Primo congresso

La conferma di una scelta. Contro il governo Prodi e il trasformismo delle sinistre

RELAZIONE INTRODUTTIVA di Marco Ferrando

Primo Congresso PCL - Relazione Introduttiva

Primo Congresso PCL - Relazione introduttiva

Cari compagni, care compagne,
siamo giunti qui, al Congresso Fondativo del Partito Comunista dei Lavoratori, a coronamento di un anno e mezzo di intenso lavoro politico.
Un anno e mezzo difficile, faticoso, come tutti noi ben sappiamo, ma che ha visto confermate, nella forma più clamorosa, tutte le ragioni della nostra scelta.

Un anno e mezzo fa, alla vigilia della nostra rottura col PRC, e quindi del suo ingresso al governo, mentre il gruppo dirigente di quel partito annunciava sui muri di tutta Italia che “l’Italia sarebbe cambiata davvero”; mentre le future “sinistre critiche” chiedevano l’appoggio esterno al governo, da “influenzare” con il movimento, noi, controcorrente, dichiaravamo che l’annunciato governo Prodi avrebbe “rappresentato il blocco dominante delle grandi imprese e delle banche”, formulando una previsione precisa , che cito : “il programma dell’annunciato governo risponde pienamente al programma di Confindustria. Il progetto di riduzione di 5 punti del cuneo fiscale, mira a travasare alle imprese e ai loro profitti un’ enorme mole di risorse. Il combinarsi della nuova offerta alle imprese di decine e decine di miliardi con la riduzione del debito pubblico ed il rilancio dell’avanzo primario, ha una sola e unica conclusione: una nuova stagione di attacco allo stato sociale, di rinunce, di sacrifici per i lavoratori. Le classi dirigenti del Paese chiedono al PRC non solo di corresponsabilizzarsi a quel programma, ma anche di controllare le reazioni sociali a quel programma[…]. L’unica scelta possibile dei comunisti, per noi irrinunciabile, è quella dell’opposizione” (11 febbraio 2006)
Per aver detto questo, da soli, in innumerevoli sedi interne ed esterne al PRC, fummo oggetto di attacchi pesanti e talvolta di sarcasmo.
Oggi, milioni di lavoratori hanno sperimentato sulla propria pelle, per un anno e mezzo, la cruda verità di quella previsione.

E del resto, se solo volessimo restare per un attimo alla superficie della cronaca di questi mesi, e persino degli ultimi giorni, potremmo dire a noi stessi che quando vediamo un Presidente del Consiglio che nella conferenza stampa di fine anno ostenta candidamente i propri doni di Natale alle grandi imprese senza che nessuno a sinistra muova, non dico uno scandalo, ma neppure un appunto ; quando vediamo un Oliviero Diliberto che evoca la salma di Lenin mentre continua a votare le missioni di guerra del proprio imperialismo; quando vediamo un Fausto Bertinotti, già laudatore della Folgore, che negozia con Berlusconi leggi elettorali reazionarie e presenta le encicliche di Papa Ratzinger ( proprio mentre la sua alleata Binetti, su ispirazione di Dio, vota contro i diritti degli omosessuali) beh, lasciatemelo dire, abbiamo non solo la conferma plastica delle nostre scelte, ma per ciò stesso la distanza politica e persino morale che ci separa dall’ Unione e dalle sinistre in essa coinvolte.

Ma noi non abbiamo voluto e non vogliamo restare in superficie. Perché le ragioni del nostro nuovo partito non stanno semplicemente nell’opposizione a Prodi, ma hanno le loro radici in vent’anni di storia italiana e nel richiamo esemplare di quei vent’anni al bilancio dell’intero Novecento.

In questi vent’anni, molto è cambiato nel mondo, in Europa e di riflesso in Italia.
Il crollo del muro di Berlino, e dunque il crollo dello stalinismo, con l’impetuosa restaurazione del capitalismo ad est.
La nascita dell’Unione Europea, dentro la nuova competizione mondiale.
La riorganizzazione profonda del capitalismo italiano – economica, politica, istituzionale – inseparabile dal nuovo contesto internazionale.
E qui, in questa svolta d’epoca, è maturata quella profonda ricomposizione della sinistra italiana e dei suoi assetti di rappresentanza, che proprio oggi sta completando la propria parabola.

La larga maggioranza della burocrazia dirigente del PCI che dopo l’89 si liberò in fretta e furia della zavorra ingombrante del vecchio partito per scalare un governo borghese divenuto finalmente accessibile, conclude il proprio tragitto vent’anni dopo nel “partito delle imprese” di Walter Veltroni: quel partito democratico all’americana che fa dell’intrattenimento (persino telefonico) con vecchi e nuovi faccendieri della finanza la sua nuova vocazione.

Parallelamente, un PRC nato formalmente come “cuore dell’opposizione” al maggioritario, alla concertazione, all’Europa di Maastriicht, ma senza bilancio della storia, senza principi, senza rottura col riformismo, come pura occupazione di uno spazio politico ed elettorale rimasto scoperto, ha concluso il proprio tragitto, dopo infinite giravolte, nel governo dei sacrifici e della guerra, nell’abbraccio arcobaleno con Pecoraro Scanio e Mussi, quale aspirante vassallo del Partito Democratico.

Storie diverse, certo, ma correlate tra loro; e che non solo sono tutte corresponsabili, come poi dirò, delle sconfitte dei lavoratori e dei movimenti, ma che hanno costruito e accelerato proprio dentro la sconfitta operaia, la propria mutazione progressiva, il proprio trasformismo. Con effetti enormi di disorientamento, crisi, abbandono presso grandi masse del popolo della sinistra.

Ebbene, non c’è rimonta da quella sconfitta, non c’è ricostruzione di una prospettiva alternativa del movimento operaio se non con la ricostruzione di un’altra sinistra italiana, di un’altra direzione. Che nasca dalla rottura totale con la socialdemocrazia, con lo stalinismo, con la loro deriva.
Questo è il senso del Partito Comunista dei Lavoratori.
Questa è la ragione che ha sospinto la lunga battaglia politica che ha accompagnato la sua formazione. Il PCL nasce oggi, ma ha una sua storia. Non solo quella di un anno e mezzo del movimento costitutivo. Ma quella di quasi vent’anni di battaglia politica contro la deriva della sinistra italiana: una battaglia controcorrente dentro lo spazio storico nuovo liberato dal crollo dello stalinismo e dallo scioglimento del PCI.
Anche noi, dunque, nasciamo nella svolta d’epoca del fine ‘900. La nostra piccola storia sta nella storia più grande del movimento operaio internazionale. Così il nostro progetto. Quello di un partito dei lavoratori: che assume il mondo del lavoro e le sue ragioni indipendenti come propria radice sociale e scelta di campo. Quella di un partito comunista: che vuole ricondurre le rivendicazioni e le lotte del mondo del lavoro e di tutti gli oppressi ad un’alternativa anticapitalistica di società e di potere.

Questo nostro progetto non è astratto, ideologico, velleitario. Risponde alla necessità concreta di ricostruire una rappresentanza politica di classe indipendente, di fronte all’offensiva capitalistica contro i lavoratori e alla crisi della loro rappresentanza.
Dispone di spazi concreti nelle difficoltà e contraddizioni che, nonostante tutto, disseminano non solo l’avanzata del capitale, ma anche la riorganizzazione delle sinistre che si pongono al suo servizio.
Questo è il quadro d’insieme del documento congressuale che abbiamo proposto al congresso.


La borghesia domina. La sua egemonia si riduce

La borghesia italiana ha riportato affermazioni significative in questi vent’anni.
Sul terreno della lotta di classe, dove i morti della Tyssen-Krupp, assassinati dal capitalismo italiano, misurano tragicamente l’arretramento della condizione operaia; sul terreno della riorganizzazione capitalistica, attraverso la lunga “rivoluzione passiva” degli anni Novanta; sul terreno della politica internazionale, attraverso l’inserimento nella spartizione mondiale delle zone d’influenza, e la partecipazione alla corsa verso i nuovi mercati.
E proprio il quadro della nuova competizione mondiale detta l’incessante offensiva sociale contro i lavoratori.
Altro che la “borghesia buona” di Marchionne salutata da Bertinotti ! Il capitalismo italiano migliora le sue posizioni nel mondo (ed in particolare i propri profitti) sulla pelle di milioni di operai, di giovani precari, di immigrati.

Il fatto che Romano Prodi, col suo ineffabile sorriso, prometta oggi qualche elemosina sociale sui salari, nel momento stesso in cui le sue finanziarie regalano in due anni 15 miliardi a imprese e banche e preservano la legge 30 di Berlusconi, è solo una recita ipocrita che serve a mascherare la verità: e la verità è che la borghesia italiana non ha nulla da offrire e redistribuire. E non perché in astratto le manchino le risorse, ma perchè la nuova concorrenza capitalistica internazionale spinge a investire quelle risorse, ricavate dallo sfruttamento dei lavoratori, in ulteriore riduzione del debito pubblico, nuove detassazioni dei profitti, ristrutturazioni antioperaie, acquisizioni e fusioni, delocalizzazioni, cioè, in altri termini, in nuovo sfruttamento. Come oggi avviene a tutte le latitudini del mondo, sotto i governi borghesi di ogni colore.

Peraltro non è un caso che le promesse di qualche piccola detassazione dei salari, servano oggi a coprire la nuova annunciata concertazione tra Prodi, Epifani, Montezemolo sulle cosiddette regole contrattuali: che significa, in parole povere, attaccare il contratto nazionale, prolungare la parte economica dei contratti, subordinare ancor più i salari alla produttività (cioè allo sfruttamento ), come Prodi ha apertamente detto, dividere ancor più e impoverire il grosso del mondo del lavoro.

Né è un caso se le politiche e missioni di guerra, utili al posizionamento del capitalismo italiano nel mondo, non solo vengono confermate e persino rafforzate in Libano, in Afghanistan, nei Balcani, ma ricevono una nuova pioggia di miliardi a scapito della spesa sociale e contro i diritti di autodeterminazione di altri popoli.

E tuttavia la marcia offensiva della borghesia italiana si combina con due contraddizioni rilevanti.

La prima è la crisi di consenso.
La borghesia domina più di prima, ma si riduce la sua egemonia sulla società italiana. La crisi di consenso non ha valore congiunturale e di superficie. Ha un carattere di fondo e una base materiale.
L’impoverimento progressivo del lavoro dipendente; l’espansione enorme del precariato; la proletarizzazione di ampi settori impiegatizi; l’indebitamento drammatico di milioni di famiglie; e persino la crisi sociale di ampie fasce di piccola borghesia e di lavoro autonomo, hanno scavato negli anni, nel loro insieme, un fossato profondo tra la maggioranza della società e le politiche dominanti.
Questo non determina meccanicamente una radicalizzazione di lotta, ed anzi spesso si accompagna a processi di demotivazione e passivizzazione. E tuttavia accumula fascine.
Gli stessi circoli dominanti manifestano una preoccupazione crescente. Se addirittura il governatore Draghi e Montezemolo, nel mentre rapinano i salari, riconoscono la “questione salariale”, non lo fanno certo per sensibilità sociale, né solo perché preoccupati di un eccessivo calo dei consumi. Lo fanno anche perché temono il rischio, a distanza, di una rottura sociale.

La seconda è la crisi delle forme di rappresentanza politica ed istituzionale.
Quindici anni fa, proprio per aggirare la crisi di consenso delle proprie politiche e la dissoluzione della vecchia DC, la borghesia appoggiò leggi elettorali maggioritarie e il bipolarismo, col fine di assicurarsi formule di governo più stabili e intercambiabili nella gestione delle politiche antioperaie, ottenendo indubbi risultati.
E tuttavia i due poli d’alternanza forgiati dalla storia politica di vent’anni hanno accumulato contraddizioni interne esplosive, e sono oggi a pezzi.
Il Centrodestra è esploso, sotto l’effetto dirompente di un ritorno populistico del berlusconismo che conferma l’anomalia del fenomeno Berlusconi, dei suoi interessi privatistici, aziendali, di clan, della sua congenita difficoltà sia a rappresentare, sia a ricomporre attorno a sé un “normale” partito borghese conservatore.
Ma anche il Centrosinistra è in crisi, perché è in crisi il suo blocco sociale di riferimento, come già accadde nella sua legislatura precedente. Tenere insieme Montezemolo e i suoi operai, le banche e le famiglie indebitate, è impresa improba, quando non si può ridistribuire ricchezze. La crisi del governo Prodi e dell’Unione ha, al fondo, questa radice. Il fatto che la crisi si sia approfondita proprio con la nascita di quel PD che si candidava a fattore di stabilizzazione, dà la misura della sua serietà.
E certo oggi, l’asse tra Veltroni e Berlusconi, nel peggior mercimonio reazionario di riforme elettorali e istituzionali, non è solo la conferma, al di là delle recite, della convergenza programmatica di fondo tra i partiti dominanti di Centrosinistra e Centrodestra: è anche la misura della crisi del vecchio bipolarismo della seconda repubblica e della difficoltà a trovare un nuovo equilibrio.


La responsabilità storica delle sinistre italiane
Le contraddizioni della nuova socialdemocrazia arcobaleno


Ma proprio qui stanno le enormi responsabilità delle sinistre e dei loro gruppi dirigenti in questi vent’anni.
Invece che investire le proprie forze nell’opposizione alle classi dominanti, ai loro partiti, ai loro governi, incuneandosi nella loro crisi politica e di consenso, le sinistre hanno fatto l’opposto: hanno utilizzato quella crisi di consenso e quelle contraddizioni politiche per offrire alle classi dominanti il proprio servizio prezioso; di più, per valorizzare l’importanza, l’indispensabilità, del proprio soccorso.
E in tutti i passaggi più difficili degli ultimi dieci anni, dall’ingresso nei parametri di Maastriicht del ’96 sino all’attuale stretta sociale, quel ruolo è stato davvero indispensabile per la borghesia italiana. Altro che la cosiddetta “politica del meno peggio”!
Proprio le peggiori misure antioperaie e antipopolari del decennio hanno avuto il voto e il sostegno dei gruppi dirigenti delle sinistre: a partire dalle leggi famigerate di precarizzazione del lavoro, dal pacchetto Treu del ’97 al protocollo del 23 luglio. E proprio quel sostegno è stato decisivo per far passare nella società italiana e tra le masse misure che, altrimenti, avrebbero incontrato ben altre reazioni e resistenze.

Peraltro, quando quelle reazioni e resistenze si sono prodotte, come negli anni di Berlusconi e contro Berlusconi; quando non solo la classe operaia, ma vasti movimenti di massa irruppero sulla scena per chiedere una svolta, con una potenzialità e una massa critica imponente , tutta la politica degli apparati sindacali e delle sinistre lavorò a liquidare quelle potenzialità: prima privandole di una piattaforma unificante e di uno sbocco, poi subordinandole progressivamente a una nuova prospettiva di Centrosinistra, e quindi agli avversari politici e sociali di quelle lotte. In cambio di un posto al tavolo della concertazione, sul piano sindacale; e di sottosegretariati, ministeri, una presidenza della Camera, sul piano politico.
Un anno e mezzo di governo Prodi è l’esito e il prezzo di quella svendita.
Altro che una politica “incoerente” con le domande dei movimenti, come si attardano ad affermare le sinistre critiche! E’ una politica che ha usato i movimenti per una scalata ministeriale e istituzionale contro i movimenti. Che ha usato le lotte e i voti degli operai per portarli in dote a Confindustria. Che ha usato le lotte e i voti dei pacifisti per portarli in dote alle missioni di guerra. Che ha usato le lotte e i voti dei giovani no global per avere De Gennaro al Viminale e decenni di galera per i manifestanti di Genova e di Cosenza.
E certo Carlo Giuliani non avrebbe mai pensato che le sue lotte e persino il suo sacrificio avrebbero potuto essere un giorno usati e traditi per un governo nemico delle attese e delle ragioni di tanta parte della sua generazione.

Questa è dunque la natura reale dei gruppi dirigenti della sinistra italiana. Non una sinistra che “sbaglia” nella ricerca di un altro mondo possibile. Ma una sinistra che opera come agenzia delle classi dominanti di questo mondo capitalistico all’interno delle classi subalterne.
La Sinistra Arcobaleno non è altro che la nuova veste arlecchino, certo appropriata, di questo ruolo. La sua cancellazione di falce e martello non è altro che il riflesso simbolico della cancellazione delle ragioni del lavoro.
E il fatto che il Presidente della Camera voglia partorire la nuova creatura col taglio cesareo di una legge elettorale concordata a tavolino con Veltroni, anche al prezzo di governare con Berlusconi, dà non solo la misura della difficoltà del parto, ma anche l’assenza di ogni più elementare principio nello stesso codice genetico del nuovo soggetto.

E tuttavia questo disegno, se ha un suo punto di forza, ha anche una sua debolezza.

Il suo punto di forza sta nell’esigenza reale del sistema borghese di disporre di un ammortizzatore a sinistra, o al governo o all’opposizione. E’ una necessità fisiologica della democrazia borghese, tanto più in un quadro perdurante di sacrifici sociali e di malessere operaio e popolare.
Questo ruolo non può essere pienamente assolto da un PD che ha tagliato i ponti con la vecchia socialdemocrazia DS. Né può essere interamente scaricato sulla burocrazia CGIL, attribuendole una funzione permanente di supplenza politica impropria.
E’ un ruolo che richiede una forza politica specifica. Il progetto della Sinistra Arcobaleno ha qui la sua missione: non semplicemente quella di occupare uno spazio elettorale a sinistra del PD, ma di costruire e consolidare la funzione sociale di una nuova socialdemocrazia, come canale di integrazione e subordinazione del movimento operaio.
E tuttavia questo progetto strategico si scontra con limiti e contraddizioni profonde. Non solo col groviglio di contrasti interni ai gruppi dirigenti e ai loro equilibri (che il negoziato sulla legge elettorale alimenta); né solo nella difficoltà a trovare un punto di equilibro col PD o con la burocrazia CGIL. Ma in fattori di fondo che vanno al di là del contingente.
In primo luogo, nella massa critica modesta della nuova costituenda socialdemocrazia: nella sua debolezza di radicamento sociale all’interno del movimento operaio e delle stesse burocrazie sindacali, che contrasta con l’ambizione di un ruolo di controllo dello scontro di classe come merce di scambio con la borghesia e il PD. Di certo la socialdemocrazia della seconda repubblica appare infinitamente lontana dal ruolo e dalla forza che il PC aveva nella prima.

In secondo luogo, l’impraticabilità di uno scambio sociale reale, di una contropartita vera, seppur modesta, da offrire alla propria base sociale, come un anno e mezzo di governo Prodi ha dimostrato impietosamente.
Da qui una grande difficoltà a reggere il compromesso ambito col PD. Da qui la difficoltà ancora più grande ad alimentare entusiasmo per il nuovo soggetto, a produrre un effetto di trascinamento e di identificazione in esso. La bastonata inferta al popolo del 20 ottobre e alle sue speranze col voto a favore del protocollo di luglio è indicativa. Ed anzi il parto della Sinistra Arcobaleno coincide non a caso con la crisi profonda di Rifondazione Comunista, la più acuta della sua storia politica.
La nuova socialdemocrazia che si annuncia non nasce dunque col vento in poppa di una pressione di massa, ma con la zavorra della compromissione di governo, del disincanto, del distacco di migliaia di militanti, iscritti, elettori.


Il Partito Comunista dei Lavoratori come forza autonoma e alternativa

E’ in questo quadro generale e a fronte di questo bilancio; a fronte dell’offensiva dominante, della completa capitolazione delle sinistre, delle nuove contraddizioni e dei nuovi spazi che si aprono, che ci siamo assunti la responsabilità di costituire il Partito Comunista dei Lavoratori, in coerenza con un lungo percorso.

A differenza di altri, come Sinistra Critica, che dopo aver sostenuto per sei anni il bertinottismo, dopo aver votato 22 volte la fiducia al governo Prodi, dopo aver disertato sino al 9 Giugno tutti gli appuntamenti di piazza dell’opposizione, oggi abbandonano la nave di Rifondazione che affonda ( salvo non fare un partito ); noi, che per 15 anni abbiamo combattuto il gruppo dirigente del PRC, noi che per un anno e mezzo abbiamo agito all’opposizione (anche all’opposizione di finanziarie di sacrifici e di guerra che altri votavano), noi facciamo un partito. Perché il problema non è fuggire dalla vecchia nave per salvare la propria scialuppa. Il problema è costruire una nuova nave per il movimento operaio, una nuova rotta, un nuovo progetto. E di costruirlo ora, nel momento della nuova riorganizzazione generale della sinistra italiana, nel momento di massimo scollamento tra quella sinistra e la sua base sociale.
Per questo diamo vita al nostro partito. Non un ennesimo partito in vendita sul mercato, ma un partito autonomo, estraneo al bipolarismo, alternativo all’intero ordine dominante, impegnato in ogni lotta a difendere l’autonomia dei lavoratori e dei movimenti, impegnato a portare in ogni movimento presente, come affermava Marx, il futuro del movimento operaio. Ossia la prospettiva socialista.

Questo è il partito che manca da troppo tempo nella lunga storia del movimento operaio italiano. Non sono certo mancati in questa lunga storia grandi movimenti e potenzialità radicali: penso al moto della Resistenza; all’ascesa di massa del ’68 -’69; su scala diversa, agli stessi movimenti di massa degli ultimi anni. Ciò che è mancato è un partito che, in quelle lotte, sapesse costruire una prospettiva indipendente all’altezza delle loro potenzialità. Col risultato che le immense energie e generosità di quelle generazioni sono state usate e piegate, da vecchi e nuovi apparati, per scopi e ragioni totalmente contraddittori con le loro domande. In altri termini, sono state tradite.

La costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori vuol essere la risposta a questo bilancio. Vuol essere un investimento decisivo nel futuro delle lotte e dei movimenti delle nuove generazioni, per evitare che rivivano le sconfitte delle generazioni precedenti.
Quando diciamo “costruiamo una sinistra che non tradisca”, non evochiamo uno slogan. Descriviamo esattamente il nostro impegno: quello di ripartire da un quadro di principi saldi, quegli stessi principi di fondo sui quali nacque il Partito Comunista d’Italia delle origini, il partito di Lenin e dell’Ottobre: l’opposizione alle classi dirigenti e ai loro governi; la volontà di connettere gli obiettivi immediati alla prospettiva socialista; il respiro internazionale della nostra azione e costruzione. Perché non si può costruire nulla di serio in una prospettiva storica, nulla capace di durare, nulla all’altezza delle nuove sfide, se non si costruisce sul granito. E non si costruisce sul granito se non si recupera la fermezza dei principi e dei fini, la lealtà politica e morale verso la propria classe e il suo futuro.
Qui sta l’autonomia e l’unicità del nostro partito nella sinistra italiana. Il nostro impegno a tenere la barra, la nostra volontà di rompere definitivamente con quella lunga tradizione dell’opportunismo che già Engels così definiva oltre un secolo fa:
“la dimenticanza delle grandi questioni di principio di fronte agli interessi passeggeri del giorno “
Da qui la volontà del PCL di presentarsi pubblicamente ovunque, davanti ai cancelli delle fabbriche, come alle prossime elezioni, amministrative, politiche, europee per quello che semplicemente siamo, senza infingimenti o autocensure: con quel simbolo do falce e martello che non è per noi né la copertura a termine di una doppiezza né un’improvvisazione elettoralistica, ma l’abito naturale delle ragioni e delle origini, più attuali oggi che mai : le ragioni del lavoro e del socialismo.


La battaglia di massa per la rottura con la borghesia
Contro ogni logica minoritaria


Al tempo stesso la nostra autonomia non è e non sarà isolamento. Confondere il rigore dei principi con l’autorecinzione, sarebbe non solo dannoso per la nostra costruzione, ma profondamente contrario proprio alla natura del nostro programma.

L’autonomia del PCL vuol essere infatti al servizio dell’indipendenza di classe e di una politica di massa. Vuol essere lo strumento per affermare in ogni lotta, in ogni movimento, tra le masse, l’esigenza della rottura con le classi dominanti: il concetto di fondo secondo cui solo rompendo con la borghesia, i suoi partiti, i suoi governi; solo unendo le proprie forze attorno a un proprio programma indipendente, le grandi masse possono costruire uno sbocco per le proprie ragioni di fondo ed anche strappare risultati parziali; e viceversa: senza quella rottura, senza una propria indipendenza, ogni lotta, ogni movimento, per quanto grandi, sono condannati alla subordinazione e alla sconfitta. E’ questa la lezione degli ultimi vent’anni e dell’intera storia del movimento operaio.

Qui sta il senso della nostra parola d’ordine centrale di polo autonomo di classe anticapitalistico. Non è un cartello delle attuali sinistre di opposizione a Prodi, o la nostra pratica unitaria con queste sinistre su obiettivi comuni di lotta (pratica che abbiamo attuato e attuiamo lealmente in funzione dello sviluppo del movimento). E’ una linea politica di massa rivolta alle classi subalterne di questo Paese. E’ una linea di lotta per l’egemonia, fuori da ogni minoritarismo.

Proprio perché siamo rivoluzionari non confondiamo il nostro ombelico col mondo. Altre culture e tradizioni, genericamente antagoniste e/o centriste, possono scambiare spesso i propri desideri per la realtà, e nutrirsi della propria autorappresentazione amplificata e retorica per cui un movimento in cui sono egemoni, diventa il movimento; un proprio sindacato di riferimento, per quanto limitato, diventa il sindacato (o addirittura il soggetto politico onnicomprensivo sostitutivo del partito); una propria azione di sciopero, positiva ma parziale, diventa lo sciopero generale. (Concezioni peraltro che spesso esprimono una totale incomprensione dei rapporti di forza reali con le sinistre di governo e i loro apparati).

Ma un partito che lotta per la rivoluzione sociale ha e deve avere la misura della realtà, della distanza che oggi separa la coscienza delle masse da quella prospettiva, e del divario tra la propria piccola forza e il ruolo decisivo di quelle grandi masse. Per questo non ci limitiamo a “stare“ nei movimenti. Ma lavoriamo e dovremo lavorare in ogni movimento per unificare il fronte di classe, sviluppare la sua coscienza politica, liberare le masse e innanzitutto la loro avanguardia dal controllo o dall’influenza di vecchi e nuovi apparati. In una parola: per conquistare la maggioranza della classe e innanzitutto la sua avanguardia ad una prospettiva anticapitalista, con un lavoro quotidiano e paziente di intervento e di radicamento.


La centralità della classe operaia
La proposta della vertenza generale


In primo luogo nella classe operaia.
Contro tutte le ideologie e i vaniloqui che in tanti anni e da tante parti si sono affrettati a sentenziarne la scomparsa o la marginalità, resta un fatto inequivocabile: la classe operaia non solo esiste, ma cresce. Si estende in Italia il lavoro dipendente. Si accresce persino la classe operaia industriale. E nonostante i drammatici arretramenti, la precarizzazione dilagante e i processi di demoralizzazione, quello resta, anche in termini soggettivi, il principale crinale di contraddizione con le politiche dominanti.

Cosa significa se un milione di operai dice no al protocollo del 23 luglio, nonostante il carattere burocratico e truffaldino della consultazione? Cosa significa se quel milione si concentra in primo luogo in quelle grandi fabbriche che hanno fatto la storia del movimento operaio e sindacale italiano, a partire da tutti gli stabilimenti della FIAT? Significa che contro tutti i ricercatori vecchi e nuovi, di nuove centralità sostitutive e di nuovi surrogati, la contraddizione tra capitale e lavoro si ripropone come perno centrale dello scontro. Senza partire da qui non si ricostruisce un’opposizione reale e di massa. Tanto meno si ricostruisce un più ampio blocco sociale alternativo.

Qui sta la nostra proposta di una vertenza generale unificante del mondo del lavoro.
Sono decenni che la classe operaia italiana è privata di una piattaforma di lotta indipendente. E sono decenni che essa subisce sulla propria pelle il negoziato sulle piattaforme padronali, senza che nessun soggetto politico e sindacale, anche tra le forze anticoncertative, avanzi una proposta reale di ricomposizione e di svolta.
Noi ci proviamo.
Quando rivendichiamo una piattaforma generale che combini consistenti aumenti salariali, l’abolizione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, il salario garantito ai disoccupati che cercano lavoro e ai giovani in attesa di prima occupazione, il ritorno della previdenza a ripartizione; quando indichiamo la fonte di finanziamento di queste misure nelle tasche e nei portafogli di chi non ha mai pagato (a partire dai grandi profitti, dalle grandi rendite, dai grandi patrimoni), non facciamo una lista letteraria della spesa, né proponiamo una nuova politica economica a qualche simposio intellettuale. Avanziamo una proposta generale di lotta che tracci una linea di ricomposizione, nell’azione, tra l’operaio, il precario, il disoccupato, l’immigrato, le grandi masse del Meridione, con la consapevolezza che tanto più oggi, tanto più nel quadro di una crisi sociale che ha diviso, frammentato, indebolito il mondo del lavoro, solo una lotta generale può ricomporre la sua unità; solo una lotta generale può replicare all’aggressione del capitale contro i lavoratori, al livello attuale dello scontro; solo una lotta generale può dare un riferimento vero, oltretutto, non solo a milioni di giovani precari o disoccupati, ma anche a quasi 3 milioni di lavoratori immigrati, arabi, senegalesi, albanesi, rumeni, altrimenti destinati non solo al supersfruttamento della marginalità, del ricatto odioso delle espulsioni e delle vessazioni poliziesche, ma ad essere usati cinicamente contro i lavoratori italiani, come strumento di divisione sociale, o come pretesto di campagne politiche contro i diritti di tutti.
Certo non siamo noi, con le nostre sole forze, a poter determinare una vertenza generale unificante del mondo del lavoro. Ma possiamo e dobbiamo batterci in ogni movimento e in ogni lotta per avanzare questa prospettiva. Perché se le sinistre di governo hanno il mandato di disinnescare il conflitto e dividere i lavoratori, il nostro partito investe, al contrario, nella prospettiva di un’esplosione sociale generale, concentrata e radicale. L’unica che possa ribaltare i rapporti di forza e dischiudere dal basso uno scenario nuovo. E proprio la crisi diffusa di consenso verso le politiche dominanti, nonostante le immense difficoltà, fornisce una base oggettiva a questa nostra proposta.


L’impostazione della nostra battaglia sindacale

Questo è il senso del nostro stesso lavoro sindacale, su cui svilupperemo dopo il congresso, uno specifico approfondimento.
Il lavoro sindacale dei comunisti non è una sfera separata, è parte di una battaglia di massa tesa a conquistare la maggioranza della classe ad una prospettiva politica indipendente.
Per questo non ci identifichiamo, come PCL, in questo o quell’altro sindacato. Ci identifichiamo in un progetto politico complessivo da condurre in tutti i sindacati. In tutti i sindacati in cui i nostri compagni sono collocati, nella CGIL, nella CUB, nello SDL, tra i COBAS, nello SLAI-COBAS, portiamo avanti la nostra proposta di indipendenza e unificazione del fronte di classe: in primo luogo contro la politica della burocrazia sindacale, e della CGIL in particolare, che porta tra i lavoratori gli interessi del capitalismo italiano; ma anche contro ogni logica che subordini lo sviluppo e la radicalizzazione del movimento di lotta all’interesse conservativo, reale o presunto, di questa o quell’altra sigla o componente.
Con questo metodo ci siamo battuti e ci battiamo per l’unità d’azione di tutte le forze del sindacalismo di classe, ovunque collocate, come in occasione degli scioperi generali contro le finanziarie del governo Prodi o il protocollo di luglio.
Con questo metodo abbiamo proposto una grande assemblea nazionale dei delegati del NO al protocollo come momento di autorganizzazione democratica e di unificazione dell’avanguardia sociale, per consentire a quel milione di lavoratori che si è opposto all’accordo non solo di contrastare la svendita parlamentare del loro no, ma di porsi come soggetto di riferimento di più vaste masse, di definire finalmente una propria piattaforma e una propria proposta di lotta da rivolgere all’insieme del movimento operaio, provando ad aprire una pagina nuova.

Ed è significativo, lasciatemelo dire, che mentre questa proposta è stata accolta e rilanciata da settori limitati ma preziosi dell’avanguardia operaia (dal comitato del NO della FIAT di Cassino al comitato del NO del porto di Genova, passando per le avanguardie delle meccaniche FIAT di Mirafiori ) quella proposta elementare è stata invece respinta o ignorata, non solo com’è ovvio dalle sinistre di governo, da subito protese alla svendita, ma anche dall’insieme delle sinistre critiche o antagoniste: ognuna in realtà preoccupata non di unire e sviluppare il movimento reale, ma di difendere prioritariamente la propria rendita di posizione dal movimento reale e da una possibile dialettica libera, su basi democratiche e senza steccati che avrebbe potuto svilupparsi al suo interno.
E’ stata un’esperienza preziosa perché anche qui passa, vedete, la distinzione tra il nostro partito e le altre sinistre. Chi vuole semplicemente proteggere il proprio spazio di sinistra critica o antagonista, finisce con l’essere settario verso il movimento reale e il suo sviluppo. Chi vuole costruire un partito rivoluzionario non ha altro interesse da difendere che il movimento reale delle masse e, in esso, una libera battaglia anticapitalistica per l’egemonia.


Centralità operaia non è economicismo
Per una risposta di classe a tutte le domande di liberazione


Al tempo stesso la centralità della classe operaia non significa per noi economicismo: un curarsi dei temi sindacali a scapito di altre domande e tematiche di emancipazione e liberazione, quasi vi fosse una sorta di superiorità di valore del tema del salario o della pensione rispetto alla difesa dell’ambiente, alla lotta antimperialista, alla liberazione della donna.

No.
Per noi centralità della classe operaia significa, al contrario, assumere la classe come leva centrale di ricomposizione, sul terreno anticapitalistico, di tutte le domande di emancipazione e liberazione: perché nessuna di quelle domande può trovare soddisfazione fuori da una prospettiva anticapitalistica; e nessuna prospettiva anticapitalistica può darsi senza l’irruzione decisiva della classe operaia.

Ma proprio per questo il PCL rompe con una tradizione politica e culturale di lungo corso, che ha attraversato DP, è passata per il PRC, è approdata in parte in Sinistra Critica, secondo cui in buona sostanza si tratterebbe di sommare il marxismo, l’ecologismo, il pacifismo, il femminismo, come somma arcobaleno di valori e culture “critiche”. E’ una visione subalterna: che da un lato riduce il marxismo a filosofia tra le filosofie, disimpegnandolo paradossalmente proprio dall’elaborazione programmatica su terreni complessi e impegnativi; e che dall’altro priva quelle bandiere dell’ecologismo, del pacifismo, del femminismo, che pure impugna, di una prospettiva reale di trasformazione, o riducendole a icone inoffensive, o assumendone le espressioni ideologiche neoriformiste.

Vogliamo fare l’opposto.
Vogliamo sviluppare il programma rivoluzionario del marxismo su tutti i temi dell’emancipazione umana, dare una risposta di classe e comunista a tutte le domande di liberazione; che non è solo il modo di sviluppare il marxismo “sul suo proprio terreno”, come affermava Gramsci, ma è anche e soprattutto indicare l’unica risposta reale, non ideologica, ai bisogni di emancipazione di vaste masse.

Perché non c’è risposta reale alla tematica di liberazione della donna senza mettere in discussione quell’organizzazione capitalistica della società che rialimenta e riproduce ogni giorno l’oppressione di genere.

Non c’è risposta reale alla domanda ecologico-ambientale senza colpire un sistema capitalista basato sulla legge cieca del profitto: che riduce a merce non solo il lavoro ma la natura, e dunque lo stesso rapporto tra l’uomo e la natura; come rivela il business dei rifiuti, l’intossicazione dei cibi, lo scempio delle coste, ed oggi persino l’assunzione della stessa sensibilità ecologica di più ampi settori di massa come terreno di nuove speculazioni di mercato e di nuovi inquinamenti.

Non c’è risposta reale alla domanda di pace senza l’aperta rottura con l’imperialismo e innanzitutto il nostro imperialismo: quindi senza andare al di là del pacifismo, chiamando in causa gli interessi delle nostre classi dominanti e i crimini delle nostre truppe tricolori: come quelli compiuti in Iraq nella battaglia dei Ponti con l’assassinio impunito di decine di irakeni. Perché tutti ricordano i militari italiani uccisi a Nassiriya. Nessuno ricorda bimbi e donne gravide colpiti dal piombo delle truppe italiane in quella terra. Nessuno denuncia lo scandaloso silenzio bipartisan che copre ancora oggi le menzogne dei nostri generali e le false informazioni del governo.
Ecco: a differenza delle Sinistra arcobaleno, il partito che vogliamo costruire non piegherà mai la verità alla retorica tricolore, al codice del silenzio e della complicità.

E così nella lotta contro la Chiesa.
Non c’è una risposta reale alla stessa domanda laica e anticlericale, così presente in larga parte della società italiana, senza ricondurre le lotte importanti per i diritti civili alla messa in discussione del potere materiale della Chiesa e della sua connessione profonda con il capitalismo italiano e internazionale: senza rivendicare, ad esempio, non solo la soppressione dei finanziamenti pubblici oggi elargiti a scuola e sanità private, ma l’esproprio del gigantesco patrimonio immobiliare della Chiesa e la sua devoluzione ai bisogni e alle esigenze sociali di milioni di lavoratori e di diseredati.
Il cardinal Bertone rivendichi pure il Togliatti dell’articolo 7 come modello per Walter Veltroni, noi all’opposto vogliamo rompere con la lunga, ossequiosa sudditanza storica della sinistra italiana al Vaticano. Quando diciamo che siamo “coerentemente anticlericali perché coerentemente anticapitalisti”, vogliamo esattamente intendere questo.

Insomma: l’anticapitalismo non è per noi un’ideologia.
E’ la cifra concreta di quel programma di trasformazione dell’ordine materiale della società senza la quale tutte le domande di emancipazione finiscono sul binario morto delle evocazioni vuote, magari imprigionate nel finto ping pong di un’alternanza senza alternativa.

Per questo in ogni movimento di lotta, nel movimento contro la guerra, nelle lotte contro l’inquinamento, gli inceneritori o la privatizzazione dell’acqua, nelle manifestazioni del movimento delle donne, nelle mobilitazioni per i diritti civili, dobbiamo combinare la partecipazione piena ai movimenti, che è anche lavoro di costruzione e unificazione delle loro lotte, con l’articolazione di una proposta programmatica di rottura con la borghesia.

Proprio l’elaborazione e l’articolazione di una nostra proposta programmatica anticapitalista in ogni settore di intervento, che superi i limiti del nostro primo documento congressuale (come sul tema dell’ambiente), sarà un compito importante del nuovo partito, dei suoi gruppi dirigenti, delle sue commissioni di lavoro.


Nelle lotte di ogni giorno la prospettiva anticapitalista
Via la dittatura degli industriali e delle banche


Proprio perché l’anticapitalismo e una prospettiva socialista non sono per noi, a differenza di altri, un orpello ideologico, ma un fine reale, la vera bussola della nostra azione e delle nostre scelte, nelle grandi come nelle piccole cose, non riduciamo il socialismo a convegnistica intellettuale, ma lo incorporiamo nella nostra politica.

C’è una tradizione un po’ curiosa, che accomuna gruppi estremisti o aree centriste di diverso segno, che combina il minimalismo politico delle proposte con l’apparente radicalità della propaganda. Nei giorni feriali, si fa per dire, la lotta per il salario. In qualche canonica festività la commemorazione della rivoluzione d’Ottobre (quando va bene) o l’evocazione del socialismo come immaginario della letteratura. In mezzo, il nulla.

Il PCL rompe con questa tradizione e ne recupera un’altra, quella originaria dei comunisti, di Marx,di Lenin, di Trotskj: quella che costruisce il ponte tra il presente e il futuro; che fa vivere la prospettiva anticapitalista in ogni piega della propria azione; che in ogni movimento, in ogni lotta, cerca di sviluppare la sua coscienza e le sue potenzialità verso la rottura con l’ordine costituito. Verso la comprensione che solo la rottura col capitalismo, solo un governo dei lavoratori, basato sui loro interessi e sulla loro forza, possono aprire una prospettiva nuova e realizzare un’ alternativa vera.

Per questo, a differenza di tutte le altre sinistre, le nostre rivendicazioni programmatiche non rispettano le colonne d’Ercole di questo sistema; non si limitano agli obiettivi cosiddetti “realizzabili” dentro questa società, ma assumono come unico vincolo le necessità reali delle classi subalterne contro quelle compatibilità. Con una radicalità uguale e contraria alla radicalità dello sfruttamento capitalistico e dell’oppressione quotidiana di milioni di uomini e di donne.

Di fronte a migliaia di aziende in crisi, di padroni che licenziano i lavoratori, non ci accodiamo alle compravendite di mercato e alla negoziazione dei cosiddetti esuberi. Rivendichiamo il licenziamento di quei padroni, cioè la nazionalizzazione delle loro aziende sotto il controllo dei lavoratori.

Di fronte ad aziende assassine, responsabili di migliaia di omicidi bianchi di lavoratori impoveriti e ricattati, non ci accodiamo agli appelli ipocriti, al “codice etico” o all’annuncio di nuovi ispettori (compiacenti): chiediamo la galera per i responsabili, l’esproprio delle loro fabbriche, il controllo operaio su tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro, in tutte le aziende di questo Paese. Che è l’unica risposta reale al cinismo criminale del capitalismo e del mercato.

Di fronte allo strapotere delle banche, vero bastione della seconda repubblica, che oltre ad essere responsabili di infinite truffe e crimini finanziari, impiccano a mutui usurai milioni di famiglie, non ci affidiamo alle rituali risoluzioni dell’antitrust o alle platoniche sentenze della magistratura: noi rivendichiamo la nazionalizzazione delle banche, con la stessa logica con cui si rivendica il sequestro di un’associazione a delinquere. Ed anzi il PCL vuol fare della battaglia di massa contro questa associazione a delinquere non solo un elemento riconoscibile del suo profilo pubblico, ma una proposta politica di massa sul terreno della ricomposizione di un vasto blocco sociale alternativo che unisca l’operaio, il precario, il pensionato, ma anche un vasto settore del piccolo lavoro autonomo e del piccolo risparmio: a riprova del fatto che proprio un programma anticapitalistico radicale può saldare attorno al movimento operaio tutta la rabbia sociale contro gli attuali poteri dominanti.


Per il potere dei lavoratori e delle lavoratrici
Una risposta rivoluzionaria all’antipolitica e al populismo


A chi ci obbietta che questo programma è “irrealizzabile”, rispondiamo che proprio questo è paradossalmente il suo punto di forza: dimostra che tutte le necessità più elementari delle grandi masse richiedono il rovesciamento delle attuali classi dominanti, il potere dei lavoratori e delle lavoratrici.

Questo, in definitiva, è ciò che segna più nel profondo la natura e l’identità del nostro partito. Noi poniamo in ultima analisi al centro della nostra politica la questione del potere, la questione di chi comanda, la questione della forza.
Senza questa prospettiva tutto il vocabolario anticapitalista resta retorica vuota o si riduce, per dirla con Marx, alle armi della “critica”.
Senza mettere in discussione il potere reale di quella minoranza di industriali e di banchieri che concentra nelle proprie mani tutte le leve di comando, in osmosi profonda con l’apparato dello stato e con i partiti dominanti (in Italia come in tutte le democrazie borghesi), non si dischiude alcuna prospettiva di alternativa di società, come ci rivela la lunga storia italiana.
Vogliamo introdurre in ogni lotta il seme di questa consapevolezza.

A chi ci obbietta, in nome del “realismo”, che non è questo il tempo di evocare la prospettiva della rivoluzione, ma solo di agitare temi sociali immediati, facciamo osservare che proprio la realtà della crisi sociale pone la radicalità delle soluzioni politiche. A loro modo ne sono oggi coscienti persino settori dominanti.
E’ un caso che a fronte del disarmo politico e culturale di una sinistra sempre più omologata siano oggi ambienti borghesi e reazionari a sdoganare paradossalmente il termine “rivoluzione”?
La seconda repubblica è stata presentata come rivoluzione liberale.
La Lega di Bossi evoca la “rivoluzione padana”, e persino l’immagine dei fucili.
Berlusconi presenta il suo nuovo partito come l’inizio di una “avventura rivoluzionaria”.
La verità è che il disincanto di massa verso le politiche dominanti, combinato con l’assenza di un’opposizione di sinistra antisistema, ha spianato la strada ad una demagogia populista anche all’interno di settori operai e popolari. Ed oggi è talmente profondo il disincanto popolare che le operazioni politiche più conservatrici, e persino reazionarie, devono cercare di presentarsi come “rivoluzionarie” per esercitare suggestione e raccogliere consenso.

Sarebbe davvero paradossale, tanto più oggi, se fossero proprio i comunisti a temere di parlare di rivoluzione. Di più, sarebbe irresponsabile. Perché significherebbe avallare ed ampliare lo spazio di suggestione del populismo più reazionario.
La necessità che abbiamo è esattamente opposta: quella di dare al disincanto popolare e all’umore di massa una traduzione di classe, totalmente alternativa al populismo ma altrettanto radicale e di rottura. Restituendo al termine di rivoluzione il significato che Gramsci gli diede quando disse, sullo sfondo dell’avanzata dello squadrismo, che l’unica vera rivoluzione possibile in Italia è la rivoluzione socialista.

E questa prospettiva socialista va fatta vivere nella nostra politica con il linguaggio più accessibile e popolare, fuori dal finto bon ton del politichese. Per questo, a fronte della marea montante dell’antipolitica e del suo veleno qualunquista, non dobbiamo temere di essere noi a rivendicare un altro potere e un altro stato: ad esempio con deputati revocabili dai loro elettori, con lo stipendio di un deputato del popolo pari a duemila euro mensili, con l’abolizione di ogni privilegio, di ogni barriera divisoria, materiale e simbolica, tra le grandi masse e la politica; ma anzi restituendo alla maggioranza della società il potere non solo di votare, ma di decidere sulla propria vita e sul proprio futuro. Che è poi il vero potere reale.

E su questi temi crediamo importante che il nuovo partito appronti nella prossima fase una precisa iniziativa politica e pubblica.


La costruzione autonoma del PCL al di là delle varianti dello scenario politico

Questo programma generale, proprio perché ancora la nostra stessa esistenza a un progetto di fondo, è uno strumento essenziale per tenere oggi la rotta della nostra impresa, al di là dei mutamenti della situazione politica e delle sue infinite variabili.

Il PCL nasce per vivere a lungo. E dunque per misurarsi col saliscendi inevitabile degli avvenimenti politici e sociali.
Gli scenari politici futuri, anche prossimi, potrebbero vedere, come tutti sappiamo, modifiche sensibili del quadro politico.
Il governo Prodi è in larga parte consunto, al di là della sua formale sopravvivenza.
Una parte importante di quei poteri forti che l’hanno sostenuto e che hanno beneficiato della sua politica, guarda già oltre.
L’asse negoziale tra Veltroni, Berlusconi e Bertinotti attorno alla ricerca di una nuova legge elettorale, introduce un ulteriore fattore di destabilizzazione. Sia che si concluda attorno alle ipotesi formulate, sia che fallisca.
Nell’un caso come nell’altro, le risultanti possibili sono molto diverse tra loro: dalla continuità ancor più precaria di questo governo, alla corsa verso elezioni anticipate con la presente legge elettorale, sino addirittura a ipotesi, alquanto improbabili ma non impossibili, di governi istituzionali di unità nazionale.

Su questo scenario più prossimo e sui nostri compiti più immediati presenteremo, a conclusione del congresso, un breve e specifico ordine del giorno.
Ma è evidente che dobbiamo esser pronti ad ogni evenienza, a fronteggiare ogni possibile variante.
Denunciando in ogni caso, sin dai prossimi giorni, l’ipocrisia di una cosiddetta “verifica di governo” che non riguarda i salari ma le convenienze elettorali, non l’interesse dei lavoratori ma quello di coloro che li usano per i propri specifici interessi.
Sviluppando una nostra battaglia controcorrente per una legge elettorale proporzionale pura, contro tutte le proposte dominanti funzionali a rafforzare esclusivamente la stabilità dei governi borghesi, e quindi la governabilità delle loro rapine contro i lavoratori.
Rivendicando più che mai il bilancio del fallimento generale del Centrosinistra e delle sinistre che l’hanno sorretto: indipendentemente dal fatto che continuino a sostenere Prodi, o che vengano scaricate all’opposizione dopo il lavoro sporco prestato, o che persino decidano di staccare la spina al governo per negoziare più liberamente con Berlusconi una legge elettorale che consenta domani di ricomporre un governo con Veltroni.

In ogni caso, le ragioni del Partito Comunista dei Lavoratori, di una nuova sinistra italiana, sono e saranno documentate dai fatti. Proprio perché forti delle nostre ragioni dovremo nel nostro lavoro, già nella prossima fase, combinare la difesa intransigente della nostra autonomia con la più ampia proiezione esterna. Predisponendoci a intercettare, sulle nostre basi politiche e sui nostri programmi, tutto ciò che l’esperienza dei fatti potrà liberare verso di noi.
Tra i tanti compagni di base del PRC, che oggi si interrogano più di ieri, più di un anno e mezzo fa, sul proprio destino politico: ai quali il voto sul protocollo, l’annullamento del simbolo, il rinvio del congresso, sta ponendo l’onere di decisioni non più rinviabili.
E soprattutto nell’avanguardia sociale dei movimenti e della classe operaia, dove abbiamo registrato nell’ultima fase un interesse crescente verso di noi da parte di settori preziosi d’avanguardia, in particolare in alcune grandi fabbriche.
Peraltro, l’affllusso più ampio di nuove richieste di adesione al PCL che ci sono pervenute via e-mail nell’ultima fase, e in particolare nell’ultimo mese, non sono solo ragione di soddisfazione, pur nella consapevolezza della modestia ancora delle nostre forze: sono anche la spia di potenzialità nuove e più ampie, iscritte nella crisi profonda della sinistra italiana che sta a noi cercare di capitalizzare. Lavorando a combinare, magari meglio che in passato, i due elementi decisivi di metodo che nel documento congressuale abbiamo richiamato: il rigore e l’apertura.

Il rigore, perché senza il rigore dei principi non si costruisce nulla di nuovo, perché senza un partito di militanti e di quadri non si va da nessuna parte, men che meno si persegue il nostro fine.

L’apertura nell’azione di raggruppamento e di costruzione del PCL, perché a differenza di altri non ci diamo come compito quello di conservare noi stessi, ma di costruire, sulle nostre basi, una nuova direzione dei movimento operaio italiano.