Primo congresso

DOCUMENTO INTERNAZIONALE

La situazione mondiale è dominata dalla crisi del sistema capitalistico.
Le contraddizioni politiche ed economiche persistono al di là della volontà della grande borghesia capitalistica e delle grandi potenze imperialiste di controllarle.
Il crollo del sistema stalinista nell’URSS non ha provocato “la fine della storia” né la nascita di un “nuovo ordine mondiale”. Nelle strade delle città e nei deserti dell’Irak i soldati della principale potenza mondiale stanno provando quale è l’ “ordine” che l’imperialismo è riuscito a creare.
Nel contempo i marxisti non potrebbero accontentarsi di questa definizione di quadro per determinare la loro analisi della situazione globale.

CRISI CAPITALISTICA E PROSPETTIVE RIVOLUZIONARIE

I teorici del marxismo, in particolare Lenin e Trotsky, ci hanno insegnato a valutare con esattezza le caratteristiche di ogni situazione concreta, anche a livello internazionale, al di là di ogni semplificazione, ricordando che il capitalismo è per sua natura un sistema “anarchico”, in certa misura sempre scosso da contraddizioni, ma con grande capacità di recupero.
Come affermava Trotsky nella sua "Relazione sulla crisi economica mondiale e sui nuovi compiti dell'Internazionale Comunista" al terzo congresso dell’Internazionale Comunista (giugno 1921): "L'equilibrio capitalistico è un fenomeno estremamente complesso. Il capitalismo produce questo equilibrio, lo spezza, lo ristabilisce per spezzarlo di nuovo, estendendo contemporaneamente l'ambito della sua dominazione. Nella sfera economica queste continue rotture e questi continui ristabilimenti dell'equilibrio assumono la forma di crisi e di boom. Nella sfera dei rapporti tra stati la rottura dell'equilibrio significa guerre; in forma più moderata guerre doganali , guerre economiche o blocchi. Così il capitalismo è caratterizzato da un equilibrio dinamico, un equilibrio che è sempre in fase di rottura o in fase di ristabilimento. Ma contemporaneamente questo equilibrio possiede una grande capacità di resistenza: la prova migliore consiste nel fatto che sino ad oggi il mondo capitalista non è stato rovesciato"
Si tratta quindi di analizzare con attenzione le fasi di sviluppo della crisi capitalistica.

Dopo la seconda guerra mondiale, contrariamente alle previsioni della quasi totalità degli economisti, di ogni tendenza politica, ma, per quanto ci riguarda, anche marxisti, si aprì, in luogo di un periodi di instabilità generale e di sostanziale stagnazione, come quello vissuto dal mondo nel periodo tra le due guerre mondiali, una fase di crescita senza precedenti del capitalismo mondiale. Furono i cosiddetti “tre decenni gloriosi” del capitalismo. tra il 1945 e il 1974.
Va aggiunto, a scanso di equivoci, che nessuno delle caratteristiche fondamentali del capitalismo, in particolare la legge del valore e quindi lo sfruttamento del proletariato e la realtà di guerra (basti pensare all’Algeria o al Vietnam) e oppressione imperialista sui paesi dipendenti venne minimamente modificata. E inoltre, per introdurre concretamente il rapporto tra crisi economica e processi rivoluzionari (su cui torneremo) va ricordato che proprio al culmine del boom postbellico (nel 1968-69) si aprì su scala mondiale una fase di ascesa proletaria, con caratteristiche generali prerivoluzionarie, e in alcuni paesi rivoluzionarie, che dall’Europa all’Asia, dall’America Latina all’Africa scosse il dominio politico del capitale.

Le contraddizioni della fase precedente e la riduzione delle possibilità di investimenti di capitale in termini redditizi, legati a quella che Marx definisce “la legge fondamentale del capitalismo”, cioè “la caduta tendenziale del saggio di profitto” hanno provocato , a metà degli anni ’70 una crisi recessiva internazionale (‘74-75) che ha aperto una fase di tendenziale stagnazione dell’economia a livello mondiale.
Nel suo importante scritto “Il terzo periodo di errori dell’Internazionale Comunista” (1930) in cui affronta centralmente la questione del rapporto tra crisi e radicalizzazione delle masse, polemizzando contro le semplificazioni “radicali”, Trotsky afferma: " E' falso che una crisi, sempre e in qualsiasi situazione, radicalizzi le masse…E' falso che la radicalizzazione della classe operaia corrisponda immancabilmente ad un periodo di declino del capitalismo" Nel contempo aggiunge: "Due o tre anni di lotta, persino un anno di lotta economica ampia e vittoriosa , trasfigurerebbero il proletariato. E dopo una corretta utilizzazione dello slancio economico, la crisi di congiuntura può dare un serio impulso a una reale radicalizzazione delle masse"

Ed effettivamente questo quadro di sviluppo e approfondimento era plausibile in diversi paesi e anzi cominciò a manifestarsi. Fu il ruolo controrivoluzionario delle direzioni del movimento di massa, socialdemocratiche, staliniste, nazionaliste borghesi o piccolo-borghesi a determinare la sconfitta del proletariato. In alcune situazioni centrali come in Uruguay e Cile tale sconfitta, dovuta in primo luogo ai Partiti Comunisti stalinisti, fu precedente alla fase di cui stiamo parlando. In altri, come l’Argentina fu esattamente all’inizio della nuova fase che il criminale ruolo del peronismo portò alla vittoria della reazione militare con la sanguinaria dittatura di Videla.
Ma l’esempio migliore di quanto stiamo indicando è data proprio dall’esperienza italiana . Qui il lungo periodo aperto dal 1968 era culminato nel 1969-71 in una situazione a carattere prerivoluzionario. Era poi seguito, pur in quadro di perdurante radicalità un momento più stabile (1972-73). Ma nel 1974-76 si ebbe una nuova fase di impetuosa ascesa di massa, che pose in questione gli equilibri di dominio della borghesia. La questione del potere era oggettivamente posta sul terreno. E di fronte allo sviluppo della crisi il proletariato, forte, malgrado il ruolo di “pompieraggio” delle direzioni politiche e sindacali, di importanti successi rivendicativi, la rilanciava sulla borghesia capitalistica. Lo strumento con cui la forza del proletariato fu piegata fu il “compromesso storico”. Cioè lo strumento con cui la burocrazia stalinista del PCI (Berlinguer e Cossutta in particolare ebbero un ruolo centrale nell’elaborazione del concetto) cercò di risolvere il suo storico appetito di reingresso nel governo della borghesia italiana, che la sua collocazione internazionale rendeva impossibile o molto difficile fin dal 1947.
Benchè l’inserimento del PCI nel governo fosse solo parziale e si bloccasse poi una volta svolto dalla burocrazia il “lavoro sporco” per conto della borghesia, la sua politica fu essenziale per sconfiggere l’ascesa proletaria.
La politica dei “sacrifici” artatamente esaltata come primo passo perché la classe operaia si “facesse stato”, la conseguente “moderazione” (in realtà svendita ) salariale e contrattuale furono inizialmente accettati da una classe non ancora coscientemente rivoluzionaria e preda, in maggioranza, di una ingenua fiducia nel gruppo dirigente del PCI. Rapidamente ciò portò ad un capovolgimento della fase, ad una demoralizzazione e arretramento della classe.

In forme diverse e non senza contraddizioni fenomeni analoghi si ebbero in molti paesi. Lo sviluppo della crisi capitalistica, in questo quadro, lungi dal rafforzare in maniera generalizzata l’azione del proletariato fu un elemento di freno rispetto ad esso, colpito, senza strumenti di coscienza ed organizzazione adeguati, da fenomeni come la ristrutturazione industriale, la disoccupazione di massa, le delocalizzazioni, le esternalizzazioni.
Ancora una volta il brillante metodo marxista di Trotsky ( che è quello della maggioranza di Lenin- Trotsky al congresso del 1921 contro le semplificazioni dei settori "ultrasinistri" dell'Internazionale Comunista) ci viene in aiuto nel mostrare la logica di quanto accaduto. Sempre nel suo testo "Il terzo periodo di errori dell'Interrnazionale Comunista" egli afferma: "…l'aumento dello sfruttamento non comporta in ogni circostanza una maggiore combattività del proletariato. Così, in una congiuntura decrescente, in un periodo di sviluppo della disoccupazione, soprattutto dopo aver perso delle battaglie, l'aumento dello sfruttamento provoca non la radicalizzazione delle masse ma, al contrario, l'abbattimento, lo sbandamento, la disgregazione."
Questo spiega quindi la mancata reazione di massa proletaria allo sviluppo della congiuntura di crisi capitalistica e alla netta intensificazione dello sfruttamento e dell’attacco alle conquiste operaie che essa ha comportato.

Ciò non vuol dire che anche in questa fase non vi siano stati momenti di lotta radicale da parte del proletariato, almeno in alcuni paesi. Così è avvenuto in Francia con alcune lotte di minatori e siderurgici contro piani di massiccia ristrutturazione di quei settori da parte del governo della sinistra plurale (Presidenza Mitterand). Così in Danimarca nel 1984 con uno sciopero generale che portò centomila lavoratori a circondare il parlamento. Così in Italia nel 1983 con un vasto movimento spontaneo che portò ad uno sciopero generale contro misure di attacco a diritti acquisti (il pagamento della malattia dal primo giorno) messi in questione da un governo diretto dal democristiano Fanfani. Ma queste lotte furono sconfitte (in Italia grazie al ruolo delle burocrazie; -Politica Operaia, il giornale dell'allora Lega Operaia Rivoluzionaria, titolò "Una grande lotta tradita dalle direzioni di PCI e CGIL" attirandosi le critiche di un ancor relativamente giovane Turigliatto), non sedimentarono coscienza né memoria di massa, e quindi non invertirono, neanche in quegli stati, il generale corso negativo.
Nel contempo le burocrazie staliniste dominanti dell'URSS e degli stati operai deformati iniziarono il processo di restaurazione del capitalismo ( nei modi e nei tempi differenziati che hanno contraddistinto rispettivamente la burocrazia russa e quella cinese). Questi processi e in particolare il tracollo dell'URSS costituirono degli ulteriori gravo colpi al proletariato mondiale, sia sul terreno della forza strutturale delle conquiste acquisite, sia su quello dei livelli di coscienza.

Il processo di crisi capitalistica prolungato sembrava destinato a sfociare in una crisi maggiore, stile 1929-33. E il momento è sembrato giungere con il crollo borsistico di Wall Strett dell'ottobre 1987, superiore in percentuale a quello dell'ottobre 1929.
Ma appunto quello che già la terza internazionale individuava con una chiarezza marxista innegabile, visto che parlava subito dopo la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa e il "biennio rosso", cioè la grande capacità del capitalismo di ristabilire il suo equilibrio, si è realizzato.
L'Economist, questo punto di riferimento per l'analisi politica e economica del capitalismo, così iniziava il suo editoriale delll'11 giugno 1988, non a caso intitolato "Il miracolo economico del 1988": ""Il tracollo azionario dell'ottobre scorso avrebbe potuto travolgere le economie. Finora, miracolosamente, ciò non è avvenuto. Allora anche le previsioni più rosee parlavano di un rallentamento della crescita; le più nere diedero per scontata la depressione". Ciò invece non si verificò, l'economia continuò a crescere per alcuni anni e poi si ebbe una recessione, di portata limitata, nel 1991-92.

Dalla fine di essa la crescita economica ha conosciuto una impennata a positivo (con la breve eccezione della fase recessiva del 200-2001), con un raddoppio del PIL complessivo mondiale, ponendo fine al periodo di semistagnazione del 1974-92.
Quale sono state le cause di questa inversione di rotta?
Naturalmente ve ne sono molteplici. E come sempre è difficili per tutti gli analisti, anche quelli marxisti, individuarle compiutamente. Ma c'è un elemento certamente centrale. E questo è la restaurazione del capitalismo negli ex stati operai burocratizzati e in particolare in Cina.
Per lungo tempo (e ancora oggi per molti) i marxisti rivoluzionari hanno considerato in maniera prioritaria la situazione nell’ex URSS. In un certo senso era logico. Era il primo stato operaio, la culla della spinta propulsiva nel mondo del secolo scorso, la "superpotenza" contrapposta agli USA. Quello che appariva era la difficoltà del processo di restaurazione in Russia, non dal punto della sua rapidità (le privatizzazioni selvagge della metà degli anni '90, sotto Eltsin, hanno concluso tale processo) ma dal punto di vista dell'importanza rispetto alla possibilità di riequilibrio per il capitalismo mondiale. E certamente gli investimenti di capitale in Russia, almeno fino agli ultimi anni, sono stati relativamente modesti. Sembrava che il concetto proprio, giustamente, dei marxisti rivoluzionari nel primo periodo della crisi secondo cui "Il capitalismo potrebbe ritrovare un equilibrio e una espansione solo attraverso una riappropriazione dei mercati dell'URSS e degli altri stati operai deformati, in particolare nell'Europa dell'est" non riuscisse a realizzarsi compiutamente e questo fosse uno degli elementi del permanere della crisi. In realtà esattamente quel riequilibrio si realizzava, ma su un altro scenario, appunto quello Cinese (e a un livello minore, ma importante del Vietnam e della maggioranza degli stati dell'Europa centro-orientale).

La Cina si e trasformata in un volano per gli investimenti stranieri e in questo senso per il contenimento della crisi di sovrapproduzione del capitalismo mondiale. Il tasso di crescita dell'economia cinese è stato negli ultimi 15 anni costantemente vicino al 10 per cento annuo (superando i tassi di crescita dei paesi imperialisti all'epoca del boom postbellico); la Cina è diventata il più grande creditore degli Stati Uniti, e si è creato un mercato interno totalmente nuovo in enorme espansione che coinvolge circa 150 o 200 milioni di persona, una minoranza in Cina di circa il 15% della popolazione (la nuova grande e piccola borghesia) ma enorme nella sua entità numerica.
In questo senso possiamo affermare che la natura controrivoluzionaria dello stalinismo si è affermata non solo nel suo dominio totalitario antioperaio, non solo nella restaurazione del capitalismo, ma anche nell'essere stato lo strumento di riequilibrio del capitalismo mondiale, che appunto si è salvato recuperando per i suoi investimenti e anche per le sue merci i mercati degli ex stati operai degenerati/deformati.

Di fronte all'ascesa economica del capitalismo mondiale negli ultimi 15 anni è ovvio che si ponga la domanda sul fatto se abbia senso continuare a parlare di crisi del capitalismo mondiale.
La risposta è si. Ha pienamente senso continuare a parlare di crisi del capitalismo mondiale .
Per dei marxisti non esistono degli schemi belli e fatti. Discesa o stagnazione del PIL mondiale = crisi. Ascesa del PIL= Stabilità e assenza di crisi.
Certo l'aumento o meno della produzione e del PIL è elemento centrale nella valutazione della situazione complessiva. Tuttavia esso va correlato ad altri elementi che, coordinati dialetticamente tra loro, portano ad una valutazione complessiva del quadro economico-sociale complessivo.
Possiamo indicare in forma riassuntiva alcuni degli elementi contraddittori che caratterizzano a negativo il quadro mondiale.

Lo sviluppo di capitali fittizi, privi cioè di un rapporto a mezzi di produzione e beni reali ha raggiunto livelli esponenziali e costituisce un elemento di grave perturbazione dell'economia mondiale.

Le ricorrenti crisi borsistiche tra cui quella che sta sviluppandosi oggi sono un esempio di tale situazione di instabilità. Anche se va aggiunto che le successive crisi borsistiche internazionali hanno avuto anche il risultato, fino ad oggi, non di preparare una crisi maggiore, ma piuttosto di ridurne il rischio. Se la bolla speculativa non fosse esplosa nel 2000 il rischio di una crisi maggiore sarebbe stato molto più ampio. Mentre controllata tale esplosione, lo stesso sistema borsistico, anche grazie allo sviluppo dell'economia reale, ha potuto ricrescere (oggi infatti Wall Street è a livelli molto superiori a quelli precedenti all'esplosione della bolla).

L'indebitamento della economia più importante del mondo, gli Stati uniti, è a livelli eccezionali. All'epoca del boom postbellico l'economia statunitense, dominante grazie anche al ruolo svolto nella guerra mondiale, era il volano della ripresa e dello sviluppo mondiale, nel contempo la sua locomotiva e suo il grande finanziatore. Senza che venissero mai meno le contraddizioni fondamentali del capitalismo, vi era una razionalità. Il paese economicamente più sviluppato era al contempo un grande creditore. Oggi il ruolo è rovesciato Gli Stati Uniti hanno un debito enorme e che per di più cresce in maniera esponenziale passando negli ultimi 10 anni da 140 (1997) a 856 miliardi di dollari (2006). Fino ad oggi questo è stato un elemento di contenimento della crisi perchè significa che gli Stati uniti consumano capitali e beni in eccedenza garantendo in parte lo sviluppo economico di altri paesi del mondo. Ma questa crescita non può essere senza limiti e prima o poi come per ogni debitore può giungere la necessità o di saldare i debiti o di fare bancarotta. Con effetti devastanti per l’economia non solo degli Stati Uniti ma di tutto il mondo.
Il principale creditore degli USA, con una modifica della situazione mondiale inconcepibile 20 anni fa , è la Cina, che possiede circa 900 miliardi di dollari in buoni del tesoro americani. La liquidazione di tale “grande tesoro” da parte dei cinesi, con la vendita di tali buoni sul mercato internazionale (ipotesi che molti hanno definito “la bomba ad orologeria” dell’economia mondiale) porterebbe ad una catastrofe per gli USA. Ma al momento non esistono indizi di una scelta di tal genere che rappresenterebbe un grave rischio anche per l’economia cinese.

Lo sviluppo economico di questa fase è basato sull’attacco costante e necessario alle conquiste del proletariato e su un supersfruttamento di esso. Nelle precedenti fasi di lunga ascesa capitalistica e boom prolungato (la cosiddetta “bella epoque” a cavallo tra ‘800 e ‘900 e il trentennio 1945-’75) il processo di sviluppo implicava delle concessioni riformistiche anche nei confronti del proletariato. Naturalmente non si è mai trattato di “gentili regali” ma di conquiste ottenute con le lotte o con la paura da parte dei capitalisti di sviluppi rivoluzionari (anche in riferimento da un certo momento in poi all’esistenza di paesi uscita dal controllo capitalistico che mostravano, malgrado tutte le loro deformazioni , la possibilità di una alternativa al sistema capitalistico). In questo senso la concezioni di Lenin “le riforme progressive sono il sottoprodotto della lotta di classe rivoluzionaria” è pienamente valida (si pensi al sussidio di disoccupazione a tempo indeterminato ottenuto in Germania nel 1919, quindi anche in un epoca non di sviluppo sostenuto) . Tuttavia margini riformisti, ampi, esistevano oggettivamente in tali periodi di ascesa. Di più, dallo stesso punto di vista dell’accumulazione capitalistica lo sviluppo salariale del proletariato si tramutava, entro certi limiti, in un elemento positivo dello sviluppo. Per chiarire: che il proletariato dei paesi imperialisti sia diventato negli anni ’50 e ’60 da semplice produttore anche consumatore di beni durevoli (automobile, televisione, frigorifero, lavatrice, etc) è stato uno degli elementi importanti del boom di quella fase.

Oggi, invece una caratteristica oggettiva ineliminabile per il capitalismo è l’aumento costante del tasso di sfruttamento, con attacco al salario nelle sue tre forme: diretto, indiretto (“welfare state”) e di quiescenza (pensioni) in tutto il mondo ; con l’attacco mondiale a conquiste proprie da molti decenni, se non da un secolo, della classe operaia, come lo sviluppo senza precedenti della flessibilità selvaggia e relativa precarietà di massa; con un’intensificazione massiccia dei livelli di produttività. Questa raggiunge livelli inconcepibili negli ex stati operai burocraticamente deformati, e in particolare in Cina, dove grazie, al regime totalitario dello stalinismo restaurazionista, il nuovo proletariato si trova a lavorare e vivere in condizioni peggiori di quelle del proletariato dell’epoca della “rivoluzione industriale”. La lotta del capitale per ricuperare i tassi di profitto, di fronte al pieno dispiegarsi della già ricordata legge della “ caduta tendenziale del saggio di profitto” rende questo processo mondiale, costante e irrinunciabile. Benchè anche oggi il proletariato sia un importante consumatore di beni durevoli di nuova generazione (computer, cellulari, etc) questa è la realtà. I margini riformistici si chiudono. C’è da un lato un arricchimento della borghesia, sia la grande borghesia capitalistica sia vasti settori di piccola borghesia, in particolare urbana, ma nei paesi imperialisti anche rurale (grazie ai sussidi statali), e c'è un impoverimento del proletariato e del semiproletariato e di strati proletarizzati (o sottoproletarizzati) di piccola borghesia, in particolare per lo spostamento dalle campagne alle città nei paesi dipendenti. Nessuna ipotesi keynesiana potrebbe cambiare tale realtà oggettiva che implica l’impossibilità per il capitale di ogni politica redistributiva. Il “neoliberalismo” è la copertura ideologica di questa situazione oggettiva e non la sua causa. E ciò è tanto vero che un governo come quello di Chavez in Venezuela che non attua nemmeno come i governi “progressisti” dell’epoca del dopoguerra una politica redistributiva ma si limita ad usare i super proventi del petrolio per non peggiorare le disuguaglianze sociali( e ancora.., dal 1998 al 2005 il reddito del 20% più ricco è passato dal 50,2% del totale al 52,5%,; mentre quello del 20% più povero dal 4,7% al… 3,7%) appare a molti nella sinistra come “radicale” se non rivoluzionario.

Non costituisce invece elemento di novità l’espansione della spesa bellica. Questo elemento e le guerre che ne conseguono sono stati propri di tutto il periodo che parte dalla seconda guerra mondiale, incluso il boom postbellico di cui furono una delle componenti “favorevoli” (si pensi alla guerra del Vietnam). Il keynesismo reale si è sempre manifestato in questo modo.

Sintetizzando, l’attuale periodo di sviluppo capitalistico è caratterizzato da contraddizioni più acute che in ogni altra fase precedente analoga e da un necessario attacco alle conquiste dei lavoratori e si basa su un supersfruttamento della classe operaia, in particolare negli ex stati operai e nei paesi dipendenti.

In questo quadro si inserisce anche la crisi ambientale a livello mondiale.
Ogni società divisa in classi, come ci veniva ricordato già da Marx e Engels, ha un rapporto di sfruttamento della natura che tende, in nome dei massimi risultati immediati , ad essere distruttivo di un corretto equilibrio ecologico. Questo è stato sempre vero in particolare per il capitalismo. Ma oggi gli sviluppi tccnologici , al contempo grandiosi e limitati, utilizzati in funzione della massimizzazione dei profitti tendono a rendere potenzialmente catastrofica l’evoluzione del quadro ambientale a livello planetario. Un terreno questo su cui dovrà essere compito nella prossima fase sia del nostro partito che dell’organizzazione internazionale (CRQI) cui formalizzeremo la nostra adesione in questo congresso sviluppare un più approfondito dibattito sia di analisi della situazione concreta sia di programma politico.
Rientra in tale ambito lo sfruttamento delle fonti energetiche principali, (petrolio, gas) ma anche acqua (fonte di energia, di vita economico-sociale in generale e bisogno primario). Su tale terreno la competizione tra interessi diversi delle varie potenze capitalistiche, non solo imperialiste , ma anche ex stati operai degenerati/deformati, si sta acutizzando. Come ovvio il controllo delle fonti energetiche è stato uno dei fattori principali (anche se non l’unico) delle guerre dell’ultima fase e anche (ad es. nell’Africa) di conflitti “per interposta persona” (guerre civili locali sponsorizzate da potenze imperialiste in lotta ) e le contraddizioni su tale terreno e sul controllo dell’acqua tenderanno ad acutizzarsi sempre di più , costituendo un ulteriore elemento di instabilità del quadro mondiale.

Le contraddizioni dell’attuale situazione mondiale sboccheranno in una crisi maggiore, del tipo di quella del 1929?
Il marxismo permette di analizzare le situazioni concrete, di vederne le dinamiche e gli sviluppi potenziali, non di conoscerne la realizzazione concreta in termini di tempi e modalità. Se ce ne fosse bisogno la storia di più di un secolo e mezzo di movimento comunista marxista ci conferma questo concetto. Ogni volta che i grandi del marxismo si sono avventurati (senza pretendere la certezza, è vero) ad esprimere valutazioni precise sul futuro la storia concreta ha dimostrato di essere più complessa.
Ciò detto è chiaro che questa possibilità (non certezza) esiste.
L’attuale “crisi dei mutui americani” può quindi rappresentarne il detonatore? Appare improbabile.
Ma quello che è più importante non è l’elemento previsionale. Il marxismo rivoluzionario non è una semplice teoria di analisi economica, è una complessiva teoria politica scientifica rivoluzionaria, finalizzata “all’abbattimento della società borghese e delle istituzioni statali da essa create” (Engels, orazione funebre per Marx).In questo senso ciò che è importante analizzare è il rapporto tra l’attuale situazione economico sociale, la sua evoluzione, concreta e potenziale e la lotta di classe.

Abbiamo già visto come il marxismo rivoluzionario “ortodosso” affronta in maniera dialettica il rapporto tra crisi e ascesa di massa. Si tratta di rapportare tale metodo alla situazione attuale.
Il proletariato ha subito certamente nella fase precedente grandi sconfitte. La sua forza strutturale, come organizzazione e composizione, nei centri di forza della fase precedente, è stata duramente colpita. Ma il proletariato non solo non si e ridotto, ma anzi è aumentato ad un livello quantitativo e anche percentuale senza precedenti. Non solo il proletariato in generale (inclusi settori di ex ceti medi sempre più proletarizzati, come gli insegnanti) ma la stessa classe operaia industriale. Infatti se essa si è ridotta, anche se non in termini drastici, nei vecchi paesi imperialisti, si è mantenuta in termini sostanzialmente invariati nell’ex URSS e Europa centro-orientale ed è grandemente aumentata in Cina, Indocina, India e la maggioranza degli altri paesi del cosiddetto “terzo mondo”.
Le teorie sulla “fine della classe operaia”, la “società postindustriale”,etc non sono che delle immani stupidaggini, spesso in mala fede, che fanno parte dell’armamentario antiproletario e antirivoluzionario del capitalismo, sia, come e ovvio, quando vengono da destra, dagli ideologi reazionari o “progressisti” della borghesia , sia quanto vengano da “sinistra” , come in Italia da Toni Negri o analoghi sostenitori delle “moltitudini” che in realtà hanno una matrice sociale piccolo borghese.
Queste teorie sono state coscientemente usate dalla borghesia e dai suoi agenti politici e sindacali nel movimento operaio per colpire i livelli di coscienza della classe operaia e favorire l’offensiva contro di esso.

Come detto il proletariato ha risentito pesantemente della controffensiva capitalistica e della crisi economica, nonché negli ex stati operai della realtà della restaurazione politica (e in Cina della sconfitta del movimento antiburocratico del 1979).
A partire dalla metà degli anni '90 ci sono stati movimenti importanti che hanno riproposto un'iniziativa della classe operaia Dalla Corea nel '94 all'Italia nello steso anno (lotta contro il progetto di riforma pensionistica del governo Berlusconi) alla Francia di fine '95. Questi movimenti hanno anche ottenuti dei successi parziali, ma non hanno potuto e saputo, nelle condizioni date, aprire una duratura inversione di tendenza, né sul piano globale, né nei propri paesi. Nella fase successiva noi abbiamo assistito anche ad importanti movimenti di radicalizzazione delle masse, ma in cui in generale il proletariato industriale non ha avuto il ruolo centrale. Il grande movimento contro la "globalizzazione neoliberista" è stato fondamentalmente quello di una gioventù precarizzata, disoccupata o semioccupata, che appunto si ribellava contro le conseguenze più evidenti, specie nei paesi imperialisti della presente crisi capitalista coll'illusione per la maggior parte di loro (illusione intrattenuta dalle loro direzioni) di poter abbattere il "neoliberalisnmo" senza abbattere il capitalismo. Nella stessa America Latina che ha visto lo sviluppo delle situazioni di maggiore radicalizzazione, la difficoltà (con l'importante eccezione della Bolivia) della classe operaia a prendere le a direzione del movimento di massa ha limitato gli sviluppi rivoluzionari (così è accaduto in particolare nell'ascesa rivoluzionaria argentina del 2001-2002, dove il proletariato industriale non ha saputo prendere la fiaccola che gli porgevano i disoccupati e anche settori della piccola borghesia).

Tuttavia, quali che siano i tempi precisi, la tendenza è quella ad una ripresa di ruolo centrale della classe operaia industriale. Anche avvenimenti recenti, come in Cile, sono sintomi di questa realtà. Il soggetto rivoluzionario storico è e resta, per le relazioni sociali del capitalismo, la classe operaia industriale. Nessuna generica "moltitudine" potrà mai sostituirlo. Già in altre epoche il suo ruolo è stato messo in questione all'interno della sinistra. A metà degli anni '60 due figure diverse come il rivoluzionario Che Guevara in America Latina e il teorico riformista di sinistra Andrè Gorz in Francia parlavano di imborghesimento e perdita della centralità da parte della classe operaia industriale. Il primo guardava ai contadini e al "foco guerrigliero", il secondo ai tecnici e a una versione di controllo dei lavoratori sulla aziende in forma intermedia tra il conflitto e la collaborazione di classe (e sarà una concezione con cui civetterà per un momento anche Ernest Mandel) . La realtà della grande ascesa operaia del '68-69 dalla Francia all'Argentina, dall'Italia al Cile, spazzerà via queste concezioni, che però, in forme diverse , tendono costantemente a riprodursi in settori della sinistra, priva di teoria marxista e impressionati dalle debolezze, alcune reali, altri apparenti, della classe operaia industriale, anche per lunghi periodi.

Nel contempo è importante sottolineare un fenomeno contraddittorio. La crisi di direzione del proletariato che si è espressa con la dissoluzione o il ridimensionamento dei vecchi partiti operai, e in particolare dello stalinismo (l’esempio più clamoroso è quello del PCI italiano), se è stata un portato della fase di arretramento politico del proletariato, ha, però, una valenza contraddittoria. Infatti il vecchio rapporto di fiducia, a volte fideistico, con le direzioni tradizionali, ha lasciato il posto, anche tra chi continua a seguirle, ad un senso di dubbio e sfiducia, che se ha un aspetto negativo, ne ha anche uno positivo, nella misura in cui rende la base di massa delle direzioni tradizionali effettivamente o potenzialmente più ricettiva alle posizioni alternative dei marxisti rivoluzionari.

Se questo è il quadro generale di riflessione, quale rapporto dunque tra esso e il possibile precipitare di una crisi capitalistica di tipo depressivo?
Abbiamo precedentemente chiarito il concetto. La posizione secondo cui lo sviluppo di una crisi globale devastante porterebbe necessariamente ad una reazione radicale o rivoluzionaria del proletariato non ha niente a che vedere con la teoria marxista conseguente. Certamente una crisi maggiore del capitalismo lo indebolirebbe ideologicamente, mostrandone ulteriormente i limiti. D'altro canto in una prima fase una crisi maggiore potrebbe avere su un proletariato la cui ripresa è ancora fragile e debole gli effetti demoralizzanti che già Trotsky, come abbiamo visto, ricordava.
Il problema quindi, per i marxisti rivoluzionari, non è quello di puntare sulla crisi generale, dichiararla inevitabile e imminente, ma quello di analizzare l’evoluzione concreta della situazione, l’evolversi della coscienza delle masse proletarie, la loro capacità di risalire la china delle sconfitte passate di fronte alle contraddizioni, anche solo o prevalentemente sul terreno sovrastrutturale, del nemico di classe.

L’offensiva del capitalismo nei decenni scorsi è stata, infatti, globalmente vittoriosa, ma ha lasciato enormi contraddizioni. Fascine infiammabili abbandonato lungo la via che possono, in condizioni favorevoli prendere fuoco. E’ la storia delle esplosioni principali di lotta operaia negli ultimi decenni. Improvvise, radicali, ma dato il quadro del periodo, destinate ad esaurirsi rapidamente . A meno che una avanguardia rivoluzionaria sufficientemente forte non sappia dare, nel quadro della lotta, coscienza della posta in gioco e prospettive.
I partiti rivoluzionari non creano le radicalizzazioni e le esplosioni rivoluzionarie (i marxisti rivoluzionari russi, Lenin e Trotsky inclusi, furono sorpresi, sia nel gennaio del 1905 che nel febbraio del ‘17 dallo scoppio della rivoluzione). Ma possono e debbono utilizzarle al meglio dal punto di vista della prospettiva anticapitalistica. Rifuggendo da ogni schematismo, di tipo catastrofista certo, ma anche di segno diverso . Per esempio è proprio Trotsky che di fronte ad altre ipotesi schematiche, sul rapporto tra ripresa delle lotte economiche vittoriose come necessaria premessa di ogni radicalizzazione politica di massa (concetto oggi ben presente in Italia con molti che eternalizzano lo schema degli anni 68 e seguenti ) afferma : “In certi periodi la massa può essere assorbita dalla lotta economica e manifestare pochissimo interesse per le questioni politiche. Al contrario, dopo aver subito parecchie sconfitte importanti sul terreno della lotta economica, la massa può improvvisamente risolvere l’attenzione al campo politico”
In questo senso l’analisi e la proposta politica qui avanzata è lungi dall’essere “pessimista”. O se vogliamo combina, nella migliore tradizione marxista “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”. Intendendo con volontà non il puro desiderio di una avanguardia rivoluzionaria , ma la comprensione da parte di questa delle potenzialità esistenti e della necessità dell’intervento cosciente, come partito marxista rivoluzionario, per sfruttarle al massimo, appunto con un proprio ruolo soggettivo volontario.

Riassumendo. La ripresa economica del capitalismo mondiale per le modalità con cui si è sviluppata non ha eliminato la crisi sociale ed economica in cui oggi vive il mondo. La classe operaia ha subito importanti sconfitto negli ultimi decenni, ma esiste una tendenza, ancora iniziale, ad una ripresa del suo ruolo antagonista. Le contraddizioni economiche del capitalismo tendono ad una crisi maggiore che però non è certa. I marxisti rivoluzionari non devono puntare le proprie speranze su tale crisi, sulla base dello schema, estraneo al marxismo e storicamente combattuto da Trotsky – e da Lenin- secondo cui la crisi capitalistica provoca una reazione di radicalizzazione da parte del proletariato. Le potenziali di ripresa e in particolare di esplosioni radicali dello scontro di classe sono date, oltre che dall’ovvio permanere degli antagonismi sociali propri del modo di produzione capitalistico, dalle particolari e acute contraddizioni create della presente situazioni del capitalismo. In questo quadro i marxisti rivoluzionari devono valutare con attenzione, su scala mondiale dei vari continenti, di regioni omogenee di essi e in ogni singolo paese , lo stato del dominio capitalistico, della coscienza di massa , delle contraddizioni , a positivo e negativo, sul terreno economico, sociale e politico, della situazione. Consci che il loro intervento organizzato può essere elemento determinante, non nel provocare le radicalizzazioni dello scontro di classe, ma per svilupparle nei termini più positivi.
La costruzione di nuove direzioni rivoluzionarie è l’obbiettivo centrale e lo strumento essenziale a tale scopo. Oggi come ieri lo scopo centrale dei comunisti rivoluzionari è quello di costruire, in ogni paese, partiti d’avanguardia, basati su una chiara teoria marxista; centrati sul proletariato, e in primo luogo sulla classe operaia industriale; democraticamente centralizzati; pronti ad intervenire in ogni lotta e in primo luogo nelle fasi di radicalizzazione di massa, per porre la prospettiva del potere dei lavoratori e del socialismo come unica soluzione alla crisi capitalistica e alle sue conseguenze distruttive sul proletariato e sugli altri strati e settori sociali subalterni.

LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE IN GENERALE

Due sono gli elementi fondamentali del quadro politico internazionale nell’ultimo periodo che acquistano una valenza generale centrale su scala mondiale. Il primo è il processo di restaurazione del capitalismo negli stati operai degenerati/deformati; il secondo è il fallimento del tentativo americano di irrigimentare il mondo grazie ad una rapida vittoria sullo scacchiere mediorientale e segnatamente in Iraq.

Il crollo dell’URSS e degli altri stati del suo blocco e il processo di restaurazione del capitalismo in Cina e Indocina sono giunti certo inattesi nei tempi, con rapidità rispetto alla precedente fase che appariva di stabilità burocratica, ma certo non dovrebbero essere storicamente sorprendenti, al contrario, per i marxisti rivoluzionari conseguenti.
La teoria trotskista originaria su questo terreno è chiara; chiaro il ruolo storicamente restaurazionista della burocrazia stalinista Basti vedere “la Rivoluzione Tradita” e ancora di più il “Programma di transizione” e “in Difesa del Marxismo”.
Per riassumere il pensiero trotskiano basti citare quanto affermato nel Programma di Transizione : “ Il pronostico politico ha un carattere alternativo: o la burocrazia, divenendo sempre di più l’organo della borghesia mondiale nello stato operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il paese nel capitalismo, o la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre una via verso il socialismo”
E’ vero che la maggioranza degli epigoni di Trotsky si sono invece trovati spiazzati e sorpresi da quanto avvenuto. Avevano infatti dimenticato il reale senso della teoria trotskista e, anche a causa del prolungarsi storico del dominio stalinista e delle sue capacità di espansione nel dopoguerra, assolutizzato la sua esistenza, non cogliendone più le caratteristiche storicamente transitorie. E questo sia che lo abbiano fatta da un versante di adattamento politico ad esso, sia da un versante di stalinofobia, sia considerando che la restaurazione del capitalismo avrebbe costituito un successo del capitalismo tale da essere incompatibile con la sua crisi.
Ma la realtà ha confermato la validità generale della teoria trotskista. Certo dal corno negativo dell’alternativa posta nel Programma di Transizione e quindi con una sconfitta di portata storica del proletariato.

Il processo di restaurazione del capitalismo si è sviluppato in forme diverse nei vari paesi dell’ex blocco sovietico, ma certamente in termini relativamente rapidi. Nella Germania dell’Est si è avuta la rapida assimilizazione alla Germania ovest dal punto di vista economico-sociale; sia pure in una forma di sottosviluppo rispetto al resto della Germania imperialista.

Al lato opposto, la restaurazione del capitalismo in Russia ha visto inizialmente un ruolo molto limitato del capitale straniero (ciò che ha tra l’altro tratto in inganno molti commentatori marxisti, inizialmente noi compresi, rispetto al ruolo centrale della restaurazione negli ex stati operai degenerati/deformati nel riequilibrio economico del capitalismo mondiale). Il meccanismo principale, funzionale agli interessi della burocrazia, è stato la truffa della “privatizzazione popolare”, cioè della distribuzione a titolo di proprietà delle azioni delle varie aziende ai dipendenti, in quantità ovviamente diverse a seconda del livello gerarchico (quindi già privilegiando i manager), liberamente commerciabili. Così operai e impiegati, ridotti alla miseria dalla recessione e dal crollo dei salari e dei servizi sociali, hanno venduto in massa, a basso valore, i loro titoli di proprietà a chi aveva i soldi per acquisirli, cioè i manager e dirigenti della vecchia burocrazia, che si sono ritrovati a diventare proprietari delle aziende che un tempo dirigevano. Accanto a ciò, come è risaputo, si è avuto il ruolo dei settori gangsteristico-mafiosi, nelle condizioni economiche di lanciarsi alla costituzione di società finanziarie e altro.
Il processo è stato analogo nelle altre repubbliche dell’ex URSS, con però, in generale un ruolo di intervento maggiore di capitali esteri.

Negli stati dell’Europa centro-orientale il processo ha combinato elementi diversi: “privatizzazioni popolari” con acquisizione da parte della vecchia burocrazia stile Russia; intervento importante di capitali esteri; restituzione di beni agli antichi proprietari espropriati alla fine degli annui ’40; con ampio ruolo, ad esempio, del primo elemento in Polonia e dell’ultimo in repubblica Ceca; mentre in Romania si conosce, ad esempio, il ruolo massiccio degli investimenti di capitali italiani (fino alla realizzazione delle assemblee annuali della Confidustria di Treviso a….. Timisoara).
In questo modo, con la distruzione del vecchio apparato statale stalinista ( in larga misura, in particolare in URSS da parte della stessa burocrazia dominante), e il processo di privatizzazioni selvagge, per la metà degli anni ’90 la restaurazione del capitalismo era stata compiutamente realizzata.

Una sfida alla teoria marxista è invece rappresentata dal processo di restaurazione del capitalismo in Cina.
Che questo processo sia andato enormemente sviluppandosi è una evidenza di fatto e anzi abbiamo sottolineato la sua valenza centrale nella situazione mondiale.

Malgrado ciò fino ad oggi avevamo considerato non completato il processo di restaurazione e parlavamo della Cina ancora come di uno stato operaio deformato in dissoluzione. Vari fattori sia strutturali che sovrastrutturali ci spingevano a mantenere tale valutazione. Se in larga misura l’economia cinese era ormai in mani private (per circa il 50% del PIL, in ogni modo inferiore all’80-85% dell’economia russa) , la grande industria pesante era ancora prevalentemente proprietà statale, in termini scarsamente modificati rispetto alla situazione precedente. In questo quadro il fatto che la riacquisizione di Hong Kong alla Repubblica Popolare sia avvenuto, non inserendola compiutamente nello stato, ma mantenendola come una sorta di entità distinta, un ricco “protettorato”, indicava certamente la situazione ancora non compiutamente risolta dell’economia e della società cinese. Infine, questione fondamentale, esisteva ed esiste il mantenimento della struttura di potere totalitaria burocratico-stalinista centrata sul Partito Comunista. Una struttura che è stata storicamente l’espressione sovrastrutturale della natura sociale caratterizzante uno stato operaio burocraticamente degenerato/deformato. Per questo nelle altre esperienze di restaurazione capitalistica (URSS, etc) un passaggio fondamentale, preliminare al pieno dispiegarsi del processo stesso, è stato la distruzione di tale apparato statale a favore di forme politiche analoghe a quelle della società borghese.

Oggi tuttavia il processo di restaurazione del capitalismo è giunto, nella situazione cinese, ad un livello tale da rendere difficile affermare che non ci si trova di fronte ad uno stato capitalistico, sia pure con un forte settore statale, la cui preservazione è esattamente necessaria allo sviluppo del capitalismo cinese sia sul piano interno che su quello internazionale. Lo sviluppo di investimenti cinesi pubblici e privati nel mondo, con ,ad esempio in alcune zone dell’Africa, conflittualità diretta con multinazionali occidentali è un indice della trasformazione dell’economia cinese.
E’ evidente che il processo di transizione della società cinese, a differenza di quella russa, non è compiutamente realizzato. Ma se ciò è vero, esso è talmente avanzato che mantenere per la Cina il concetto di stato operaio degenerato, sia pure in dissoluzione, non pare adeguato alla realtà. I prossimi anni saranno decisivi per vedere se tale transizione si completerà anche con il superamento della precedente struttura statuale (e con una ulteriore riduzione del settore pubblico dell’Economia) o se dovremo affrontare un necessario sviluppo e aggiornamento della teoria marxista, ovviamente sempre sulle sue proprie basi. come affermava Gramsci e con la chiarezza di un Lenin, marxista ortodosso, come si definiva, che non aveva paura di ricordare ai compagni ancorati alla forma di vecchie teorie superate, la frase del Faust di Goethe “Grigia è la teoria amico mio, ma verde è l’albero eterno della vita”.

L’altro elemento centrale della situazione mondiale è rappresentato dall’insuccesso americano in Iraq e dalle sue conseguenze mondiali . Bush padre cercò di creare il “nuovo ordine mondiale” con la guerra del 1991, con gli Usa a capo della coalizione mondiale. Il risultato, come è evidente, è stato molto diverso dalle sue speranze e il mondo si è sviluppato, pur in presenza di una ascesa puramente economica , in un quadro di disordine politico-sociale.
Bush figlio voleva ricuperare con il pretesto della “guerra al terrorismo” la situazione. E anche lui ha fallito. Questo fatto, indipendentemente dalle modalità concrete del fallimento, dalle forze in campo contro l’imperialismo Usa e i suoi alleati(su cui ritorneremo), è il dato fondamentale della situazione. Naturalmente le caratteristiche reazionarie delle forze che dirigono i movimenti di resistenza non è senza impatto negativo sullo sviluppo complessivo della situazione mondiale, in quanto limita grandemente l’impatto positivo che tale resistenza può avere sulle masse proletarie e giovanili.

Se l’insuccesso USA sullo scacchiere non solo dell’Iraq, ma anche dell’Afganistan, non è stato ancora più netto ciò è dovuto anche al fatto che ha trovato alleati che lo hanno aiutato. Non solo la Gran Bretagna, ma anche, al di là di alcuni momenti di distinguo, il resto delle potenze imperialiste europee.
Quest’ultimo elemento è un dato significativo della situazione mondiale nel senso che, pur di fronte al crollo del “blocco sovietico”, l’Europa non si è posta in contrapposizione al ruolo preminente dell’imperialismo USA, ma ha continuato a porsi come sua alleata, in un comune ruolo di gendarme controrivoluzionario e imperialista del mondo. Non, per essere precisi, in termini di subordinazione (l’imperialismo Usa non è il padrone dell’Europa) ma di accettazione del mantenimento da parte USA del ruolo di principale potenza imperialista, senza sviluppare una contrapposizione che la oggettiva situazione del post 89 avrebbe reso possibile.

Il fallimento della azione militare imperialista in Iraq è certamente, come detto, un fatto che ha indebolito l’imperialismo internazionale, ma questo non significa che abbia reso impossibile lo sviluppo di nuove guerre, anche a breve. Il contrasto aperto con l’Iran sulla questione nucleare può costituire il pretesto per una nuova avventura da parte USA. Non possiamo allo stadio dare per certa la scelta dell’amministrazione Bush , anche, esattamente, per l’insuccesso iracheno (senza di esso, probabilmente, l’attacco all’Iran sarebbe già avvenuto). La stesse dichiarazioni belliciste più acute, come quelle del “socialreazionario” ministro degli esteri francese Kouchner, possono rientrare in un gioco di pressione. L’amministrazione repubblicana Usa è con ogni probabilità divisa al suo interno. D’altro canto recenti avvenimenti, come la guerra a bassa intensità ai confini tra Curdistan iracheno e iraniano e soprattutto la incursione militare israeliana in Siria per distruggere , da terra e dall’aria, un preteso impianto nucleare in costruzione, mostrano che gli Usa e i loro più stretti alleati sono pronti ad ogni scelta ritengano praticabile. Se azione di guerra vi sarà va da se che i marxisti rivoluzionari si porranno, malgrado il carattere reazionario del regime di Teheran, incondizionatamente dalla parte dell’Iran, per la sconfitta dell’aggressione imperialista.

Nel quadro mondiale su delineato , anche in relazione alla situazione economica generale quali tendenze fondamentali, possiamo individuare per la prossima fase storica ?
La grande maggioranza dei commentatori sottolineano il quadro crescente di contrasto tra l’imperialismo USA e la Russia di Putin sul piano geopolitico e con la Cina in pieno sviluppo sul piano economico.
Molti teorici o commentatori che si richiamano al marxismo rivoluzionario tendono invece a negare questa visione. Essi partono da diversi argomenti: dalla sottovalutazione del processo di restaurazione del capitalismo nei due giganti dell’ex “mondo socialista”; dal ruolo di equilibrio dell’economia cinese rispetto a quella USA; dal ruolo enorme degli investimenti esteri in Cina, che ne farebbero una sorta di paese dipendente; qualcuno osserva “l’amicizia” personale proclamata tra Putin e Bush; si parla di “ricolonizzazione dell’est Europa includendoci anche la Russia; si afferma che il processo di scontro per il controllo dei mercati dovrebbe svilupparsi logicamente tra USA e Unione Europea; etc.
Pensiamo che, alla luce dei fatti e nella situazione attuale, queste posizioni rimandino ad una falsa ortodossia (sia pure in buona fede).

Ciò si può rilevare prendendo ad esempio la questione del rapporto tra USA ed Europa. Noi stessi in passato abbiamo fatto alcune concessioni (si vedano i documenti degli anni ’90 della minoranza congressuale del PRC) ad un certo , sia pur limitato, schematismo su questa questione, individuando un crescente antagonismo. Si tratta invece di prendere lezioni dalla storia, utilizzando a pieno il metodo dialettico del marxismo . Ad esempio, dopo la prima guerra mondiale sembrava logico che il contrasto fondamentale su scala planetaria si sarebbe sviluppato, una volta sconfitta la Germania, tra la vecchia principale potenza imperialista, cioè la Gran Bretagna e il nuovo imperialismo principale, cioè gli USA. Tutta l’Internazionale Comunista era convinta di ciò negli anni ’20 e ipotizzava la possibilità di un nuovo conflitto mondiale tra le due sponde dell’Atlantico. La storia è stata molto diversa e fin dagli anni ’30 si è consolidata una alleanza che, salvo brevi contrasti particolari (Medio Oriente negli anni ’40 e ’50) è perdurata fino ad oggi.
Come già detto i fatti dimostrano che al di là di contrasti marginali e di brevi velleità rapidamente rientrate (asse Chirac-Schroeder), l’Unione Europea non sviluppa una conflittualità generale, nemmeno, per il momento, in termini di serie guerre commerciali con gli USA. ( il che ovviamente non significa che singoli episodi, più che altro con alcuni degli imperialismi europei e non con il loro insieme, non siano destinati a ripetersi anche a breve).

Al contrario la tendenza alla conflittualità, in termini di fase storica futura, tra Russia e Cina da un lato e imperialismo Usa ( con quelli europei e il Giappone) dall’altro appare ad oggi in sviluppo. Naturalmente è necessario non assolutizzare la cosa e non anticipare i tempi. Parlare oggi di imperialismo cinese o russo, in senso proprio, è un assurdo. Ma la tendenza ad uno sviluppo in tal senso esiste. Infatti le neo borghesie di questi stati e la burocrazia statale che di essa è espressione o che le ha espresse, per la dinamica concreta del processo di restaurazione nel contraddittorio quadro attuale, ha una evidente tendenza a porsi su una prospettiva di quel tipo. Lo stesso ruolo svolto dallo stato nel controllo del processo di restaurazione in Cina e nella battaglia putiniana contro gli “oligarchi” in Russia hanno lo scopo di evitare processi di subordinazione economica all’imperialismo e di creare una forte economia capitalista indipendente. La stessa conflittualità sullo scudo stellare o rispetto alle sanzioni all’Iran va interpretato in questa luce

E’ chiaro che il processo di trasformazione della Russia e della Cina in nuove potenze imperialiste non è né facile né scontato. Ma sarebbe un errore negarne a priori la possibilità. Ad oggi la Cina appare economicamente come una specie di grande Corea (con un ruolo maggiore della proprietà pubblica) piuttosto che come un grande Giappone. Niente vieta tuttavia uno sviluppo ulteriore e un consolidamento.
Gli anni futuri ci diranno appunto se la Cina diventerà il Giappone del XXI secolo, ripetendo cioè il miracolo per cui l’isolato e relativamente arretrato paese feudale della metà dell’800, aperto con la forza della flotta Usa al commercio mondiale divenne in mezzo secolo, invece che una colonia o semicolonia (come India e Cina) una potenza imperialista.
Sempre ricordando, come ci insegna quella lontana esperienza e quella attuale della Cina, che il marxismo reale è alieno agli schemi assoluti e attento all’evoluzione reale dei fenomeni storici.

I DIVERSI SETTORI REGIONALI/CONTINENTALI

Nel quadro d’insieme indicato nelle precedenti parti di questo documento affronteremo le varie situazioni continentali/regionali. Nell’economia di questo documento si tratterà ovviamente di analisi generali limitati agli aspetti centrali e ad alcune situazioni particolarmente importanti, significative o esemplificative.

EUROPA OCCIDENTALE E CENTRALE

In Europa occidentale e centrale noi viviamo una crisi dell’Unione Europea. La vittoria del NO ai referendum sul nuovo progetto di costituzione europea in Francia e Olanda, rappresentano l’espressione di una disaffezione popolare di massa verso le politiche antioperaie dell’UE che (perlomeno in Francia) ha avuto una valenza assolutamente progressiva.
Ma la crisi Europea non deriva solo dalla, per il momento purtroppo molto limitata, reazione delle masse alla politica della UE. Ma anche e principalmente dalla incapacità dell’insieme degli imperialismi europei di esprimere una politica e una prospettiva coerente, in particolare, come già detto, nei confronti dell’imperialismo americano. E tale incapacità ha una base strutturale.

Alla fine della seconda guerra mondiale gli imperialismi europei continentali, sia quelli usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale (Italia e Germania) sia quelli formalmente vincitori (Francia, Belgio, Olanda), si trovavano in una situazione estremamente difficile sia dal punto di vista economico che da quello sociale e politico. Per il capitalismo mondiale il rischio era quello che tutto ciò ponesse in questione il proprio dominio nell’Europa occidentale. Ciò di fronte anche alla espansione dello stalinismo, che al di là della natura di quest’ultimo poneva in questione il dominio capitalistico in quella centro-orientale, all’inizio potenzialmente (lo stalinismo mantenne l’economia capitalistica negli stati dell’Europa centro –orientale fino al 1948) poi concretamente (con l’avvio della “guerra fredda”). E, almeno in Italia e Francia, le concrete possibilità rivoluzionarie furono bloccate dai partiti stalinisti, nel quadro degli accordi tra Stalin e le potenze imperialiste.

Di fronte a ciò l’imperialismo Usa addivenne ad un compromesso con quelli europei continentali. Gli Usa accettarono di non colonizzare l’Europa e di finanziarne lo sviluppo, permettendo la sua ripresa imperialista. In cambio e con convinzione, in funzione antiURSS , gli imperialismi europei accettarono il primato USA sul piano militare, politico e anche economico (ruolo del dollaro). Nel quadro del mondo “bipolare” degli anni 50 e successivi la nascita del processo cosiddetto di “unificazione europea” costituì il tentativo di sviluppare l’azione economica e in seguito politica degli imperialismi europei in maniera potenzialmente indipendente, anche se, almeno inizialmente, non conflittuale con gli USA. Ma l’ingresso della Gran Bretagna, l’alleato strategico degli USA, nell’allora Comunità Economica Europea negli anni ’60 nonostante l’opposizione della Francia del generale De Gaulle e il fatto che nessun altro stato abbia seguito la stessa Francia nella sua uscita dalla Nato come patto militare, hanno marcato il futuro dell’Europa limitandone le velleità di distanziarsi dall’alleato predominante.

Il crollo dell’Unione Sovietica offriva all’Europa una nuova possibilità di distanziarsi dagli Usa e di avere un proprio ruolo maggiore. Ma ciò non è avvenuto. In realtà la borghesia capitalistica europea , soddisfatta dei profitti realizzati, nella nuova fase di espansione economica ricordata all’inizio di questo testo, non aveva e non ha esigenze strutturali di confronto con l’imperialismo USA. Certamente questa equilibrio non è stato senza contraccambi. Gli Stati Uniti non si sono opposti frontalmente all’introduzione dell’euro o, per fare un esempio su un piano più politico, nella Jugoslavia da un iniziale ( e per loro logico) appoggio a Milosevic hanno rapidamente accettato di cambiare fronte, adeguandosi alle esigenze proprie in primo luogo dell’imperialismo tedesco (e del Vaticano).
Resta che la debolezza e certamente più grande da parte dell’Europa. Essa ha accettato il mantenimento della Nato come struttura militare e il conseguente mantenimento del predominio USA e sullo stesso terreno economico, per il momento non sviluppa, ad esempio, una azione tesa a sfidare realmente il dollaro proponendo l’euro come moneta di scambio alternativa su scala mondiale. Del resto proprio sull’euro si verifica la debolezza strutturale dell’Europa. L’euro ,infatti, non è la moneta dell’UE , ma quella degli imperialismi continentali ( i “soci fondatori” degli anni ’50 e nuove entrance , come la Spagna postfranchista) e lo stesso vale per le regole di libera circolazione (accordi di Shengen).

La logica di una politica compiutamente indipendente, da imperialismo europeo, avrebbe voluto una rottura completa o parziale del blocco dell’euro-Shengen con i restanti paesi della vecchia CEE (in primo luogo la Gran Bretagna) e la formazione di una vera Unione Europea a natura confederale, con non solo la propria moneta, ma politiche di sfida agli Usa, l’uscita dalla Nato e la costituzione di un esercito europeo.
Nulla di tutto ciò è avvenuto. Anzi si è accettato l’ingresso dei deboli paesi non imperialisti dell’ex blocco sovietico, che hanno rappresentato un fattore di contraddizione e indebolimento sul piano strategico (anche se di più agevole sviluppo di profitti immediati) dell’UE, ingresso non a caso caldamente sponsorizzato dagli USA (come oggi quello della Turchia).
Ci sono stati negli anni passati timidi tentativi di avviarsi su un terreno di maggiore autonomia e differenziazione. E’ stato il tentativo del cosiddetto blocco franco- tedesco di Chirac-Shroeder, in particolare rispetto alla seconda guerra irachena (la Francia difendendo anche suoi specifici interessi pregressi nel paese del Medio Oriente). Ma questo progetto non si è mai consolidato ed ha avuto vita breve. I nuovi governi Merkel e Sarkozy hanno infatti cambiato registro.

Oggi quindi l’UE si presenta come una semplice alleanza di potenze imperialiste, con annessi vari stati a medio sviluppo capitalistico, con le formalità di una struttura federale, ma senza esserlo in realtà; piena di contraddizioni e in crisi (anche se non dissolutiva), il cui ruolo centrale è quello di sviluppare il più omogeneamente possibili politiche di razionalizzazione economico- sociali e di attacco congiunto ai diritti acquisiti dal proletariato europeo.
Questo non significa che non possano esserci delle modificazioni del quadro delineato sopra nel futuro. Una grande crisi finanziaria internazionale con un processo di depressione economica mondiale potrebbe porre economicamente e politicamente al nucleo duro dell’UE l’esigenza di una politica più autonoma o addirittura conflittuale con l’imperialismo Usa ( e presumibilmente inglese). Ma per il momento nulla di ciò appare all’orizzonte e l’ approccio dell’Europa rispetto alla politica Usa è esemplificato dai radar dello scudo spaziale antiRussia in progetto; dalle posizioni sull’Iran o la Palestina, prive di reale autonomia (nonostante il potenziale interesse ad averle) dall’alleato USA; e da quanto avviene sui monti dell’Afganistan.

Va da sé che noi marxisti rivoluzionari non sosteniamo in nessun modo uno sviluppo “autonomo” dell’imperialismo europeo. Questa posizione, propria in passato di vari settori stalinisti, sia nel PCI che nell’estrema sinistra maoista, ha una natura socialsciovinista, che da leninisti combattiamo frontalmente. Le potenze europee non sono colonie o semicolonie degli USA. Sono appunto potenze imperialiste alleate agli USA ma con finalità e interessi propri, sia pure da soci minori. L’esempio della Jugoslavia, in cui, come ricordato, sono stati gli Usa ad adattarsi agli interessi europei e non viceversa è lì a ricordarcelo. Così come, da marxisti ( che “non hanno patria”) e da leninisti , dobbiamo sempre ricordarci che per ogni vero comunista, almeno nei paesi avanzati, il “nemico principale è il proprio imperialismo”.
E che la nostra battaglia generale rimane, nel solco della tradizione sia della terza che della quarta internazionale delle origini, quella per gli “Stati Uniti Socialisti d’ Europa” (nel cui quadro potranno risolversi al meglio, le questioni di oppressione nazionale, in primo luogo quella del popolo basco, il cui diritto di autodeterminazione i marxisti rivoluzionari sostengono incondizionatamente ).

Nell’ambito strutturale su delineato, quale è la situazione politica e dello scontro di classe? Il quadro generale della situazione europea risponde in maniera particolare a quanto indicato nella prima parte di questo testo. Peso delle sconfitte passate ; esplosioni di lotta, il cui insuccesso lascia scarse sedimentazioni, ma che mantengono a partire dalle contraddizioni esistenti un importante potenziale; difficoltà della classe operaia ad avere un ruolo di egemonia sui movimenti generali e socialmente “trasversali” al proletariato più largamente inteso, o anche al proletariato e a settori piccolo borghesi e quindi difficoltà maggiori che in passato a collegare tali lotte ad una prospettiva anticapitalistica (come fu il caso invece, ad esempio, della lotta degli studenti nel ’68 francese o nel lungo periodo tra il ‘68 e il ‘76 – non il ’77 invece- in Italia. ).
Così noi abbiamo visto l’importantissima battaglia degli studenti e giovani francesi contro i CPE (contratti di primo impiego) che ha saputo piegare il governo De Villepin, e che però ha sedimentato molto poco nello scontro di classe. E questo non tanto per la vittoria elettorale di Sarkozy in sé (anche nel giugno ’68, con l’insuccesso dell’ascesa rivoluzionaria a causa del tradimento del partito stalinista, i gollisti riuscirono a raggruppare la piccola borghesia e tutti i settori arretrati della società e a vincere le elezioni straordinarie), ma per il quadro generale di debolezza politica e sociale della classe nel quale tale vittoria si è inserita. Quadro generale che l’attuale lotta dei lavoratori dei trasporti contro l’ipotesi di riforma pensionistica sfida, ma per il momento non sembra risolvere a positivo, anche se non è da escludere una nuova ascesa operaia come nel 1995 (almeno parzialmente vittoriosa) o nel 2003 (sconfitta).

Va ribadito tuttavia quanto già detto: la crisi sociale del capitalismo lascia dietro di se delle grandi contraddizioni, fascine che possono incendiarsi dando luogo a forti, inattesi momenti di esplosione di scontro di classe.
E’ questo ci dovrebbe essere particolarmente chiaro qui in Italia , che ha conosciuto diverse volte tali esplosioni negli ultimi decenni. Dalla lotta contro le modifiche al regime di malattia nell’83, alle grandi mobilitazioni contro la ipotesi di riforma pensionistica di Berlusconi nel ’94 ,alla mobilitazione (di minore radicalità anche perché più direttamente controllata da Cofferati e soci) contro la modifica a negativo dell’art 18 dello statuto dei lavoratori nel 2002. Che questi momenti di lotta non abbiano sedimentato nella coscienza, nei sentimenti e addirittura nella memoria delle masse (a differenza del periodo ‘68-76) è espressione degli elementi di negatività complessiva della fase, ma questo non toglie che tali esplosioni possano ripetersi, in Italia come in altri paesi europei e che compiti dei marxisti rivoluzionari sia quello di prepararsi, nei limiti delle proprie forze ma con il massimo dell’audacia, per intervenirvi ponendo il problema della radicalizzazione dello scontro , dell’autorganizzazione di massa, del potere dei lavoratori.

Se questo è il quadro della situazione nei vecchi paesi capitalisti, essa è ancora più arretrata negli ex stati operai deformati. Il peso dei decenni di oppressione stalinista, in questi paesi vissuta non solo come oppressione politica e disuguaglianza sociale, ma, per la maggior parte di loro, anche come oppressione nazionale; le illusioni sulla caduta dei vecchi regimi; l’impatto con la nuova realtà. Tutto ciò ha contribuito a demoralizzare profondamente la classe operaia e le masse e ad farne arretrare la coscienza. La ripresa è ancora iniziale e lenta ma la tendenza va in tal senso con situazioni diverse tra l’uno e l’altro stato ( con un massimo di situazione “tradizionale” in Repubblica Ceca con un partito comunista e uno socialdemocratico, entrambi di massa, il primo sostenuto prevalentemente dal voto di pensionati e vecchia classe operaia dei settori “pesanti” -ad es. i minatori-, l’altro da quello della maggioranza della classe operaia industriale; e un minimo negli stati dell’ex Jugoslavia, dove dominano ovunque formazioni nazionaliste).

A livello politico il quadro dominante in Europa è rappresentato dal regime dell’alternanza. Una destra “moderata” da un lato (gollisti francesi, conservatori inglesi, popolari spagnoli, etc) che si alterna al governo con un centro sinistra liberale sempre più spostato al “centro”, cioè alla rappresentanza diretta degli interessi della grande borghesia capitalistica (è il caso del new Labor in GranBretagna e ,più di tutto, del partito Democratico in Italia). E’ in definitiva l’adattamento progressivo al modello americano di bipolarismo borghese, in cui lavoratori e sindacati sono integrati attraverso il sostegno ai “progressisti” che rappresentano direttamente come i conservatori il grande capitale.
Il governo di coalizione tedesco non costituisce dunque la regola ma l’eccezione. Dopo una campagna, apparentemente al vetriolo, si è arrivati ad uno stallo in cui l’equilibrio migliore per la borghesia era quello dell’alleanza tra i due grandi partiti. E’ solo l’indicazione che contrariamente a teorie dietrologiche e a semplificazioni non marxiste, non tutto è deciso in precedenza né dalla realtà economica oggettiva né dai “potere forti” e che gli aggiustamenti si possono sempre trovare, a condizione che la borghesia possa continuare a fare i suoi profitti in tranquillità.


EX URSS

La classe operaia russa non si è ribellata contro la restaurazione capitalistica, anche se i lavoratori hanno spesso scioperato per il non pagamento dei salari e altri motivi. Chiaramente essi non potevano tollerare per sempre le proprie sofferenze e l’ostentazione della ricchezza dei pochi. Inoltre, l’economia russa era troppo caotica per prosperare, per non dire sostenere la resurrezione della Russia come grande potenza capitalistica. Il crollo finanziario dell’agosto 1998 confermò che la situazione era insostenibile.
La nuova classe dominante russa, strettamente legata ai burocrati governativi ai massimi livelli e ai vertici militari, ha compreso che il capitalismo russo doveva essere regolato e coordinato dallo Stato per poter prosperare, seguendo gli esempi storici della Germania, del Giappone e della stessa Russia. Nel dicembre 1999 Yeltsin si è dimesso da presidente a favore del suo primo ministro Vladimir Putin in cambio dell’immunità giudiziaria. Putin venne rieletto presidente nel marzo del 2000 e iniziò il processo per cercare di disciplinare il nuovo capitalismo russo.

Il governo Putin ha devastato la Cecenia per dissuadere altre nazionalità dal tentare la secessione. Ha ridotto il potere dei governatori regionali e messo sotto inchiesta funzionari corrotti. Ha praticato una politica estera più indipendente. La Russia ha cooperato con l’attacco degli Stati Uniti all’Afghanistan nel 2001, ma solo in cambio delle mani libere in Cecenia e con l’intesa che gli Stati Uniti avrebbero limitato il loro intervento in Asia centrale. Si è unito alla Francia, alla Germania e alla Cina nell’opposizione all’attacco statunitense contro l’Iraq. Avvantaggiandosi del rialzo dei prezzi del petrolio e del gas naturale e della svalutazione del rublo dopo la crisi finanziaria del 1998, ha messo fine alla dipendenza della Russia dai prestiti del Fondo monetario internazionale e ha attuato una politica di sostegno alla produzione, alla sostituzione delle importazioni e alle esportazioni.
Le mosse del governo Putin contro Mikhail Khodorkovsky e altri oligarchi sono parte del processo generale. Khodorkovsky, il più ricco degli oligarchi della Russia, è stato arrestato nell’ottobre 2003 con accuse di frode ed evasione fiscale e condannato. Egli è sicuramente un corrotto, ma non è stato arrestato per questo ma perché il suo capitalismo fuori legge non è ciò che richiedeva la nuova Russia. Il suo arresto è stato anche un messaggio agli altri oligarchi e agli altri capitalisti che potrebbero essere tentati di seguire il suo esempio. Esso mira a riequilibrare le risorse e il potere all’interno della nuova classe dominante. E a rafforzare l’immagine e la popolarità del governo Putin come “protettore del popolo”. Un risvolto di questa operazione è l’antisemitismo, dal momento che Khodorkovsky e la maggior parte degli altri oligarchi sono di origine ebraica.

La Russia è ancora indietro rispetto all’ex Unione Sovietica nella produttività del lavoro e nei livelli di vita, ma ha cominciato a riprendersi dalla disastrosa terapia d’urto ed è tornata ad essere una potenza capitalistica. Resta da vedere se sarà in grado di diventare una potenza imperialistica. Un fattore importante in questo senso sarà se essa riuscirà a riunire il passato impero russo, le ex repubbliche sovietiche ora blandamente collegate nel quadro della Comunità di Stati indipendenti (CSI).
Dalla Bielorussia al Kazakhstan, le ex repubbliche sovietiche non russe hanno sperimentato una restaurazione capitalistica interrotta che le ha lasciate in mano a governi autocratici e corrotti senza alcuna prospettiva di sviluppo indipendente. Saranno trascinate verso l’orbita russa o verso l’orbita statunitense. La Bielorussia è pronta a riunirsi alla Russia, sebbene il governo russo veda la sua povertà come uno svantaggio ed esiti. Le altre cercano tutte di bilanciarsi, in minor o maggior grado, fra la Russia e gli Stati Uniti e, nel caso dell’Ucraina, l’Unione Europea.

La Russia sta tentando di sfruttare i legami economici del periodo sovietico, la dipendenza energetica, le importanti minoranze russe, il separatismo e il timore dell’Islam radicale per riavvicinare le ex repubbliche sovietiche non russe. Gli Stati Uniti stanno cercando di sfruttare i loro timori della Russia e il desiderio di aiuti economici e militari statunitensi per separarle del tutto.
Si può vedere questo nuovo “gran gioco” nella competizione fra la Russia e gli Stati Uniti sulle rotte dei nuovi oleodotti per il petrolio e il gas del Mar Caspio. La Russia vuole far passare gli oleodotti a nord, attraverso il Kazakhstan e la Russia, mentre gli Stati Uniti vogliono farli passare a ovest attraverso la Georgia e la Turchia, aggirando la Russia.
Si può vedere nelle tensioni suscitate dalla presenza di truppe russe e statunitensi nel Caucaso e in Asia centrale. La Russia, l’Armenia, la Bielorussia, il Kazakhstan, il Kyrgyzstan e il Tajikistan hanno formato nell’aprile del 2003 l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, edificata su precedenti accordi in materia di sicurezza e la Russia mantiene truppe di “peacekeeping” in Moldavia (Transnistria) e in Georgia (Abkazia e Ossetia) . Gli Stati Uniti hanno accordi in materia di sicurezza con l’Uzbekistan e basi militari in Tajikistan e Kyrgyzstan e “consiglieri” militari in Georgia. I governi russo e statunitense hanno manovrato per contendersi l’influenza nella crisi del novembre del 2003 che ha portato alla caduta del presidente Eduard Shevarnandze, a vantaggio del partito filoamericano.

In Ucraina questo contrasto si è espresso negli ultimi anni in una seria crisi politica che ha sfiorato la guerra civile. La “rivoluzione arancione” è stato il tentativo da parte del settore borghese filooccidentale di risolvere definitivamente la contraddizione di collocazione del paese avvicinandolo compiutamente all’UE. Ma le contraddizzioni all’interno del fronte “arancione” e la forza del settore russofono della popolazione hanno impedito la stabilizzazione della situazione. E’ chiaro che anche il settore “filorusso” ha una direzione e una natura borghesi. Per questo i marxisti rivoluzionari si oppongono a qualsiasi sostegno ad una delle due parti in lotta e devono rivendicare che la debole sinistra presente si renda indipendente dai due poli contrapposti , in nome di una unità dei lavoratori su basi di classe.

Il governo russo potrebbe avere successo nel consolidare la tradizionale sfera di influenza della Russia, dal momento che gli Stati Uniti sono troppo impegnati e in difficoltà per l’insuccesso iracheno e gli autocrati postsovietici potrebbero vedere una “junior partnership” con la Russia come la scommessa migliore per la propria sopravvivenza. Se ciò accadrà, la Russia potrebbe cominciare ad esportare capitali su scala importante, realizzando così la sua transizione verso una potenza imperialista. Se ciò fallirà, la Russia rimarrà una potenza capitalistica secondaria a un livello intermedio di sviluppo economico, troppo arretrato per competere su una scala mondiale.

I lavoratori dell’ex Unione Sovietica ricordano una società che garantiva loro il posto di lavoro, la casa, la sanità, l’educazione e la pensione e sentono queste perdite. Ma il peso di settant’anni di stalinismo e del trauma della restaurazione è ancora così gravoso che essi non vedono una prospettiva generale. Tuttavia proprio dai primi mesi del 2007 si è sviluppato una relativamente importante ondata di scioperi rivendicativi che hanno toccato alcune importanti industrie (dalla Ford di San Pietroburgo alla General Motors-Avtovaz di Togliattigrad alla Renault-Avtoframos di Mosca). Esiste quindi una tendenza, favorita dalla ripresa economica generale, a lotte rivendicative, che si erano molto ridotte negli anni precedenti. Ma per il momento sul terreno politico nulla si è evoluto a positivo. Il regime bonapartista reazionario putiniano si sta rafforzando. L’opposizione guidata dall’ex campione di scacchi Kasparov è debole e prevalentemente liberale. L’ufficiale partito Comunista di Ziuganov è il peggio del nazionalstalinismo antisemita, inattivo sul terreno della lotta di classe, centrato sul sostegno dei pensionati, vittime prioritarie della restaurazione capitalista. Tutti i vari tentativi di dare vita ad un vero partito dei lavoratori (anche su basi minimali o confuse) hanno fallito e l’estrema sinistra è tuttora marginale. La ripresa da questa situazione appare un processo lento per uno dei proletariati più importanti del mondo e per la sua piccolissima avanguardia.


NORD AMERICA

L’economia statunitense si conforma allo schema generale sopra descritto, ma ha registrato negli ultimi 15 anni risultati in parte migliori di quelli degli altri paesi economicamente avanzati. I capitalisti americani sono stati in grado di aumentare il tasso di sfruttamento e di mantenere il tasso di profitto più che in altri paesi capitalisti. Negli anni ottanta e novanta le corporations americane sono riuscite a estorcere ai lavoratori maggiori concessioni di quanto non abbiano saputo fare quelle europee e giapponesi e i governi ad ogni livello hanno tagliato i servizi sociali in maniera più aggressiva. Negli anni novanta le corporations americane hanno investito e si sono riorganizzate in maniera più efficace dei loro rivali.
Il “keynesismo militare” dell’amministrazione Bush ha inoltre stimolato l’economia statunitense. Il denaro di tutto il mondo è affluito negli USA, aiutando a finanziare il deficit statale e la spesa dei consumatori. I deficit commerciale e di bilancio statunitensi sono ormai insostenibili e il dollaro si sta indebolendo rispetto all’euro e allo yen,(fatto che rende però i manufatti americani più competitivi sia sul mercato interno che su quello estero). La “crisi dei mutui influirà sulla situazione economica, ma per il momento non ci sono indizi di recessione profonda .

L’ondata patriottica seguita all’undici settembre 2001 ha trasformato l’amministrazione Bush consentendogli di passare all’offensiva sul piano interno e su quello internazionale. Essa ha deciso il taglio delle tasse per i ricchi e, in misura minore, per le classi medie. Ha trasferito ai governi degli stati l'onere in materia di sanità, educazione e servizi sociali, senza fornire loro i fondi necessari per poterli mantenere. Ha utilizzato il Patriot Act e la creazione del Dipartimento per la sicurezza interna per dare più poteri alla polizia. E li ha usati soprattutto contro gli immigrati, specie quelli provenienti da paesi arabi o musulmani, ma ha minacciato anche i sindacati e le organizzazioni progressiste di ogni tipo.
Sul versante internazionale, l’amministrazione Bush ha lanciato la “guerra al terrorismo”, che ha implicato gli attacchi all’Afghanistan e all’Iraq, le minacce contro altri paesi (in primo luogo, come già visto e analizzato l’Iran), l'aperta proclamazione della superiorità militare e delle guerre preventive, l’unilateralismo e il massiccio incremento delle spese militari.
Non tutta la classe dominante americana ha concordato con questa politica dubitando che potesse funzionare. Ed in effetti come abbiamo visto , l’aggressione all’Iraq si è rivelato un insuccesso strategico. Questo ha aperto una crisi profonda dell’amministrazione Bush, verso la quale si è anche allargato il livello di dissenso di massa (ciò che non ha impedito tre anni fa a Bush di rivincere le elezioni presidenziali, grazie alla debolezza politica dei democratici).
Ma questa crisi dell’amministrazione repubblicana non si è trasformata in una crisi di regime. Con nuovi candidati il partito democratico continua ad apparire alla maggioranza dei lavoratori americani che votano (il non voto non esprime purtroppo nulla di radicale o progressivo) ed essere nella realtà per la borghesia una alternativa credibile ai repubblicani, nel gioco di regime bipolare tipico degli USA.

L’espansione economica degli anni ‘90, il tempo trascorso dalle grandi sconfitte degli anni ottanta e turnover generazionale avvenuto nella forza lavoro e nella burocrazia hanno in qualche modo rivitalizzato i sindacati. Un numero maggiore di lavoratori si sono organizzati, un numero maggiore, specialmente ispanici, ha scioperato e la sinistra del movimento sindacale è diventata più forte. Ma la svolta è stata molto limitata e la scissione della centrale AFL-CIO, su basi impolitiche e di cricca, ne è la dimostrazione.
Una delle caratteristiche più evidenti sulla scena politica statunitense nei primi anni 2000, cioè lo sviluppo dei movimenti antiglobalizzazione e contro la guerra è andato , come nel resto del mondo, in parte scemando, pur creando un area di attivisti che permane; mentre la sinistra organizzata in senso proprio rimane estremamente minoritaria.


MEDIO ORIENTE

I due punti centrali della situazione nel Medio Oriente sono il fallimento della guerra irachena per l’imperialismo USA e l’impasse della lotta di liberazione del popolo palestinese.

Dopo la scontata vittoria nella guerra contro Saddam Hussein, gli occupanti dell’Iraq si sono presto ritrovati nel pantano che la prima amministrazione Bush aveva evitato. Unità dell'esercito iracheno, milizie del partito Ba’ath , settori popolari legati a forze politiche fondamentaliste e volontari provenienti dagli altri paesi arabi hanno organizzato la guerriglia di resistenza. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno tentato di vincere la guerra a basso prezzo. Con forze largamente insufficienti per controllare il paese, sono stati incapaci di riparare le infrastrutture e di ripristinare i servizi di base. Hanno risposto in modo indiscriminato alla resistenza e hanno arrestato, ferito e ucciso molte migliaia di civili alienandosi ulteriormente la popolazione.
Gli occupanti hanno un problema irrisolvibile. Non possono lasciare l'Iraq distrutto e nel caos, dal momento che vogliono il suo petrolio e la stabilità del Medio Oriente. Ma non hanno truppe e risorse sufficienti per pacificarlo e ricostruirlo e non possono impiegarne di più, a causa dei sentimenti contrari alla guerra dell'opinione pubblica americana e del rifiuto di altri paesi di aiutarli massicciamente. Sono inoltre ostacolati dalla complessità delle questioni nazionali in Medio Oriente.

L'Inghilterra e la Francia hanno diviso le province arabe e kurde dell'ex impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale con l’obiettivo di facilitare il controllo della regione e del suo petrolio. Hanno unificato le province ottomane di Bassora, di Baghdad e di Mosul per creare l'Iraq e hanno costituito la Siria, il Libano, la Palestina, la Cisgiordania, il Kuwait, gli Emirati del Golfo, l’Arabia Saudita, lo Yemen e l’Oman come entità distinte, in maniera largamente artificiale. Hanno inoltre suddiviso il Kurdistan fra la Turchia, l’Iraq, l’Iran e la Siria.
Negli anni cinquanta e sessanta il nazionalismo arabo ha aiutato a ridurre le divisioni, ma da allora in poi governi corrotti e autoritari le hanno esasperate per conservare il proprio potere. In Iraq il partito Ba'ath e Saddam Hussein, basati sulla minoranza sunnita, hanno imposto il proprio dominio alla maggioranza sciita e ai kurdi.

Oggi, cacciato Saddam, la maggioranza sciita pretende un ruolo dirigente nel nuovo governo e i kurdi vogliono l'autonomia nazionale. Ma gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Israele si sentono minacciati dal potere degli sciiti in Iraq, dal momento che potrebbe portare a un blocco con gli sciiti iraniani. E la Turchia si sente minacciata dall'autonomia dei kurdi in Iraq, dal momento che i kurdi potrebbero usare l'Iraq come base per lottare per uno stato indipendente in tutto il Kurdistan, specialmente se detenessero il controllo dei giacimenti petroliferi di Kirkuk.
Gli occupanti hanno ridato , nel 2004, il potere ad una amministrazione irachena, ma questo è stato il larga misura formale e non reale. E in ogni caso ciò non ha risolto le contraddizioni. Il governo è una coalizione tra sciiti e Kurdi e se questi ultimi, per il momento, appaiono alleati fidati degli USA (anche se rimane il problema dei rapporti con la Turchia, che può portare rapidamente ad una guerra che metterebbe in ulteriori contraddizioni gli USA),le forze sciite sono molto composite, includendo alleati stretti del regime iraniano (compreso, per una fase Muqtada Al Sadr, le cui milizie si sono più volte scontrate militarmente con le truppe imperialiste).

Gli Usa e la Gran Bretagna, hanno quindi subito un insuccesso e rimangono impantanati in una situazione da cui non possono uscire se non trasformando tale insuccesso in una sconfitta strategica. Abbiamo già indicato nella prima parte di questo documento l’importanza generale dell’insuccesso imperialista e la necessità per i marxisti di dare un sostegno alla resistenza per la sua valenza oggettiva, ma con chiarezza sulle sue caratteristiche e su quella delle sue direzioni. Nel quadro della divisione tra sunniti e sciiti-kurdi, la resistenza, già marcata da posizioni fondamentaliste e reazionarie è andata, per la gran parte, ulteriormente degenerando su linee etnico-confessionali, con lo sviluppo di una guerra civile interna su tali basi, con ampi fenomeni di terrorismo stragista indiscriminato. Va da sé che i marxisti rivoluzionari condannano tale evoluzione e non si schierano in una lotta fratricida.
Se permane il sostegno ad ogni forma di resistenza contro le truppe imperialiste il nostro compito è di evitare due opzioni opposte. Quella che in nome del carattere reazionario delle forze della resistenza si pone in termini di equidistanza tra essa e gli imperialisti (come la principale forza di estrema sinistra irakena, il centrista Partito Comunista Operaio la cui parola d’ordine nei quartieri popolari è “imperialisti e terroristi andate a fare la vostra guerra lontano da qui” ) e quella, ben presente tra l’estrema sinistra , di idealizzare le attuali forze della resistenza , negandone il carattere politicamente reazionario, antifemminile e antioperaio. La nostra parola d’ordine deve restare “Per un altro programma, un’altra strategia, un’altra direzione, socialista e rivoluzionaria, della resistenza irachena”.

Gli USA e la Gran Bretagna non sarebbero stati in grado di attaccare l'Iraq nel 1991 e nel 2003 se il popolo arabo fosse stato compatto nell'opporsi. L'ostacolo principale a una posizione comune sono stati e sono i governi arabi, dalle monarchie ai nazionalisti borghesi. I capitalisti arabi, la maggior parte delle elites governative, militari e civili, hanno accettato le divisioni imposte dall'imperialismo e le hanno utilizzate a proprio vantaggio. Solo la classe operaia può unificare il popolo arabo attraverso una lotta ad un tempo nazionale e sociale. E solo tale unificazione può creare le condizioni per una liberazione del Medio Oriente dall’oppressione imperialista e dal predominio di posizioni fondamentaliste che è il diretto prodotto del fallimento di quel nazionalismo borghese e piccolo borghese degli anni ‘50-70 in cui tante forze di sinistra, inclusi i revisionisti del trotskismo (dal Segretariato Unificato alla corrente di Ted Grant) avevano poste le loro speranze.

Da nessuna parte ciò che abbiamo detto è più chiaro che in Palestina. Il governo israeliano sta imponendo un regime di separazione per la Cisgiordania e Gaza volto a rinchiudere la maggior parte della popolazione palestinese in “bantustan” (territori nativi) dominati militarmente da Israele ed economicamente dipendenti da esso. I governi arabi non stanno facendo nulla per evitarlo La seconda Intifada nel 2000 ha evitato alla Palestina di scivolare senza resistenza in questa situazione con la copertura degli accordi di Oslo. Ma ciò non basta.

E' possibile che i lavoratori israeliani, costretti a sacrificare i livelli di vita, la sicurezza e anche la vita per mantenere il progetto sionista, in futuro si ribellino, si uniscano ai palestinesi e insieme creino un unico stato in cui ebrei e palestinesi possano vivere in pace e uguaglianza. Ma al momento attuale questo, nonostante il positivo insuccesso del sionismo nella guerra contro Hezbollah e la crisi che ne è seguita in Israele, non appare verosimile. Come i coloni in Nordamerica nel diciottesimo e diciannovesimo secolo o in Algeria e in Sudafrica nel ventesimo secolo, la maggior parte dei lavoratori ebrei hanno abbracciato il sistema coloniale. Molti di loro preferirebbero che Israele si ritirasse all'interno dei confini precedenti al 1967, dando ai palestinesi il 22% del territorio del loro paese. Ma pochi sostengono il diritto al ritorno per i palestinesi o una più equa spartizione.

La prospettiva reale per la liberazione della Palestina è che la classe operaia si ponga alla testa della nazione araba. Sette milioni di palestinesi non possono sconfiggere Israele, ma trecento milioni di arabi potrebbero farlo, isolando i sionisti e costringendo i loro padroni imperialisti ad abbandonarli. Il popolo arabo odia universalmente l'occupazione sionista. Ma per agire deve vincere la resistenza della borghesia araba, che non vuole rischiare i propri privilegi scontrandosi con l'imperialismo e il sionismo. Affinché ciò accada, la classe operaia ha bisogno di superare l’accecamento politico del nazionalismo e del fondamentalismo.
L’impasse drammatica in cui si trova oggi la resistenza palestinese ha la sua lontana origine nella scelta cosciente della sua direzione piccolo borghese arafattista di non porre in questione il dominio delle varie borghesie e feudo-borghesie arabe e porsi sul terreno rivoluzionario dell’unità della nazione araba su nuove basi sociali. La sua successiva degenerazione borghese e proimperialista ne è seguita logicamente. Né costituisce una alternativa a ciò il fondamentalismo reazionario di Hamas, anche se oggi ,dopo esserne stato all’inizio l’agente esso si scontra con sionismo e imperialismo.
Va da sé che in tale scontro i marxisti rivoluzionari sono in solidarietà con chi si oppone all’imperialismo e al colonialismo, ma senza alcuna illusione e alcun appoggio politico. Così nella guerra civile palestinese in sé i marxisti rivoluzionari non possono schierarsi con nessuno dei due contendenti borghesi e reazionari.

I marxisti rivoluzionari continuano a porre nel loro programma la distruzione dello stato sionista, il rientro dei profughi, l’autodeterminazione nazionale del popolo arabo di Palestina, con la sola garanzia per la popolazione ebraica di poter permanere in Palestina con i pieni diritti democratici. Per questo si oppongono frontalmente alla soluzione dei “due popoli, due stati”, che comunque coniugata, nel quadro attuale significa semplicemente l’accettazione del mantenimento, in forma più o meno acuta, dell’oppressione sionista sul popolo palestinese e la negazione della sua liberazione nazionale.
Su un altro piano criticano anche la posizione, che nel quadro dell’impasse attuale, si sta sviluppando in settori intellettuali della sinistra sia arabo palestinese che ebraico israeliana; posizione che rivendica sì uno stato unico, democratico e laico con il rientro dei profughi, ma con un’utopistica ottica pacifista, bypassando il problema della distruzione rivoluzionaria dello stato sionista, ipotizzando che una politica di sanzioni con pressione sugli imperialisti e i capitalisti del mondo possa portare ad una soluzione di stato unico e democratico, nel quadro di un regime capitalista. Il loro esempio affermato è il Sudafrica. Ma a prescindere dal giudizio sulla situazione attuale in quel paese (su cui torneremo nel capitolo sull’Africa) è il parallelo che non ha basi In Sudafrica esisteva un capitalismo razzista basato sul lavoro degli operai neri che costituivano la maggioranza della popolazione lavoratrice. La lobby pro-sudafricana nel mondo era infinitamente più debole di quella sionista. E in realtà i settori del capitalismo sudafricano più significativi nel quadro del capitalismo finanziario mondiale erano a favore del superamento dell’aparthaid per risolvere le contraddizioni e massimizzare i profitti e così anche le grandi multinazionali . E questo ha fatto sì che di fronte alla crisi del regime boero a causa alla rivolta dei neri, l’imperialismo sponsorizzasse il cambiamento. Nulla di paragonabile esiste in Israele. Benchè utilizzi marginalmente il lavoro arabo lo stato sionista è fondamentalmente uno stato basato sull’esclusione etnica totale.

Per questo l’unica vera prospettiva per una Palestina unica, laica e democratica è quella di una Palestina socialista nell’ambito di un Medio Oriente Socialista . E per questo, oggi come 60 anni fa, la chiave di volta è la costruzione, contro fondamentalismo e nazionalismo, di partiti marxisti rivoluzionari, e la conquista da parte di questi della classe operaia e degli oppressi a tale prospettiva.

AMERICA LATINA

Nell’ultimo decennio l’America latina è stata la regione politicamente più esplosiva del mondo. L’imposizione delle politiche neoliberiste da parte dell’imperialismo ha colpito in modo particolarmente acuto quest’area del mondo, dal momento che essa era troppo sviluppata per competere con la maggior parte dell’Asia sulla base dei bassi salari e al tempo stesso non è abbastanza sviluppata per competere con i paesi imperialisti sulla base dell’alta produttività. Le politiche neoliberiste con le loro drammatiche conseguenze hanno perciò provocato risposte di classe e nazionali, che hanno in parte cambiato il quadro della situazione continentale. Una situazioni che pur con enormi contraddizioni (la più grande risulta la situazione brasiliana) si può definire come prerivoluzionaria.
Le caratteristiche generali della fase hanno però agito anche nella situazione latinoamericana. Per questo, in generale, la classe operaia industriale ha avuto difficoltà ( con l’importante eccezione della Bolivia) ad assumere un ruolo egemonico nei movimenti di radicalizzazione di massa, che hanno visto come protagoniste principali le masse semiproletarie - in particolare i disoccupati- e , a volte, anche settori della piccola borghesia. La classe operaia non è stata assente a livello di partecipazione - a volte importante, a volte marginale- in tale movimenti di radicalizzazione, ma appunto, salvo in Bolivia, non con il un ruolo centrale; ciò che ne ha limitato la portata.
Nell’ultima fase tuttavia , in alcuni paesi tra i più importanti - come il Perù e soprattutto il Cile- si è avuto uno sviluppo di lotte radicali con al centro il proletariato industriale. E’ logico considerare ciò non come un elemento casuale, ma come un indicatore di un processo che tenderà a svilupparsi nei prossimi anni

L’esempio più chiaro di ciò abbiamo cercato di indicare precedentemente si ha analizzando la situazione del processo rivoluzionario argentino del 2001-2002.
Il relativo sviluppo dell’Argentina ha creato una forte classe operaia con un movimento operaio militante dai forti toni nazionalisti, storicamente espressi, (a causa del fallimento storico della socialdemocrazia e dello stalinismo negli anni 40, per le loro posizioni proimperialiste) dal Partido Justicialista (PJ), peronista, e dalla sua alleata Confederacion Nacional del Trabajo (CGT).
Dal 1989 al 1999, sotto il governo neoperonista di Carlos Menem, i capitalisti argentini hanno abbandonato la vecchia politica di sviluppo e abbracciato il neoliberismo. Invitarono le multinazionali statunitensi ed europee e contrassero enormi debiti, cercando di posizionare se stessi come i gestori e i partner minori dell’imperialismo, un’aspirazione espressasi nella politica di Menem di parità fra peso e dollaro.

Nel 1999 fu eletto presidente Fernando De la Rua, dell’Alianza di centrosinistra, come reazione popolare contro il neoliberismo inflessibile di Menem con le sue disastrose conseguenze (licenziamenti, disoccupazione di massa, distruzione dello stato sociale). De la Rua cercò senza successo di riconciliare le aspirazioni degli argentini con le richieste dell’imperialismo di austerità e di pagamento del debito. La crisi giunse a un massimo nel dicembre del 2001
Per diversi anni i lavoratori e le masse argentini hanno lottato contro le politiche neoliberiste con una serie di scioperi generali, i blocchi stradali dei disoccupati (piqueteros) e con grandi dimostrazioni.
De la Rua tentò di risolvrere la situazione congelando i depositi bancari, cosa che spinse nelle strade le classi medie argentine per difendere i loro risparmi e i poveri per reclamare la possibilità stessa di mangiare.
De la Rua cercò senza successo di controllare l’ “Argentinazo” del 19-20 dicembre dichiarando lo stato d’assedio e mandando la polizia contro i dimostranti. Ma fallì e dovette scappare.

Le masse in rivolta sono andati molto avanti nel dicembre-gennaio 2001/02, creando l’embrione di dualismo di poteri delle assemblee popolari. Si trattava però di strutture essenzialmente territoriali o di disoccupati e non di fabbrica. La partecipazione diretta al processo di autoorganizzazione di massa, a parte i militanti operai delle organizzazioni d’avanguardia, si è limitato al movimento delle fabbriche occupate. Fenomeno importantissimo, ma che ha coinvolto un settore estremamente limitato della classe stessa. E’ così che la possibile e auspicata “seconda ondata” operaia che, nell’anno successivo all’Argentinazo avrebbe dovuto prendere il testimone dal movimento di massa a prevalenza semiproletaria, non è mai arrivata e per questo la rivoluzione è rifluita.

In tale avvenimento c’è stato certo un ruolo delle organizzazioni sindacali che hanno tutte accettato l’unità nazionale con il nuovo governo peronista del presidente Duhalde. E contro cui si è scontrato il movimento di autoorganizzazione dei disoccupati e dell’avanguardia operaia (Assemblea nazionale dei lavoratori occupati e disoccupati), in cui ha avuto un ruolo egemonico il Partito Operaio (PO) e il suo fronte di masse Polo Obrero.
Ma certamente il fattore principale è stato il fatto che in generale gli operai argentini non si sentivano nelle condizioni, di fronte alla crisi, di sviluppare lotte radicali e che essa, se aveva contribuito a mobilitare altri settori oppressi, non li spingeva alla lotta, ma al contrario li bloccava.
La ripresa argentina degli ultimi anni, basata sulla svalutazione massiccia del peso e quindi bassi salari (soprattutto in riferimento al costo internazionale del lavoro) ha portato ad alcune riprese di lotta, ma per il momento molto limitate. Ciò non toglie che l’esperienza dell’ascesa rivoluzionaria del 2001/2002, pur con i suoi limiti, dell’autorganizzazione democratica dell’avanguardia classista e il rafforzamento del PO sono elementi che possono giocare positivamente in una futura ascesa

E’ in Bolivia, come detto, che il processo rivoluzionario è stato più acuto
La Bolivia è molto meno sviluppata dell’Argentina o del Brasile ma ha una più forte tradizione rivoluzionaria della classe operaia. Ancora oggi il programma formale del movimento sindacale è rappresentato dalle tesi del congresso di Pulacayo del Sindacato dei minatori (1947), scritte dai dirigenti trotskisti che vi avevano una forte influenza e che è sostanzialmente una versione popolarizzata del Programma di Transizione. Nel movimento operaio l’influenza ideologica del trotskysmo è generale. Diverso il quadro politico in cui la crisi della IV Internazionale ha agito negativamente. Lo storico Partito Operaio Rivoluzionario (non affiliato ad alcuna delle principali correnti del movimento internazionale) che pure ha goduto in alcuni momenti di una limitata ma non insignificante base di massa si è marginalizzato, oscillando tra opportunismo e settarismo ( in particolare nei vari momenti di crisi rivoluzionaria, rifiutando di porre all’ordine del giorno la presa del potere da parte dei lavoratori, a volte adattandosi a compromessi con forze nazionaliste piccolo borghesi o riformiste, a volte dichiarando che la classe operaia non è ancora “matura” per la dittatura del proletariato).

La rivoluzione del 1952, nella quale la Central Obrera Boliviana (COB) giocò un ruolo centrale, spinse alla nazionalizzazione delle miniere di stagno e alla ripartizione ai contadini aymara e quechua di grandi estensioni di terra dai maggiori latifondisti. Tradita dal nazionalismo la rivoluzione, la lotta riprese , culminando nella rivoluzione del 1970-71, che sia pur sconfitta, spinse alla nazionalizzazione della produzione petrolifera (la seconda , la prima, poi cancellata, era stata negli anni ’30 da parte di un governo militare “socialista” , che persino nel nome del partito che creò- socialista unificato – fu una lontana e dimenticata anticipazione del chavismo).
Nel 1984, di fronte alle prime offensive “neo liberiste” i minatori marciarono su La Paz occupandola con l’appoggio della popolazione operaia e semiproletaria, mettendo in crisi l’esercito e finendo sconfitti solo per mancanza di direzione.
Dal 1985 la classe operaia boliviana è stata decimata dal crollo della produzione di stagno e di petrolio e il governo cominciò a smantellare sistematicamente le sue conquiste, imponendo la prima “terapia d’urto” neoliberista in America latina. Il governo privatizzò le miniere di stagno, riorganizzò la compagnia petrolifera statale e cercò di sradicare la produzione di coca.

Alla fine degli anni novanta la lotta è ripresa per opera degli insegnanti e dei coltivatori di coca piuttosto che dei minatori. Nel gennaio 2000 la Bechtel Corporation, che aveva ottenuto una concessione quando il governo ha privatizzato i servizi idrici e sanitari a Cochabamba, ha raddoppiato i prezzi dell’acqua, provocando dimostrazioni e barricate che hanno spinto il governo a cancellare la concessione.
Nel settembre 2003 il governo ha annunciato che un consorzio anglo-spagnolo avrebbe costruito un oleodotto attraverso il Cile per esportare il gas naturale boliviano in Nord America. Sono scoppiate dimostrazioni di massa e scioperi quando i lavoratori, i contadini, gli studenti e gran parte delle classi medie hanno cominciato a protestare per il saccheggio dell’ennesima risorsa boliviana. L’egemonia qui è stata ripresa centralmente dalla classe operaia, i minatori e il proletariato delle piccole e medie fabbriche di La Paz e El Alto.
Ci sono stati scontri armati. L’esercito si è diviso e il presidente Sanchez De Lozada, come de La Rua in Argentina, è fuggito da un palazzo circondato dalla folla, in questo caso largamente composta da operai, molti dei quali armati. Ma nessun dirigente proletario ha saputo dare l’indicazione corretta e possibile: occupare i palazzi delle istituzioni e proclamare un governo operaio e contadino. Così i leaders, della sinistra nazionalista e “indigenista” piccolo borghese, il riformista Morales e il centrista Quispe, con il leader “rivoluzionario” della COB Jaime Solares hanno accettato una “soluzione costituzionale” .
Questo ha spinto le masse boliviane a raccogliersi dietro Morales e il suo Movimento al socialismo, portandolo alla vittoria elettorale (nonostante la posizione astensionista della direzione della COB, che, in assenza di candidatura operaia alternativa, ha solo contribuito ad indebolirla tra le masse).

Morales ha sviluppato una politica “progressista” marcata da un forte populismo e dalla rivendicazione delle origini indie della Bolivia.
In questo quadro ha realizzato la terza nazionalizzazione del petrolio Ma più che nelle occasioni precedenti, questa nazionalizzazione si è sviluppata in assoluto compromesso con l’imperialismo e le stesse multinazionali petrolifere. Ad esse permane il controllo pieno della raffinazione e commercializzazione , fonte di enormi profitti. Naturalmente ogni nazionalizzazione ha in sé un aspetto progressista, ma non si deve per nessuna ragione confondere le nazionalizzazioni borghesi, funzionali ad un migliore sviluppo di un paese capitalista dipendente (ma non solo, si pensi alle misure dell’epoca del boom postbellico in alcuni paesi imperialisti) con una via graduale al socialismo.
Torneremo meglio su questi concetti parlando della situazione venezuelana.

Il Brasile è passato attraverso una grande ascesa della classe operaia alla fine degli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta, che contribuì alla caduta della dittatura militare che aveva governato dal 1964 al 1985 e portò a sostanziali conquiste per i lavoratori e il popolo brasiliano.
L’ascesa si espresse in tre organizzazioni: il Partito dei lavoratori (PT), formato nel 1980, la Central Unica de Trabalhadores (CUT), formata nel 1983, e il Movimento Sem Terra (MST), nato nel 1984.

Alla fine degli anni ottanta, l’ascesa declinò, e gli effetti di una situazione mondiale sfavorevole raggiunsero anche il Brasile.
Il PT,e la CUT , quando la lotta rifluì, divennero sempre più moderati.
In realtà questo era l’inevitabile prodotto della natura stessa del PT fin dalle sue origini. La sua nascita ha rappresentato ovviamente una conquista positiva per la classe operaia brasiliana. Ma un partito operaio, senza basi teorico-programmatiche solide e senza progetto strategico, tende inevitabilmente a degenerare in senso riformista di collaborazione di classe. Solo la conquista del PT da parte dei marxisti rivoluzionari avrebbe potuto salvaguardarlo da questa evoluzione. ( Questione che svela l’opportunismo dei revisionisti del Segretariato unificato che fino al 2002 hanno presentato internazionalmente il PT come modello del partito futuro per ogni paese –e anche di una nuova internazionale che avrebbe superato “pluralisticamente” il modello leninista e che si sarebbe posta su quel terreno di “rivoluzione democratica radicale” che sostituiva, per una fase storica, quella socialista)

Deciso a vincere nelle elezioni del 2002 Lula ha promesso che il suo governo avrebbe continuato le politiche neoliberiste e “onorato gli accordi” con il FMI e le altre istituzioni capitalistiche. José Alencar, del Partido Liberal, un grande imprenditore tessile, fu scelto come candidato vicepresidente e Lula ottenne l'appoggio di molti capitalisti.
Dopo l’insediamento nel gennaio del 2003, cominciò ad attuare gli impegni che si era assunto. Varò la riforma che garantisce l’autonomia della banca centrale, affidandola a un banchiere privato; sostenne l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla banca malgrado gli effetti negativi che questa misura avrebbe avuto sugli investimenti interni e sul consumo; aumentò l’obiettivo dell’avanzo primario di bilancio dal 3,75 al 4,25 % del prodotto interno lordo; sostenne la legge che tagliava le pensioni pubbliche e l’innalzamento dell’età della pensione, e cominciò a lavorare alla riforma del lavoro per dare agli imprenditori più “flessibilità” e rendere più competitiva l’industria brasiliana.
Mentre nulla ha fatto contro il latifondo, lasciando la situazione inalterata, con settori di braccianti che lavorano in condizione semischiavistiche (e questa è la realtà su cui governa il ministro della riforma agraria, Rossetto, dirigente del settore di maggioranza della sezione brasiliana del Segretariato Unificato , che vergognosamente continua ad accettare questi rinnegati riformisti nelle proprie file).

La politica di Lula ha provocato una reazione nel PT con l’uscita dei suoi settori più a sinistra. Ma il prodotto non è stato un partito rivoluzionario e neanche centrista. Il Partito del Socialimo e della Libertà (PSOL) è solo una forza riformista di sinistra che addirittura si basa su un programma meno avanzato del PT delle origini (e certamente con una base meno classista).
Dal canto suo il MST, pur protestando contro il mancato sviluppo della riforma agraria, non ha saputo rompere il suo legame con il PT e quindi non ha mai veramente lanciato l’annunciata offensiva generale per la riforma, che avrebbe portato ad uno scontro frontale con il governo, limitandosi a mantenere una lotta “a bassa intensità”.
In questo quadro la classe operaia, numericamente la più importante dell’America Latina, per il momento appare “la grande addormentata” tra i proletariati del continente.

La politica di Lula continua tuttora nei termini borghesi descritti, in pieno accordo con l’imperialismo. In realtà questa è stata la politica dell’insieme delle forze di matrice socialdemocratica nel continente, come si può vedere anche in riferimento a Tabarè Vazquez in Uruguay e a Bachelet in Cile.

E’ di fronte al desolante quadro della politica della sinistra tradizionale che una esperienza nazionalista piccolo borghese, ammantata di socialismo, come quella di Chavez in Venezuela è potuta apparire a molti come radicale e rivoluzionaria
Nella decade trascorsa la politica venezuelana è stata dominata dalla figura di Hugo Chavez che ha tentato senza successo un colpo di stato militare nel 1992 ed è stato eletto presidente col il 55% dei voti nel 1998 e rieletto con il 70% nel 2000 e oltre il 60% nel 2006. Chavez ha guidato quella che egli chiama rivoluzione bolivariana, un movimento populista e nazionalista, prodigo di retorica ma parco di risultati.

L’imperialismo statunitense vede il Venezuela come un paese di importanza strategica in ragione del suo petrolio, della popolazione relativamente numerosa, di un’economia relativamente sviluppata e della sua posizione geografica.
Sebbene Chavez non abbia mai minacciato di tagliare il petrolio, l’imperialismo statunitense lo vede come un demagogo inaffidabile che sarebbe preferibile rimpiazzare.
L’oligarchia venezuelana, che è sostenuta dal governo degli Stati uniti e usufruiva dell’alleanza opportunista della vecchia Confederacion de Trabajadores de Venezuela (CTV), appoggiata dalla piccola borghesia urbana e anche da settori di aristocrazia operaia, ha cercato nell’aprile del 2002 di abbattere Chavez con le dimostrazioni di massa e con un colpo di stato militare e nel periodo dicembre 2002-febbraio 2003 con nuove dimostrazioni e con la serrata padronale. Il tentativo è fallito, perché le masse povere semiproletarie e la maggioranza dei lavoratori si sono mobilitate per difendere Chavez e molti militari gli sono rimasti leali. E oggi Chavez è realmente in una posizione di forza, che gli permette di applicare a pieno la sua politica.

Una politica cui abbiamo fatto riferimento precedentemente in questo testo. Una linea di ridistribuzione molto moderata e in nessun senso anticapitalistica. Statalizzazioni limitatissime con ricchi indennizzi (addirittura a livello dei prezzi massimi di borsa), accordi di compromesso con le grandi compagnie petrolifere, rispetto del latifondo a condizione che sia “produttivo”. Una politica molto al disotto delle realizzazioni delle esperienze passate di regimi piccolo borghesi o addirittura borghesi nazionalisti in molti paesi del mondo (Egitto, Siria, Algeria, etc in Medio Oriente, Perù al tempo del regime militare “progressista” di Velasco Alvarado nei primi anni ’70 o Bolivia dopo la rivoluzione del 1952 con il MNR al potere).
Che si accompagna con la strategia populista delle “missioni”, cioè, al posto dei diritti universali, interventi mirati di miglioramento della situazione in realtà specifiche. Ciò che ha il vantaggio di costare poco, non necessitare di alcuna azione anticapitalistica e rendere popolari tra masse povere prive di una coscienza di classe rivoluzionaria (è il metodo di Evita Peron, anche se sul piano normativo il peronismo era andato più avanti rispetto ai diritti della classe operaia).
Non è un caso, in questo quadro, che la borsa di Caracas sia quella che ha avuto negli ultimi anni i maggiori rendimenti nel mondo.

Tanto più misera è la sostanza della politica sociale di Chavez, tanto più forte deve essere la sua demagogia “rivoluzionaria”. E tanto più netto, per cercare di governare le contraddizioni il progetto bonapartista del leader bolivariano (rieleggibilità senza limiti, etc).
Del resto pur dichiarandosi di volta in volta guevarista, maoista e trotskista (ma sempre e soprattutto cristiano, bacio del crocefisso incluso) e favorevole alla rivoluzione permanente e al socialismo, ha voluto subito precisare che resta contrario alla Dittatura del Proletariato e alla abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione; cioè in linguaggio normale… alla rivoluzione permanente ed al socialismo.
La realtà della natura sociale del regime venezuelano (e boliviano) si manifesta con chiarezza oggi anche nella costituenda Banca do Sur che vede accanto alle “radicali” Venezuela e Bolivia e Ecuador (?) non solo i moderati Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, ma anche con ogni probabilita la reazionaria Colombia. Si tratta di una alleanza di stati borghesi, uniti nella loro volontà di trovare un maggiore riequilibrio economico con l’imperialismo, nel quadro del perdurare del dominio di quest’ultimo.

La questione dell’atteggiamento nel confronto del chavismo è oggi questione fondamentale per i marxisti rivoluzionari non solo in America Latina, ma nel mondo.
Una cosa è difendere il Venezuela contro l’imperialismo e i suoi agenti interni (compresi gli ex guerriglieri guevaristi degli anni ’60 ignobilmente passati, con altri settori di “estrema sinistra”, incluso , parti importanti degli iniziali sostenitori di Chavez, nel fronte della reazione borghese ); essere in prima fila tra le masse nella lotta contro i tentativi golpisti e per la difesa e lo sviluppo delle conquiste realizzate, per limitate che esse siano. Questo per i marxisti rivoluzionari è una questione di principio.
Ancora, una cosa è votare, in assenza di una candidatura marxista rivoluzionaria o almeno operaia classista per Chavez o addirittura entrare, in funzione di una battaglia politica rivoluzionaria (se possibile) nel nuovo PSUV. Qui si tratta di scelte tattiche da determinarsi nel concreto.
Un’altra cosa è offrire sostegno politico a Chavez, al suo regime, alla sua politica. In questo caso si tratterebbe di abbandono dei principi di base.

Non è la prima volta - e non sarà verosimilmente l’ultima - in cui i marxisti rivoluzionari si sono trovati di fronti a forze politiche piccolo borghesi che si mascherano da socialiste o addirittura da comuniste. La terza internazionale affrontò nel suo II° congresso la questione, affermando in una risoluzione scritta da Lenin:
“E' necessario combattere energicamente contro i tentativi, messi in atto da movimenti di emancipazione che non sono in realtà né comunisti né rivoluzionari, di inalberare i colori comunisti; L'Internazionale comunista non deve sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati che se gli elementi dei più puri partiti comunisti -comunisti nei fatti- siano raggruppati e coscienti dei loro compiti particolari, cioè della missione di combattere contro il movimento borghese e democratico. L'Internazionale deve intrattenere relazioni temporanee e realizzare anche unioni con i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati, senza tuttavia mai fondersi con essi e conservando sempre il carattere indipendente del movimento proletario

LENIN ( "tesi sulle questioni nazionale e coloniale” del secondo congresso dell'Internazionale Comunista, 1920)

Ma non è necessario scomodare Lenin per conoscere come i comunisti devono comportarsi nei confronti dei piccolo borghesi “radicali”. Sono Marx ed Engels che, alla nascita del nostro movimento, hanno indicato, a partire dalla logica del programma dei comunisti, quale può essere l’unica strategia possibile. Lo hanno fatto nel testo in cui pongono le basi della concezione della Rivoluzione Permanente.
Ecco cosa scrivono Marx ed Engels riguardo all’atteggiamento da tenere da parte del proletariato rispetto ai potenziali antenati di Chavez, (in una ipotesi di sviluppo della rivoluzione tedesca che in concreto non si realizzò, ma indicando un metodo strategico essenziale):
“Abbiamo visto come i democratici , giungendo al potere nel prossimo movimento rivoluzionario, saranno costretti a proporre delle misure più o meno “socialiste”. Ora si domanderà: che misure dovranno proporre a loro volta gli operai?
Naturalmente al principio del movimento gli operai non potranno ancora proporre misure direttamente comuniste. Ma essi possono:
1) costringere i democratici a intervenire da quanti più parti sarà possibile nell’ordinamento attuale della società, a disturbarne il corso regolare, a compromettersi, come pure a concentrare nelle mani dello stato il più gran numero di forze produttive, mezzi di trasporto, fabbriche, ferrovie, ecc.
2) essi debbono spingere all’estremo le misure proposte dai democratici [………..] e a trasformarle in attacchi diretti alla proprietà privata. Così ad esempio, quando i piccolo borghesi proporranno di acquistare le ferrovie e le fabbriche, gli operai dovranno reclamare che tali ferrovie e fabbriche siano confiscate dallo stato puramente e semplicemente, senza risarcimento, come proprietà di reazionari. Se i democratici proporranno l’imposta proporzionale; se i democratici proporranno essi stessi una imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per una imposta così rapidamente progressiva che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello stato, i proletari reclameranno che lo stato faccia bancarotta. Le richieste degli operai dovranno sempre regolarsi sulle concessioni e le misure dei democratici.[……….]essi stessi devono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccolo borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato.
Il loro grido di battaglia deve essere: la rivoluzione in permanenza”

Qui non si tratta di problemi tattici., né di confronti teorici. Chi si pone su un terreno di sostegno al chavismo, anche nella remota ma non impossibile ipotesi che esso radicalizzasse la sua politica (come fecero in decenni lontani, ad es il FNL algerino o il MPLA angolano), viene meno alla battaglia elementare per l’indipendenza di classe e abbandona nei fatti il marxismo, la rivoluzione permanente e la lotta reale per il comunismo. Per questo oggi (come altre situazioni in passato, si veda la questione dei fronti popolari) questa questione traccia una linea di confine. Chi, pur richiamandosi al marxismo rivoluzionario, appoggia politicamente il bonapartismo piccolo borghese chavista è perso per la battaglia per la ricostruzione dell’Internazionale rivoluzionaria del proletariato. Mentre tutti coloro che, in particolare in America Latina difendono l’indipendenza di classe e una reale prospettiva socialista, possono essere interlocutori in tale prospettiva.

Uno dei più importanti eventi dell’ultimo periodo in America Latina è rappresentato da quella che è stata definita “la comune di Oaxaca” in Messico.
Il Partido Revolucionario Institucional (PRI), il partito della rivoluzione messicana, ha retto il Messico per molti decenni su basi corporative, barcamenandosi fra i capitalisti e i lavoratori, i latifondisti e i contadini, gli imperialisti e il popolo messicano, prendendo per sé una grande fetta della ricchezza del paese.
Dagli anni novanta le classi dominanti degli Stati uniti e del Messico non hanno più visto alcuna ragione per tollerare il corporativismo e la corruzione del regime del PRI. Esse hanno cominciato a premere per una politica economica neoliberista e per un sistema politico più trasparente che esse potessero controllare più facilmente. Il PRI diede via libera, dando attuazione nel 1994 al North American Free Trade Agreement (NAFTA) e consentendo al proprio candidato Francisco Labastida di perdere le elezioni presidenziali del 2000 a favore di Vicente Fox del conservatore e neoliberista Partido de Accion Nacional (PAN).

La lotta popolare si è riattivata in Messico con la rivolta in Chiapas nel 1994 ad opera dell’Ejercito Zapatista de Liberacion Nacional (EZLN) e con l’elezione di Cuauhtemoc Cardenas, del Partido de la Revolucion Democratica (PRD), a sindaco di Città del Messico nel 1997. Ma l’EZLN non ha mai cercato di avanzare un’alternativa di governo, e il PRD ha da lungo tempo accettato il neoliberismo. Cardenas, non offrendo alcuna alternativa a Labastida o a Fox, arrivò soltanto terzo a distanza nelle elezioni del 2000. Di fronte al discredito degli altri due partiti Lopez Obrador, il candidato del PRD ha avuto, con ogni probabilità, la maggioranza alle elezioni presidenziali del 2006, ma i brogli elettorali hanno dato la vittoria legale a Calderon del PAN. Obrador si è opposto alla frode elettorale, ma alla fine ha limitato il movimento.
E’ in questo quadro che si è sviluppata la lotta di Oaxaca contro il suo corrotto governatore (del PRI) che è durata mesi, ha creato una situazione di doppio potere ed è stata sconfitta solo con la repressione armata. E’ stato un esempio luminoso, ma purtroppo non ha trovato corrispettivo a livello nazionale in un processo di rivolta di massa a livello dell’intera Messico. Questo è stato dovuto in parte al ruolo negativo giocato dal PRD che controlla la maggioranza dei settori popolari, ma anche alla debolezza di una classe operaia che ancora non si è liberata, nella sua maggioranza, dal controllo della vecchia burocrazia sindacale corporativa e criminale.
Tuttavia la situazione messicana resta altamente instabile, con le masse globalmente non sconfitte ed esiste la possibilità di ulteriori sviluppi della situazione politica e sociale in termini di ascesa di massa.


ASIA

Abbiamo ampiamente fatto riferimento alla situazione cinese precedentemente. Aggiungiamo che il congresso del PCC non sembra aver modificato nulla di sostanziale nel quadro generale indicato di capitalismo in consolidamento con un regime totalitario a matrice stalinista.
Il processo di restaurazione del capitalismo ha prodotto come riconosciuto a parole dagli stessi dirigenti cinesi “grandi sofferenze e ingiustizie umane e sociali”. Contro tutto ciò si sono sviluppate migliaia di mobilitazioni operaie e contadine. Che si sia trattato di difesa di terre sotto esproprio per speculazioni industriali o edilizie, o di lotta contro la chiusura di fabbriche pubbliche, milioni di cinesi sono scesi in lotta, a volta ottenendo risultati parziali. Si tratta di un fattore di speranza per il futuro. Ma al momento queste lotte sono troppo parcellizzate per rappresentare un fattore politico importante. Lo stato totalitario consolidato dopo il 1989 è uno strumento di controllo e repressione quasi perfetta. Pesa del resto proprio la sconfitta della lotta del 1989, che lungi dall’essere stata solo una rivolta studentesca, costituì un vero processo di rivoluzione politica, con una larga partecipazione operaia.
E naturalmente pesa la mancanza di significative organizzazioni sindacali o politiche di sinistra, fosse pure embrionali e/o clandestine (la modesta presenza trotskysta ad Hong Kong non costituisce certo un antidoto a ciò).

Il paese asiatico in cui negli ultimi anni si è avuto il maggior sviluppo rivoluzionario, anzi una rivoluzione vera e propria è stato il Nepal. Generalmente si è avuta scarsa attenzione a questo importantissimo evento a causa dell’importanza molto modesta del paese himalyano nel quadro economico-sociale internazionale. Ma quello che è avvenuto è una lezione importante rispetto allo scetticismo sulle possibilità di rivoluzione proletaria in questa fase storica.
In Nepal un movimento insurrezionale urbano del proletariato e semiproletariato di Katmandu, spinto da un movimento di guerriglia rurale di tipo "cinese" ha sconfitto il regime reazionario monarchico. Esso è stato bloccato da un "fronte popolare" in cui si sono inseriti i maoisti radicali del PCN di Prachenda –(quelli "ufficiali" l'Unione Marxista Leninista, si erano già inseriti nel governo borghese da molti anni). La situazione non si è ancora stabilizzata, anche perché recentemente il PCN ha rotto con il fronte popolare, accusando i partiti borghesi di non voler liquidare la monarchia e costruire la repubblica (obbiettivo primario della rivoluzione “democratico popolare”, sostenuta come strategia da Prachenda).
Nel contempo il radicale PCN ha costituito un blocco per le prossime elezioni con gli opportunisti tradizionali dell’ Unione Marxista Leninista, il che sembra limitare il senso complessivo della rottura con il fronte popolare.
In ogni caso la situazione rivoluzionaria nepalese non sembra aver detto la sua ultima parola.

La Birmania ha visto negli ultimi mesi un nuovo sviluppo di un movimento popolare di massa contro il regime militare. Tale movimento ha ripreso la grande rivolta del 1988 degli studenti e operai birmani contro il reazionario “socialismo buddista” militare che aveva ai suoi inizi confuso a sinistra alcuni pseudomarxisti (è il caso della tendenza diretta da Ted Grant, in Italia Falcemartello, che aveva parlato di “stato operaio”, evidentemente per questi revisionisti la passione per la divisa militare è un vecchio vizio).
Il carattere democratico-borghese e certamente non antiperialistadella principale forza di opposizione. la Lega per la democrazia di Ang Son Su-chi, non cambia niente alla positività della lotta del popolo e dei lavoratori birmani contro il regime, a condizioni che le forze di sinistra, mantengano in essa la loro indipendenza politica.
Ad ogni modo, anche questa volta, e anche più nettamente che nel 1988, sembra purtroppo che il totalitarismo del regime sia rimasto senza contraddizioni interne significative e la repressione violenta ha, ad oggi, avuto ragione della mobilitazione popolare.


AFRICA

Negli ultimi due decenni l’Africa subsahariana ha sofferto più di ogni altra regione del mondo. L’imperialismo ha storicamente sfruttato la manodopera e le ricchezze naturali dell’Africa, dapprima mediante le colonie e in seguito mediante semicolonie nominalmente indipendenti. Quando esisteva l’Unione sovietica, gli imperialisti cercavano di mantenere Stati relativamente coesi, società stabili e governi affidabili per contenere l’influenza dei movimenti di liberazione nazionale e dei regimi piccolo borghesi sostenuti dall’Unione sovietica.
Quando gli Stati Uniti sono diventati l’unica superpotenza, essi hanno tagliato l’aiuto economico e militare e in generale hanno ignorato l’Africa salvo per quanto è necessario per garantirsi gli accessi alle risorse e per placare l’opinione pubblica interna.
La Gran Bretagna e la Francia hanno ricavato dei vantaggi dalla riluttanza degli USA ad estendere la loro presenza nei loro vecchi possedimenti coloniali, ma essi sanno che non possono chiudere l’Africa ai loro concorrenti e non vedono ragioni per fare più di quanto sia necessario per garantirsi l’accesso alle risorse.

Il Sudafrica rappresenta una parziale eccezione nell’Africa subsahariana. Il clima temperato del paese, la ricchezza di risorse naturali e la popolazione relativamente scarsa ne hanno fatto prima di altre regioni un obiettivo dell’insediamento europeo su larga scala. I coloni vi portarono la tecnologia, il capitale e le relazioni che consentirono di sviluppare l’agricoltura, le attività minerarie e l’industria manifatturiera ben al di là di quanto i padroni europei dell’Africa abbiano permesso altrove. I coloni svilupparono un sistema di “capitalismo razzista” basato sulla segregazione razziale (apartheid) nel quale i bianchi erano capitalisti, managers, professionisti e lavoratori qualificati e vivevano secondo standard europei; gli indiani e i meticci integravano i bianchi a un livello più basso; mentre i neri fornivano il lavoro dequalificato e vivevano nella povertà e nell’oppressione.
L’African National Congress (ANC), un organizzazione nazionalista piccolo borghese, con una vocazione di fronte popolare, influenzato dallo stalinismo, ha guidato la lotta contro il regime di apartheid. Gli imperialisti e settori della classe dominante sudafricana si sono resi conto che avrebbero potuto controllare il Sud Africa in modo più efficace mediante un governo nero subordinato che attraverso un governo di coloni bianchi. All’inizio degli anni novanta essi realizzarono un accordo con l’ANC per stabilire tale governo e lo imposero ai bianchi recalcitranti. Nel 1994 Nelson Mandela dell’ANC divenne presidente, seguito nel 1999 da Thabo Mbeki.

Il Sudafrica del dopo apartheid è ancora una società divisa in due. La maggior parte dei capitalisti, dei managers, dei professionisti e dei lavoratori qualificati sono sempre bianchi e vivono secondo standard europei, sebbene un piccolo numero di neri, indiani e meticci siano diventati capitalisti e molti siano diventati managers, professionisti e lavoratori qualificati. I neri forniscono ancora la maggior parte della forza lavoro dequalificata e vivono in povertà, sebbene con meno oppressione adesso che l’apartheid è stato formalmente abolito. Metà della popolazione attiva è disoccupata o semioccupata nelle campagne o nelle baraccopoli e il 20% della popolazione è contagiata dall’HIV.
L’accordo con cui l’ANC è diventata il partito di governo di un governo proimperialista e gli imperialisti e i bianchi hanno conservato gran parte del loro potere economico e dei loro privilegi, ha causato un grande risentimento e ha condotto a molti scioperi e manifestazioni. Ma l’ANC ha avuto la capacità di disinnescare questa minaccia grazie all’autorevolezza che le deriva dalla lotta contro l’apartheid. I suoi alleati – il Congresso dei Sindacati Sudafricani (COSATU) e il Partito comunista sudafricano (SACP) – hanno guidato molte di queste lotta alla sconfitta, dal momento che essi non volevano rompere con l’ANC. Così il Sudafrica è stato un esempio condensato di quello che è il paradigma generale degli anni novanta/duemila: il capitalismo neoliberista in vesti democratico-borghesi.

Il resto dell’Africa subsahariana è andata peggio, soffrendo un grave arretramento economico, l’estrema povertà, la malnutrizione, la diffusione dell’AIDS, della malaria, della tubercolosi e di altre epidemie, i conflitti etnici e le guerre..
Questo quadro ha riguardato non solo i paesi in mano ai corrotti regimi proimperialisti, ma anche quelli dove hanno trionfato i movimenti di liberazione nazionale, che in generale si richiamavano ad un preteso “marxismo leninismo”, in variamente procinese o prorussa .
Gli ex “marxisti-leninisti”, verso cui andavano tante illusioni anche dell’estrema sinistra italiana, una volta andati al potere, nel quadro della nuova situazione mondiale, per conservare il loro potere, i loro privilegi e i loro, in generale corrotti, regimi, si sono trasformati in agenti dell’imperialismo e delle sue politiche neoliberali. Una lezione che l’avanguardia proletaria nel mondo non dovrebbe dimenticare, evitando di ripetere gli errori del passato.

Uno degli elementi centrali delle guerre e dei massacri (che in Ruanda hanno raggiunto il livello del genocidio) che hanno devastato l’Africa è stato il problema etnico. L’Organizzazione per l’Unità Africana aveva fatto un feticcio del mantenimento delle frontiere artificiali del colonialismo, in nome della lotta contro l’etnicismo; ma in realtà in difesa del potere dei vari regimi borghesi esistenti. Molti nella sinistra, anche estrema, avevano concluso che in Africa non dovevano applicarsi le concezioni leniniste sul diritto all’autodeterminazione. Decine di anni di guerre e massacri interetnici indicano che non è così. Naturalmente - da leninisti coerenti, distinti e distanti da ogni forma di nazionalismo, anche radicale - non si tratta per i marxisti rivoluzionari di individuare astrattamente, anche se sulla base di criteri logici, problemi nazionali dove essi non esistono nei sentimenti di massa e quindi nella realtà dei fatti. Ma dove tali questioni si presentino nella realtà essi devono assolutamente sostenere il diritto all’autodeterminazione dei popoli coinvolti. Legandola strettamente, come è nella reale concezione leninista, quale sviluppatasi e praticata nei fatti dopo la rivoluzione del ’17, alla prospettiva della federazione e, sulla base del programma della rivoluzione permanente, del socialismo. Se mai, proprio nella situazione africana questa prospettiva unitaria deve essere sottolineata, contro ogni deriva sciovinista.
La parola d’ordine generale deve essere quella degli “Stati Uniti Socialisti dell’Africa SubSahariana” (o “Africa Nera”)
La prospettiva non appare certo vicina, ma sulla base di essa che vanno costruiti in ogni stato dell’Africa partiti operai marxisti rivoluzionari, uniti tra loro in un quadro internazionale. Utilizzando anche le limitate aperture di democrazia borghese formale che si sono sviluppate negli ultimi anni. E ricordando anche che, se in molti paesi africani la classe operaia è ancora debole, almeno in due paesi , Sud Africa e Nigeria, essa è ampia e ha tradizioni di lotta che sono giunte, almeno nel primo dei due, a mobilitazioni rivoluzionarie.

LA COSTRUZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA INTERNAZIONALE DEI COMUNISTI

Il PCL è impegnato nell’azione di solidarietà incondizionata alle lotte dei lavoratori e dei popolo oppressi di tutto il mondo. In particolare difende ogni paese dipendente aggredito dall’imperialismo, indipendentemente dalla natura del suo governo o regime, e ogni movimento di liberazione nazionale, quale che sia la sua attuale direzione. Difende incondizionatamente, indipendentemente dal giudizio sul regime castrista, Cuba e le conquiste della sua rivoluzione contro ogni intimidazione dell’imperialismo e contro ogni minaccia di restaurazione capitalista. E in questa azione di solidarietà e mobilitazione internazionalista ricerchiamo naturalmente il fronte unico più vasto con tutte le forze disponibili del movimento operaio e antimperialista.

Ma il nostro internazionalismo non si riduce alla solidarietà. Riguarda la natura stessa del programma socialista come programma di rivoluzione internazionale.
Come sul piano nazionale non ci limitiamo ad un’azione di sostegno delle lotte dei lavoratori e dei settori oppressi, ma ci impegniamo a ricondurle ad una prospettiva di alternativa di potere, così sul piano internazionale lavoriamo a ricondurre ogni istanza di emancipazione sociale, nazionale o di genere alla rottura con l’ordine capitalista e imperialista che oggi domina il mondo. Allo stesso modo, come sul piano nazionale lavoriamo a costruire il Partito Comunista dei Lavoratori quale strumento indispensabile per collegare le lotte immediate ad una prospettiva socialista; così siamo impegnati a costruire, per la medesima ragione e sulle medesime basi, un partito comunista internazionale; che lavori ad unire, al di là delle frontiere, le forze di avanguardia della classe operaia e delle masse oppresse del mondo intero attorno allo stesso programma di fondo: il potere consiliare dei lavoratori, delle lavoratrici delle classi subalterne, basato sulla loro autorganizzazione democratica di massa .

Un programma che fonda ovunque l’autonomia dei comunisti e il loro ruolo di opposizione di fronte ad ogni governo borghese o regime burocratico. Come affermavano Marx ed Engels
:”Lo scopo immediato dei comunisti è […]: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato. [……]In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione della proprietà privata”
Lo dicevano nel manifesto programmatico di quella Lega dei Comunisti che voleva essere fin dall’origine un partito internazionale: “E’ ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso.
A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse ed hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese” (Manifesto del Partito Comunista, introduzione)

Da allora in poi il movimento marxista è sempre stato un movimento internazionale.
Dalla prima internazionale come struttura di raggruppamento dell’avanguardia di classe su basi programmatiche rivoluzionarie e in cui i marxisti svilupparono quella che oggi chiameremo una battaglia di frazione , tesa a epurarla da posizioni di tipo opportunista, confuse (oggi diremmo centriste) ,piccolo borghesi; alla seconda formata da partiti operaia di massa almeno formalmente basati su un programma marxista ; alla terza, nata - in risposta al tradimento opportunista della seconda e sotto la spinta della rivoluzione russa- dalla sinistra della precedente internazionale, e conseguentemente marxista rivoluzionaria; alla quarta, sorta - contro la degenerazione burocratica della terza- da una piccola avanguardia che raccoglieva i migliori quadri della terza internazionale e settori di giovani militanti.

Una strutturazione internazionale dell’analisi, del programma e dell’organizzazione del partito è oggi tanto più attuale ed urgente quanto più è confermato il quadro di analisi della crisi e delle contraddizioni del modo di produzione capitalista; davanti alla confusione che regna nella classe operaia e nella sua avanguardia,; di fronte alle possibilità reali di momenti di radicalizzazione di massa e di esplosione di lotta di classe; di fronte al rischio che settori importanti di proletariato siano risucchiati da movimenti populisti, siano essi reazionari o “progressisti”, di fronte alla necessità oggi impellente di realizzare quello che Lenin e Trotsky indicano come il compito di base dei partiti marxisti “modificare la coscienza della classe operaia”.
Di fronte a questi compiti immensi la costruzione di una prospettiva, di un’azione e di un’organizzazione internazionale è il migliore e necessario strumento a nostra disposizione .

Il problema concreto che l'avanguardia rivoluzionaria vive drammaticamente oggi è l'assenza di una internazionale consolidata. Ciò perché negli anni '50 la IV internazionale, già organizzazione d'avanguardia che non era riuscita a consolidare una base di massa, entrò in crisi. Ciò per la svolta revisionista- in particolare di fronte al peso delle difficoltà derivate dall'espansione dello stalinismo nel periodo postbellico e il suo rafforzamento tra le masse in quasi tutto il mondo- della maggioranza del suo gruppo dirigente (a cominciare del Segretario Internazionale, M.Pablo, da cui il termine "pablismo" con cui vengono spesso caratterizzati tuttora i continuatori, invero in peggio, di questa corrente, cioè il Segretariato Unificato).
Svolta che comportava la liquidazione della prospettiva di costruire veri partiti marxisti rivoluzionari, in nome della trasformazione della IV Internazionale in una sorta di gruppo di pressione verso i dirigenti "più radicali" dei partiti di massa (allora Tito o Ben Bella o Castro, in tempi recenti… Lula e Bertinotti, con relativi continui fallimenti).
La crisi provocata da questa svolta revisionista (che naturalmente si configurava anche nell'abbandono progressivo dei punti fondamentali del programma marxista rivoluzionario) agì anche nell'ambito dei settori importanti che si opposero al revisionismo. Così la IV internazionale fu dislocata e divisa e non poté giocare nei decenni successivi il ruolo che le sarebbe stato proprio.

E' difficile dire, ma non lo si può escludere, se una Internazionale unita e ferma su una politica conseguente avrebbe potuto permettere una vittoria rivoluzionaria in una o più situazioni particolari. Certamente è del tutto improbabile pensare che avrebbe potuto capovolgere il corso della storia degli ultimi decenni. Ma al contempo è assolutamente probabile che, irrobustita dall'intervento conseguente nella lotta di classe ( in cui del resto si sono rafforzate praticamente tutte le forze che si richiamano al trotskismo, nonostante i loro limiti politici e la divisione organizzativa) la IV internazionale avrebbe potuto apparire - di fronte al crollo dello stalinismo e alla crisi di tutte le vecchie direzioni- alla larga avanguardia, se non all'insieme, del proletariato e degli oppressi, ad est come in occidente, nei paesi dominati come in quelli imperialisti, il punto di riferimento per combattere la barbarie capitalista e realizzare la rivoluzione socialista.

Così non è stato. Ma questa come le tante, precedenti sconfitte del movimento operaio, non elimina il fatto che solo la rivoluzione socialista mondiale resta l'unica alternativa alla barbarie capitalista e che per sviluppare questa prospettiva è necessario rifondare l'Internazionale rivoluzionaria del proletariato.
Tale Internazionale non può realisticamente costruirsi che sulle basi del marxismo rivoluzionario e della sua storia.
Un nuovo inizio politico-organizzativo è ovviamente necessario, un nuovo inizio politico-programmatico sarebbe privo di basi sul terreno della realtà oggettiva e un’azione o di settarismo estremo o opportunismo fallimentare.
Infatti se visto come rielaborazione teorica in termini autonomi -- una nuova teoria della lotta di classe - esso tenderebbe nei fatti a determinarsi come nuovo centro del movimento operaio mondiale e non crediamo che ci sia necessità e spazio per nuovi Marx e Engels.
Se invece considerato, e questo è il caso più frequente, come un tentativo di sminuire l’importanza della chiarezza programmatica e trovare minimi comun denominatori al ribasso, esso farebbe venir meno la chiarezza necessaria per lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria e porterebbe inevitabilmente nel tempo ad un fallimento anche organizzativo. E’ la storia costante del centrismo classico nel passato. In Italia la storia delle organizzazioni di estrema sinistra degli anni ’70, che apparvero per una breve fase importanti e che poi svanirono, è lì a dimostrarlo.

Effettivamente come affermava Lenin “non c’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”.
Per il PCL è fondamentale un rapporto con le organizzazioni, i movimenti ed i partiti che, al di là della propria esperienza, del proprio percorso storico condividano e pratichino gli elementi programmatici per noi basilari per la ricostruzione di un’internazionale: l’indipendenza e l’autonomia del movimento operaio (opposizione a qualunque governo di alleanza con forze borghesi), la prospettiva della rivoluzione (abbattimento del modo di produzione capitalista attraverso la presa del potere politico e la sua organizzazione democratico consiliare), una pratica politica in grado di coniugare le rivendicazioni dei lavoratori e degli altri settori oppressi con gli obbiettivi della rivoluzione, la necessità di ricostruire l’internazionale.
Ma proprio su queste basi programmatiche tale rapporto per la ricostruzione dell’Internazionale rivoluzionaria del proletariato non potrebbe che configurarsi che come battaglia per la rifondazione della IV Internazionale.

E’ nel Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale (CRQI) che abbiamo registrato un impegno reale a muoversi in questa direzione. Il CRQI non è, né si considera, “la quarta internazionale” (come fanno alcune sette internazionali chiuse su se stesse o delle organizzazioni cui serve mantenere l’“etichetta”, ma così lontane dal marxismo rivoluzionario conseguente da avere sezioni che hanno magari ministri nel governo Lula o…. votano per 21 volte la fiducia a Prodi prima di concludere, senza trarne alcuna riflessione teorica, che un governo borghese confindustriale non potrà subire positivamente la “pressione della masse” ).
Il CRQI è invece uno strumento aperto di lotta per ricostruire la quarta internazionale come reale partito mondiale dell’avanguardia sociale e politica del proletariato.

Nato con un raggruppamento di forze su scala internazionale su basi programmatiche (dichiarazione di Genova del 1997), e caratterizzato da una discussione aperta , il CRQI ha lanciato la prospettiva della ricostruzione dell’internazionale rivoluzionaria del proletariato, intendendo riunire su basi di principio forze di diversa provenienza: certo il meglio del movimento trotskista, ma anche i soggetti politici che hanno rotto con le esperienze centriste, staliniste o del nazionalismo rivoluzionario, oltre naturalmente l’avanguardia attuale del proletariato e dei movimenti di massa . Assumendo sempre come unico criterio del raggruppamento non una comunanza di provenienza , ma una comunanza di programma . E’ lo stesso metodo con cui è nato il McPcl in Italia. Non a caso solo il CRQI ha sostenuto pienamente il nostro partito in costruzione e il suo progetto.
E sono relazioni che durano da più di 10 anni, attraverso quello che era il rapporto con “Progetto Comunista” non solo in quanto Associazione Marxista Rivoluzionaria ma anche come corrente in generale, e che la maggioranza dei/lle compagn@ hanno conosciuto direttamente o indirettamente nei testi pubblicati sulla nostra stampa, ai vari congressi del PRC, al momento della nostra costituzione a giugno del 2006 al cinema Barberini o nella nostra assemblea nazionale come mcPCL ad aprile 2007.

La costituzione, con il congresso tenuto a Buenos Aires nell’aprile del 2004 , del CRQI ha rappresentato in effetti un passo avanti nella lunga, difficile e tortuosa strada verso la rivoluzione socialista e la liberazione del proletariato e dell’umanità oppressa dalla realtà della società capitalistica.
Naturalmente, dal punto di vista delle dimensioni e della strada da percorrere su tale via, quel salto è molto modesto e sbaglieremmo se non lo considerassimo e presentassimo come tale. Tuttavia rispetto alla crisi storica non solo della direzione rivoluzionaria, ma anche della IV Internazionale tale costituzione rappresenta una prima inversione di tendenza, una prima svolta per riprendere il cammino verso la risoluzione del “problema dei problemi” a cui oggi si confronta il proletariato: la crisi della direzione rivoluzionaria.

Naturalmente siamo ben coscienti dei suoi limiti. In rapporto ai compiti della lotta di classe il CRQI è un organizzazione molto piccola. La moltiplicazione quantitativa e lo sviluppo qualitativo negli ultimi anni in paesi con situazioni così diverse come l'Argentina, , l'Uruguay, l'Italia la Grecia e la Turchia rappresentano l'espressione di un intervento globalmente corretto nella lotta di classe.
Questo può essere sottolineato in particolare in riferimento alle vicende rivoluzionarie che hanno scosso l'Argentina e al ruolo d'avanguardia che ha giocato il Partito Operaio; ma vale anche per le altre situazioni.
Tuttavia comprendiamo che l'estensione su scala mondiale del CRQI è ancora limitata, essendo sostanzialmente assente da regioni importanti dal globo e anche da altri paesi importanti per la lotta di classe e anche per la presenza di settori d'avanguardia con significativa influenza che si richiamano, sia pure contraddittoriamente rispetto alla loro politica concreta, al trotskismo.
Quindi i compiti di costruzione e di raggruppamento rivoluzionario sono ancora molto gravosi. Ma, malgrado ciò, lo sviluppo e la trasformazione di quello che era stato il Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale in organizzazione centralista democratica con il nuovo nome rappresentano un passo in avanti significativo nella lotta per la rifondazione della IV.

La serietà del metodo del CRQI si evidenzia anche nel fatto che esso rappresenta il primo serio e significativo raggruppamento rivoluzionario trotskista dopo la crisi dell'Internazionale negli anni 50. In effetti è il prodotto del raggruppamento di tre esperienze differenti. Quella del Partito Operaio argentino e delle altre organizzazioni latino-americane ad esso legate; quella dell'Opposizione Trotskista Internazionale (OTI, che includeva la AMR italiana, il gruppo degli USA, e la maggior parte dei piccoli nuclei sostenitori del CRQI in vari paesi del mondo) e quella del Partito operaio rivoluzionario (EEK) di Grecia. Benchè con qualche momento di contatto nel passato, e situandosi tutte sul terreno della lotta al revisionismo pablista , la loro storia era stata differente per molti anni.
E' il metodo trotskista del raggruppamento sulla base dei principi che ha permesso di realizzare questa unione. E altre successive operazioni di raggruppamento, come quello con l’organizzazione turca (Movimento per un Partito Operaio Rivoluzionario) che ha anch’essa una storia politica particolare o con il pur piccolo Partito Operaio Rivoluzionario del Cile che nasce dal raggruppamento su basi trotskiste conseguenti di militanti che vengono, salvo i più giovani, dall’esperienza della estrema sinistra centristra tradizionale dei decenni passati, in primo luogo dal famoso Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR).

In particolare questi processi di raggruppamento si sono realizzati sulla base di quattro punti programmatici centrali, indicati nella riunione fondativa del Movimento, realizzata a Genova nel 1997, che riproduciamo qui:
" I mutamenti in corso nella situazione mondiale, in particolare l'acuirsi della crisi capitalistica mondiale e lo sviluppo dei movimenti di massa, impongono a tutte le organizzazioni che si richiamano all'eredità del trotskismo di rifondare la IV Internazionale, per offrire all'avanguardia operaia del mondo un orientamento e un'organizzazione marxista rivoluzionaria.
Il segretariato Unificato della IV Internazionale (SU), che pretende di essere la continuità della IV Internazionale, non è la IV Internazionale né può essere trasformata, con una azione di riforma nella IV Internazionale. La rifondazione della IV Internazionale richiede la sconfitta politica del SU .
A nostro avviso le basi per una discussione sulla rifondazione della IV Internazionale dovrebbero indicare:
1) la validità della lotta per la rivoluzione socialista mondiale e la dittatura del proletariato;
2) la necessità di riaffermare la definizione contenuta nel Programma di transizione del fronte popolare come blocco con la borghesia democratica , che riduce il partito del proletariato ad appendice del capitale;
3) la necessità della rivoluzione sociale e/o politica nell'ex Urss e nell'Europa orientale, in Cina, Indocina, Nord Corea e Cuba;
4) l'elaborazione di una strategia anticapitalistica basata su rivendicazioni transitorie e sul metodo transitorio"

Queste sono le basi su cui ancora oggi il CRQI vuole andare avanti nella lotta per la rifondazione della IV Internazionale. E’ per questo che in questi anni abbiamo cercato di approciare altre correnti del movimento trotskista con una prospettiva di verificare le condizioni per un raggruppamento più ampio (da settori di minoranza di sinistra del segretariato unificato, alla Lega Internazionale dei Lavoratori –LIT-, al Comitato per un Internazionale Operaia, alla minoranza di LutteOuvriere in Francia, dopo un tentativo con la stessa organizzazione in quanto tale,etc).
Lo spirito di frazione ha per il momento prevalso e organizzazioni che a parole criticano il “settarismo” del CRQI hanno dimostrato di non volersi mettere in questione in un processo di raggruppamento verso la rifondazione della IV Internazionale. Ma la battaglia del CRQI continua, sapendo che gli sviluppi della lotta di classe e della battaglia politica porranno tutti di fronte alle proprie responsabilità e iniziative oggi prive di successo possono averlo in futuro.

Perchè il raggruppamento è, per una organizzazione rivoluzionaria, un aspetto del più generale intervento sulle basi del marxismo rivoluzionario nella lotta di classe per conquistare i settori d'avanguardia del movimento operaio e degli altri movimenti di massa.
Perché l'organizzazione che dobbiamo costruire non è un club di discussione, una setta, o un quadro di testimonianza, fosse pure "principista" . E' invece un'organizzazione di lotta, per la quale la battaglia per la rifondazione della internazionale si confonde con quella per la rivoluzione proletaria.

Ed è in questo quadro che si situa anche il dibattito interno al CRQI, con il confronto anche su aspetti non secondari; come il giudizio preciso sulla crisi capitalistica, le sue prospettive, le conseguenze nella lotta di classe.
Dibattito logico non solo perché il raggruppamento che il CRQI rappresenta pone insieme, appunto in un raggruppamento marxista rivoluzionario, esperienze diverse, ma perché il confronto politico, sulla base del comune programma e della azione comune, è una costante di ogni vera organizzazione marxista rivoluzionaria (si pensi solo ai confronti su vari temi tra Lenin, Trotsky e Rosa Luxemburg, non solo prima, ma anche dopo la vittoria della rivoluzione russa).
La condizione perchè tale dibattito sia fruttuoso sta non solo nel fatto che esso sia finalizzato ad una migliore azione dell’organizzazione internazionale dei marxisti rivoluzionari, ma che esso coinvolga l’insieme dei /lle suoi/e militanti . E’ un impegno che come PCL dobbiamo assumerci e praticare nel concreto.

Per tutto quando detto nel capitolo finale di questo testo la logica e naturale conseguenza politica delle nostre posizioni programmatiche e del nostro progetto rivoluzionario internazionalista non può essere che una: la formalizzazione dei rapporti esistenti col CRQI con la costituzione del PCL in sua sezione italiana.