intendere che sarebbe auspicabile uno sviluppo in questa direzione: “Tale mancanza deriva da una serie di importanti vincoli strutturali esterni all'istituzione universitaria e relativi alla mobilità delle persone, al mercato del lavoro e alla sua organizzazione e, infine, al ruolo del sistema familiare nei meccanismi di inserimento dei giovani nella vita adulta, occupazione compresa, e non è pertanto eliminabile, nel breve periodo, con misure normative. Sul lungo periodo la competizione tra i diversi atenei potrà forse contribuire a stimolare una rilevante mobilità di docenti e studentesse e studenti”.
3.2.2 Differenziazione e flessibilità
Funzionale all'autonomia ed alla competizione vi è un secondo principio, la differenziazione. Il concetto di differenziazione degli atenei è ampiamente discusso nel documento e sotto più punti di vista. Viene descritto un modello di offerta formativa con flessibilità curricolare, con cui si permette di “adeguare l'offerta formativa ai cambiamenti nel mondo del lavoro e delle condizioni di vita”. Sostanzialmente si tratta di dare la possibilità agli atenei di aprire e chiudere in modo autonomo corsi e attività formative, in particolare il documento intende facilitarne la “chiusura una volta che se ne rilevi esaurita l'utilità”. Premettendo che “lo stato è solo uno dei finanziatori del sistema universitario” il quadro diventa quanto mai completo, e si evidenziano i reali effetti di queste impostazioni. Si propone un modello dove gli atenei devono sforzarsi di produrre un offerta didattica quanto più aderente possibile al contesto economico ed al mercato del lavoro, secondo l'esplicito principio dell'utilità, mutuato appunto dal mercato territoriale e nazionale. L'esigenza di alta formazione e cultura, principi imprescindibili ed indipendenti da qualsivoglia logica di produzione ed impiego, deve lasciare spazio ad una più efficiente professionalizzazione data da una didattica flessibile, ovvero modellata sulla base delle possibilità del mercato, quindi di chi ne influenza i suoi andamenti.
Ma tale influenza sarà solo esterna? In realtà si auspicano anche finanziamenti “spontanei” da parte di enti privati che decideranno di investire nell'alta istruzione, ed in questo ambito sarà ancora la competizione tra gli atenei che ne determinerà la capacità di attrarre investimenti. Con l'autonomia di incidere direttamente sulla didattica, abili enti privati ed atenei attratti dai finanziamenti potranno addirittura “superare” l'adattamento della formazione al mercato, per realizzare direttamente (e tacitamente) l'adattamento agli interessi di una o più aziende (3).
Ma, pur uscendo dal campo delle ipotesi (poi purtroppo confermate dal tempo), il gruppo di lavoro dovrebbe spiegarci quando un attività formativa esaurisce la sua utilità. Escludendo casi di corsi scientifici di teoria aristotelica, per esempio, riteniamo estremamente inadeguato il concetto di quantificazione utilitaristica dell'attività formativa, conseguentemente improponibile proporne addirittura la chiusura. Il sistema universitario dovrebbe offrire e promuovere tutte le attività formative che hanno interesse antropologico, umanistico, scientifico, culturale, artistico eccetera, non limitarsi al principio utilitaristico di mercato.
3.2.3 Offerta consorziata e mobilità
Altro obiettivo del GdL perseguito attraverso la differenziazione è la “mobilità delle risorse umane” e il “coordinamento territoriale”. L'auspicio è quello di far sviluppare agli atenei delle specifiche qualità, in termini di offerta formativa, per cui, attraverso opportuno orientamento, gli studenti potranno scegliere un istituto universitario piuttosto che un altro in base alle proprie esigenze formative. Inoltre il GdL prevede di strutturare delle “aree di offerta formativa in relazione agli attuali flussi di gravitazione degli studenti e/o alle convenienze economico-sociali di istituire nuove strutture formative”. Sostanzialmente si prevede la diversificazione di aree geografiche del paese in base a diverse offerte formative, affinchè gli studenti non scelgano per comodità l'università “sotto casa”, bensì l'università con il migliore corso di studi per la materia scelta. Viene specificato che “l'offerta consorziata” (!?) permetterà di evitare sovraffollamenti degli atenei: un ateneo che ha ricevuto un numero elevato di domande di iscrizione potrà deviare parte degli studenti in una università dello stesso coordinamento territoriale, consorziata. È incredibile come il gruppo di lavoro ignori completamente il fatto che essere studente fuori sede implihia una quantità di spese enormemente maggiore rispetto allo studio in sede, realizzando un'ulteriore discriminazione di classe implicita: gli studenti che avranno la possibilità economica potranno seguire il corso in un'università ottimale per la specifica materia, gli altri dovranno accontentarsi dell'offerta didattica dell'università “sotto casa”. Per non parlare delle “convenienze economico-sociali di istituire nuove strutture formative”, con cui si sostanzia che un'università o un corso di studi non istituisce solo per necessità sociali e culturali della collettività, ma anche per interessi economici dell'istituzione.
Per quanto riguarda le metodologie con cui orientare la propria didattica il GdL non va per il sottile: “L'offerta formativa a livello locale dovrà, dal canto suo, tendere ad adeguarsi alle caratteristiche del mercato del lavoro e della economia del territorio, come anche dovrà fare riferimento al genere di utilizzatori potenziali, allo scopo di consentire la creazione di veri rapporti di contrattualità tra soggetti e istituzioni”, ma ancora più inquietante è la prospettiva tracciata per la composizione dei coordinamenti territoriali: “Il coordinamento territoriale potrebbe essere assicurato da un comitato di rettori (e presidi di facoltà) presenti sull'area, al quale andrebbero affiancati - caso per caso - rappresentanti 'laici' degli organismi economici e scientifici locali da coinvolgere in specifici progetti a ricaduta locale”. In questo caso riteniamo che ogni commento sia superfluo.
3.2.4 Valore legale del titolo di studio e proliferazione dei ma$t€r$
Ultimo “gioiello”, solo per ordine di scrittura, tra le conseguenze correlate agli obiettivi della diversificazione competitiva è la destrutturazione del valore delle lauree. Non è un caso che il titolo del documento (che rispecchia la commessa del ministero nei confronti del gruppo di lavoro, lo ripetiamo per l'ennesima volta) sia “Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio di livello universitario e post-universitario”. Ricordiamo che prima del processo di “riforma” dell'università italiana, iniziata con il ministro Ruberti (primi anni 90), il nostro sistema universitario e lavorativo era strutturato in modo da fornire al laureato un consistente valore culturale e formativo, di conseguenza una notevole garanzia in termini di bassa ricattabilità sul mercato del lavoro. Che cosa intende il ministero con corsi di studio di livello post-universitario? Innanzitutto la diversificazione dell'offerta didattica dei singoli atenei non può che rendere disomogeneo il livello qualitativo della formazione impartita, tanto è vero che lo stesso gruppo di lavoro al riguardo parla semplicemente di un minimo di omogeneità garantita: “[..] finché il sistema universitario italiano rimane pubblico ed è finanziato con risorse nazionali, deve possedere alcuni requisiti comuni..” (4) oppure, nel punto specifico:“[..] nel quadro dell'autonomia è indispensabile che i requisiti comuni siano effettivamente minimi”. Questo non può che andare ad intaccare un caposaldo del sistema di alta formazione, che garantiva pluralità e universalità, il valore legale del titolo di studio. Per quali motivi questo è garanzia per gli studenti italiani? Svariati. Si pensi ad esempio che esso sancisce (almeno formalmente) l'uguaglianza fra due titoli di studio conseguiti in università diverse, il che intacca la tendenza di formare gruppi di università di 'serie a' e di 'serie b', soprattutto in ambiti privati. Al riguardo il documento è piuttosto chiaro: “[..] un sesto principio organizzativo che mira alla graduale sostituzione di un valore formale del titolo di studio [..]”. Con che cosa lo si vorrebbe sostituire? Sempre il sesto principio organizzativo ci fornisce la temuta risposta: “[..] un sistema di certificazioni a posteriori o accreditamento basato su tre criteri, valore culturale del titolo proposto, sua rispondenza a esigenze sociali o economiche e adeguatezza delle risorse messe a disposizione dagli Atenei.”. Le 'certificazioni a posteriori' sarebbero tutta una serie di titoli da “guadagnare” dopo la laurea, che acquisiscono sempre più valore man mano che le lauree stesse perdono di potere contrattuale nel mercato del lavoro. Ovviamente queste esulano dal contratto tra studente e istituzione, risultano quindi un surplus rispetto al normale corso di studi sia da un punto di vista temporale che economico. Inoltre, ammettendo la possibilità di rilascio di questo tipo di certificazioni anche da parte di istituti privati, si è data vita ad un complesso sistema di masters costosissimi e sempre più richiesti dalle aziende in fase colloquiale (5).
3.2.5 Differenziazione competitiva - Conclusioni
Man mano che si legge e si rilegge il documento, se ne evince sempre di più l'impostazione teorica e il modello di sistema formativo proposto, che di fatto non risponde minimamente alle esigenze dell'università italiana, né sopperisce alle sue effettive mancanze (6), ma bensì risponde all'esigenza del mercato (delle grandi imprese associate che ne regolano l'andamento) di disporre di figure professionali funzionali al sistema produttivo e quanto più ricattabili possibile (7). Non è affatto casuale, infatti, che al processo di frammentazione del sistema formativo tradizionale viene affiancata la destrutturazione del sistema contrattuale e del mondo del lavoro italiano, che vede la comparsa delle prime figure 'flessibili', ergo precarie (8). In realtà l'inadeguatezza che intende colpire la manovra del ministero è l'incompatibilità dell'università di massa (con tutti i possibili difetti con cui è stata realizzata nel nostro paese) che garantisse mezzi e strumenti per il riscatto sociale di individualità e collettività, con il sistema economico ed i suoi sviluppi in chiave neoliberista. L'autonomia diventa il mezzo con cui lasciare che l'università venga man mano travolta, o quanto meno influenzata, da esigenze ben distanti dalla formazione e dalla diffusione del sapere, allo stesso tempo deresponsabilizzando il governo centrale (quindi la politica) per le conseguenti ripercussioni che andranno a delinearsi da qui in avanti. Concludiamo con il pensiero che il documento esprime sulle eventuali regole con cui gli atenei dovrebbero effettuare la loro diversificazione competitiva, che rispecchia in pieno il liberismo-pensiero applicato al mercato, e che ci dà un'esatta immagine del modello proposto: “L'insieme di questi principi dovrebbe permettere ai singoli atenei una ampia capacità di iniziativa e trasformare l'insieme dell'istruzione superiore italiana [...] in cui 'è permesso tutto ciò che non è vietato', che costituisce l'ottavo principio operativo”.
4. Dalla teoria alla pratica: proposte concrete di destrutturazione
Il gruppo di lavoro non disdegna di mettere in pratica i principi fino ad ora illustrati e propone, soprattutto nel terzo capitolo 'Le principali linee di intervento', delle misure pratiche con cui 'ristrutturare' il sistema formativo.
4.1 I crediti didattici
Come sottolineato dal documento, già una legge del 1990 definiva l'esistenza dei crediti didattici da erogare da parte degli enti universitari nei confronti degli studenti, al superamento di esami oppure allo svolgimento di attività formative. Tuttavia fino al momento di stesura della b.m., l'applicazione della legge risultava piuttosto esigua, per lo più affidata ad iniziative spontanee da parte di singole facoltà, corsi di laurea o addirittura singoli docenti. Il gruppo di lavoro sottolinea l'importanza dell'adozione del sistema dei crediti e ne incoraggia la diffusione, inquadrandolo sia in termini di 'flessibilità' e 'riusabilità' delle attività didattiche sostenute, sia per affiancare alla didattica tradizionale attività formative professionalizzanti, sia per rispondere alle esigenze dell'unione europea di armonizzare i sistemi universitari (9). Il sistema dei crediti risulta particolarmente adatto al modello di autonomia descritto precedentemente, in quanto dota gli atenei di un sistema di quantificazione universale, che però si sostanzia in base a scelte precise dei singoli atenei. In sostanza si stabilisce il numero di crediti necessario a conseguire un titolo di studio, che potrebbe benissimo rappresentare un “minimo requisito comune”, che tuttavia viene ripartito in maniera indipendente dagli organi didattici di ogni università, fino al singolo insegnamento. Secondo il gruppo di lavoro questo faciliterebbe la flessibilità delle scelte dello studente, quindi la mobilità all'interno dell'ateneo o tra diversi atenei (vedi punto 3.2.3) e agevolerebbe la contrattualità (vedi punto 3.1) grazie alla definizione di diverse modalità di accreditamento didattico in base a diverse forme contrattuali. Inoltre il sistema dei crediti permetterebbe l'accreditamento di attività che esulano dalla didattica tradizionale, come tirocini, stages e altre attività formative che permetterebbero allo studente di conseguire crediti utili al conseguimento del proprio titolo di studi. Seppure il principio di attività diverse dalla didattica tradizionale non sia certo disprezzabile, è necessario riflettere sulle implicazioni di una tale misura nel contesto dell'autonomia e della contrattualità: come sarà definito, infatti, il rapporto con gli enti ospitanti di tali attività nell'accordo 'consensuale' tra studente e istituzione? Una mancata regolamentazione centrale della materia implicherà la possibilità, per ogni singolo ateneo, di stabilire convenzioni e accordi (perché no economici) con enti 'ospitanti' in base a principi assolutamente arbitrari, quindi non necessariamente riconducibili alla formazione. Inoltre si noti come l'inglobamento di attività come il tirocinio nei piani di studio (10), auspicato dal gruppo di lavoro, sia di fatto simultaneo alla regolamentazione dello stesso come forma lavorativa a tempo determinato (11). Si sostanzia la possibilità da parte di enti pubblici e privati, di reperire forza lavoro specializzata a condizioni stabilite da un singolo ateneo o da un consiglio di facoltà: basterà una semplice convenzione in base ad accordi senza requisiti stabiliti a priori. Il gruppo di lavoro non specifica di certo la possibilità di 'infiltrazione privata' in questo contesto: “[il sistema dei crediti] può stabilire raccordi interessanti con enti estranei all'Università, quali strutture formative post secondarie (ad esempio Accademie di Belle Arti, Conservatori musicali, Musei, istituti regionali, ecc.) o enti di ricerca, imprese e amministrazioni pubbliche o enti locali che accendano tirocini o stages”, seppur la forma 'imprese e amministrazioni pubbliche' risulti ambigua, è tuttavia evidente che tra le strutture estranee alle università gli enti privati non sono esclusi.
Certo, a monte di tutte la valutazioni sulle potenziali (purtroppo verificate) conseguenze dell'adozione del sistema dei crediti, vi è la messa in discussione del principio stesso di quantificazione aritmetica del sapere, che sposta radicalmente la configurazione dell'università italiana, dei suoi principi, dei suoi obiettivi correlati a quelli dello studentato. Si nota infatti come la priorità del sistema formativo non sia più quella di elargire effettivamente formazione, bensì di strutturare un valido accreditamento delle proprie attività didattiche; più profonda è la mutazione (orchestrata dall'alto) degli obiettivi dello studente, che non si orientano più nel conseguimento della conoscenza, bensì nel conseguimento di crediti. Un'operazione artificiosa e scorretta quella della quantificazione, che ha minato alle fondamenta il sistema universitario con il pretesto di raggiungere degli obiettivi facilmente perseguibili anche con strumenti diversi: basterebbe basare l'università semplicemente sulla formazione, culturale oltre che professionale, affinchè offra alla società, quindi all'individuo ed alla collettività, gli strumenti necessari per progredire da ogni punto di vista (scientifico, umanistico, sociale), e su questa base definire una struttura formativa rigida quanto basta per garantire i principi di universalità e pluralità. Base purtroppo incompatibile con la società attuale (anche in questo si evince l'inadeguatezza) strutturata su mercato, profitto, utilità materiale, flessibilità eccetera.
4.2 Destrutturazione dei corsi di laurea e dei titoli di studio
Il paragrafo “Struttura dell'ordinamento didattico” delinea la proposta del gruppo di lavoro sul nuovo percorso formativo dell'università: “I corsi si diversificano [...] secondo le seguenti possibilità: Corso di Diploma universitario autonomo [...] ; Corso di Laurea, possibilmente con la presenza, all'interno del relativo curricolo, di un traguardo intermedio. Tale traguardo può essere costituito o da un Diploma universitario collocato 'in serie'.”. Vengono quindi definite due diverse proposte didattiche, con conseguente scissione del titolo di studio: si tratta di una tecnica atta ad abbreviare il percorso di studi in modo da rendere più leggero e dinamico l'intero sistema formativo. Anche questo risulta un miglioramento solo presunto, giustificato dalle statistiche che attestano che la gran parte degli studenti che terminano gli studi, non lo fanno nei tempi previsti dall'ordinamento, quindi atto a 'cancellare' il fenomeno anomalo dei fuori corso. In realtà si tratta di fatto di un adattamento alle esigenze del sistema di produzione, che usufruisce dell'arruolamento di una figura intermedia, il diplomato. Questa, altamente ricattabile in funzione delle sue conoscenze parziali e frammentarie, dovrebbe sopperire alla richiesta di mano d'opera specializzata che era in precedenza coperta dai diplomati di scuola superiore in istituti tecnici, ma che in un quadro di regressione delle prospettive occupazionali e dislivello tra le richieste del mercato e l'ampio bacino di potenziali lavoratori (i diplomati), non risulta più sufficiente (in modo del tutto arbitrario) per gran parte degli impieghi. Si tratta dunque di strutturare delle mini-lauree prettamente professionalizzanti, probabilmente ispirate dalla vecchia struttura di scuola superiore delineata da Gentile, che separava i licei, accessibili solo ai figli della borghesia, alle scuole professionalizzanti; citando l'introduzione del documento: “Viene confermata l'importanza del diploma triennale con funzioni prevalentemente professionalizzanti come percorso separato”.
Anche nel contesto del 'riordino' dei corsi di studio, spuntano i fatidici masters: “[..] approfondimenti ulteriori possono svilupparsi, oltre che nel Dottorato finalizzato alla ricerca di base e/o applicata, nella Specializzazione o nel master (o denominazione analoga)..”. Ribadiamo come la metodologia delle certificazioni post-secondarie sia un pretesto per deresponsabilizzare in primo luogo il governo centrale, secondariamente i singoli atenei, rispetto agli obblighi nei confronti della collettività, la quale ha diritto ad un titolo di studio sufficiente a garantire la non ricattabilità del mercato, obiettivo perseguibile solo con un sistema di alta formazione di elevata qualità (in senso assoluto e non relativo a tempi e leggi del sistema di produzione moderno, come sostiene il gruppo di lavoro) e di massa.
5. Conclusioni
Crediamo che si possa evincere come questo documento, sconosciuto ai più e sicuramente passato in secondo piano rispetto alle riforme vere e proprie, in realtà è quello che delinea la reale e progressiva destrutturazione del sistema universitario italiano, parallelamente alla destrutturazione del sistema contrattuale del mondo del lavoro, perseguite entrambe dallo stesso governo di centro-sinistra, perfezionate dal governo di centro-destra, riprese nuovamente dal centro-sinistra e così via. Sostanzialmente il progetto risponde alla precisa volontà continentale e nazionale di adottare il sistema neo-liberista in uso negli stati uniti, con conseguente smantellamento dello stato sociale, sparizione delle garanzie per i lavoratori in virtù della libertà delle imprese, asservimento del sistema formativo alle logiche di mercato, privatizzazione di ampi settori della pubblica amministrazione e così via. Il sistema di istruzione statunitense è un sistema fortemente classista, dove il diritto allo studio lascia spazio a rette universitarie astronomiche per gli istituti di maggior prestigio, distinti da tutta una serie di università-purgatorio di media e bassa qualità, destinate ai ceti medi e bassi (solo parte di questi ultimi, visto che il resto è impossibilitato all'accesso anche a questi istituti) che accedono così a corsi di specializzazione professionale. Questo è solitamente taciuto dai molti intellettuali e politici che esaltano il sistema statunitense, senza negare che sicuramente esso riesce ad esprimere anche (e meno male!) alcune eccellenze. Risulta paradossale però che il sistema italiano, il quale tradizionalmente ha prodotto costantemente delle eccellenze, debba essere così radicalmente mutato. La realtà è che lo sviluppo dei mercati globali e la crescita degli interessi privati, impone al mondo ed ai singoli stati un unico modello generale, che risponda alle esigenze ed di chi controlla gli scambi economici e detiene il potere finanziario: aziende e banche. In ogni nazione i processi di assimilazione di questo processo sono caratterizzati da modalità e tempi specifici, dettati da situazioni di partenza, ma anche da contesti sociali e politici. In Italia la bozza Martinotti è quella che meglio incarna l'impostazione teorica e la pianificazione pratica di questo fenomeno.
NOTE:
1. Il termine 'sistema formativo' è utilizzato nel testo, per comodità, come sinonimo di 'sistema universitario', seppur siamo consapevoli del fatto che l'alta formazione sia solo una parte del sistema formativo.
2. Il “virgolettato corsivo” all'interno di questo documento riporta citazioni della bozza Martinotti
3. Questa denuncia è stata sollevata da numerosi gruppi di studenti all'epoca della pubblicazione del documento, seppur all'epoca fosse meno chiaro di adesso il modello proposto dal ministero. Tali denunce vennero ovviamente considerate eccessivamente pessimiste ed in cattiva fede.
4. Si noti come non viene escluso che il sistema universitario possa diventare privato, o meglio, 'non pubblico'.
5. Molto spesso sono le aziende stesse a promuovere in collaborazione con istituti privati (o peggio ancora pubblici) i masters per poi richiederli tra i requisiti curricolari, innescando un circolo vizioso che tende a sfociale in un 'ricatto legale': per essere assunti bisogna conseguire (quindi pagare) il master dell'azienda stessa.
6. Ampiezza del corpo studentesco; sistema baronale delle docenze; diritto allo studio e servizi carenti eccetera
7. Quanto più i lavoratori sono ricattabili, più sono disposti ad accettare condizioni peggiori, risultando quindi meno gravosi per l'ente che li impiega.
8. Si veda Pacchetto Treu con cui vengono inserite nel sistema contrattuale italiano le prime forme di lavoro interinale.
9. In ambito comunitario era già attivo il sistema dei crediti ETCS.
10. Il punto 3.e del paragrafo 'Struttura dell'ordinamento didattico', capitolo 4, recita: “[i criteri relativi ad ogni corso individuano esclusivamente] l'eventuale obbligatorietà di attività extramurali, in particolare di tirocini e stages, e le regole generali relative a tali attività”.
11. Sempre pacchetto Treu.
Appendice A: la favola della spendibilità dei crediti
Tra i tanti pregi elencati dal GdL nell'adozione del sistema dei crediti, vi è la riutilizzabilità non solo in ambito accademico, ma persino in ambito lavorativo. “L'adozione del sistema dei crediti non è un puro e semplice cambio di etichetta, ma costituisce l'accettazione di un principio estremamente importante che è la riutilizzabilità di tutti gli investimenti formativi innanzitutto nell'ambito del sistema universitario, ma anche, nelle prospettive indicate dal 'patto per il lavorò del settembre 1996, nel quadro della costruzione di un sistema integrato di certificazione delle competenze professionali che riguarda sia l'università, sia gli altri settori del sistema formativo, sia lo stesso mercato del lavoro.” Secondo il documento, infatti, grazie ai crediti didattici si recupererebbero gli investimenti effettuati nell'istruzione universitaria anche in caso di interruzione degli studi prima del conseguimento del titolo, proprio grazie all'accumulazione di crediti didattici, riconoscibili e spendibili come contenuto curricolare. Il paradosso consiste nell'aver svalorizzato il titolo di studio a tal punto da non renderlo sufficiente a certificare una preparazione eccellente, predisponendo un sistema di certificazioni post-universitarie, ed allo stesso tempo sostenere che i crediti accumulati permetteranno a coloro che non terminano gli studi di disporre di un 'capitale formativo' comunque spendibile sul mercato.
Appendice B: l'anno iniziale comune
Tra le tante proposte del documento poi riprese dalle riforme successive vi è quello dell'inserimento, nel nuovo ordinamento didattico, di un anno in comune per più corsi di laurea di una stessa area disciplinare: “Si ravvisa l'opportunità, per evitare una troppo precoce scelta curricolare, di prevedere la possibilità di un anno iniziale. L'anno iniziale può rappresentare un curricolo totalmente, o in larga misura, comune per un'intera area, anche trasversale rispetto alle attuali facoltà”. Questa ipotesi è stata ripresa dal ministro unico Moratti (1) , che prevedeva un percorso di studi detto a 'Y', con un anno iniziale di 'orientamento' seguito da una biforcazione tra percorso professionalizzante e percorso magistrale, ma attuata in parte già dal ministro Zecchino. Successivamente anche il ministro Mussi ha confermato lo schema a Y, nonostante lo stesso gruppo di lavoro del MURST non si sia espresso nettamente sulla questione. Il documento continua, infatti, come segue: “Il Gruppo di Lavoro ha dibattuto a lungo l'opportunità di suggerire l'istituzione di questo anno iniziale. Il Gruppo, tuttavia, pur ravvisando l'opportunità di ipotizzare un periodo teso ad evitare una troppo precoce scelta curricolare, non e' unanime nel considerare il progetto di un anno iniziale, come immediatamente realizzabile in tempi brevi e per tutte le aree e nel ritenerlo coerente con l'obiettivo di riduzione temporale della durata degli studi altrove affermata, ma unanimemente ne suggerisce come auspicabile la sperimentazione ovunque venga ritenuta opportuna.”
Appendice C: Non solo Guido Martinotti, gli autori del documento.
L'onore del nome di questo documento rischia di personificare meriti o demeriti del lavoro commissionato dal ministero nel 1996. In realtà il folto gruppo di lavoro si compone di svariati docenti, amministratori, consulenti e politici, che elenchiamo di seguito e di cui forniamo qualche “curiosità”.
Coordinatore Guido Martinotti, Università di Milano. Hanno partecipato: Gabriele Anzellotti, Università di Trento; Laura Balbo, Università di Ferrara; Luciano Benadusi, Università di Roma "La Sapienza"; Stefano Boffo, Università di Trieste; Biancamaria Bosco Tedeschini Lalli, Università Roma III; Matilde Callari Galli, Università di Bologna; Sergio Lariccia, Università di Roma "La Sapienza"; Ute Lindner, Consulente ISTAT; Giuno Luzzatto, Università di Genova; Andrea Messeri, Università di Siena; Roberto Moscati, Università di Trieste; Antonio Rodinò Di Miglione, Consigliere Senato della Repubblica; Romilda Rizzo, Università di Catania; Vito Svelto, Università di Pavia; Nicola Tranfaglia, Università di Torino; Rodolfo Zich, Politecnico di Torino.
Escludendo l'esponente ISTAT, si tratta di esponenti politici o docenti che ruotano intorno allo schieramento di centro sinistra del nostro parlamento, (il gruppo è stato nominato da un governo di centro-sinistra) il ché dimostra il trasversalismo politico che da decenni nel nostro paese contribuisce al disegno antipopolare e liberista spinto da venti comunitari e oltre-oceanici, che sospinge entrambi gli schieramenti. Citiamo in particolare Laura Balbo, che è stata Ministro delle Pari Opportunità dal 1998 al 2000, governo D'Alema, e Nicola Tranfaglia, fino al 2004 iscritto ai Democratici di Sinistra, dal 2004 Partito dei Comunisti Italiani, eletto deputato nel 2006, nel 2008 è candidato della Sinistra Arcobaleno, nell'aprile 2009 annuncia la candidatura alle elezioni europee nelle file de Italia dei Valori. Inoltre, in occasione del movimento No-133 (ottobre 2008) contro i tagli della finanziaria alle università, molti di questi docenti si sono schierati a favore della mobilitazione: in particolare è presente e facilmente rintracciabile in rete (almeno al momento della stesura di questo documento) un video del prof. Luciano Benadusi, che ha ricoperto anche la carica di preside della facoltà di sociologia, in cui si attacca la “nefasta politica del governo” riferendosi a quello attualmente in carica. A dire il vero, il prof. Benadusi non risparmia neanche i governi precedenti: “[..] Sappiamo che l'opera di soffocamento dell'università è una linea che si porta avanti ormai da anni, da parte di diversi governi..”. Sarà una sorta di ammissione di colpa?
Note Appendici:
1. Per l'occasione il secondo governo Berlusconi unificò ministero dell'istruzione e ministero dell'università, nominando Letizia Moratti ministro unico dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Vedi Riforma Moratti








