Archivio di Unità di Classe - Giornale Comunista dei Lavoratori

Il Giornale Comunista dei Lavoratori - Luglio 2007

Trascrizione degli articoli pubblicati pubblicati sul Giornale Comunista dei Lavoratori del luglio 2007.

Editoriale - di Marco Ferrando

Un partito dei lavoratori per una alternativa di sistema

Le elezioni amministrative di maggio e la giornata antiBush del 9 giugno segnano simbolicamente la situazione politica. Il governo Prodi registra un’autentica precipitazione di consenso sociale. La sinistra che lo sorregge finisce col rompere con il proprio popolo. La necessità di un Partito comunista dei lavoratori, come riferimento autonomo e alternativo, emerge una volta di più dall’esperienza dei fatti.

Un centrosinistra senza popolo

Un anno di missioni militari e sacrifici sociali ha scavato un fossato profondo tra il governo dell’Unione e un’ampia parte del suo elettorato. La massiccia astensione dal voto amministrativo del 26-27 maggio è l’espressione più netta del disincanto. Chi aveva lottato per anni contro Berlusconi in attesa di una svolta di fondo si è visto riproporre le stesse politiche di Berlusconi col voto determinante delle sinistre, e ha voltato le spalle al governo. Milioni di lavoratori e di giovani hanno semplicemente “scioperato” nell’urna contro un governo che avvertono ormai sempre più estraneo e ostile. In più la disaffezione elettorale diffusa si combina con l’emergere ,da più parti, di una contestazione aperta al governo. Prima i fischi di Mirafiori contro la finanziaria, poi la grande manifestazione di Vicenza contro l’allargamento della base militare, infine la manifestazione antiBush e antiProdi del 9 giugno hanno segnato simbolicamente, nella loro successione, l’estendersi di una linea di frattura che inizia a tramutare il disincanto passivo in reazione attiva. Non è un processo lineare né scontato. Ma indica dopo un anno le potenzialità di sviluppo di un’opposizione di massa al governo dell’Unione.
La sinistra di governo, ed in particolare il PRC, è profondamente colpita da questa dinamica sociale. Il malcontento di massa del popolo di sinistra non si trasforma in un rafforzamento elettorale della sinistra dell’Unione - in chiave di pressione sul governo - ma nell’approfondimento della sua crisi. Il dimezzamento elettorale del PRC a maggio e il clamoroso flop della sinistra di governo il 9 giugno sono indicativi: il popolo che abbandona il governo non segue la sinistra che lo sorregge. Ed anzi le contestazioni che inseguono Bertinotti in giro per l’Italia dimostrano che proprio sulla sinistra di governo si scarica l’insofferenza antiProdi e l’accusa di tradimento di importanti settori di avanguardia. Così quella “ unificazione della sinistra” di governo rivendicata da Giordano,Mussi e Diliberto con tanto di fanfare, si delinea come sommatoria di sinistre sconfitte, compromesse dall’impopolarità di un governo che si ostinano a sorreggere al solo scopo di conservare i propri ministeri e sottosegretari. Di certo la sinistra di governo è costretta a confessare a Prodi di non riuscire a controllare i movimenti, quando proprio questa promessa era stata la moneta di scambio per ottenere i ministeri. Così la crisi del PRC diventa uno dei fattori della crisi strisciante del governo Prodi.

Per una alternativa dei lavoratori

Si tratta ora di sviluppare e unificare un’opposizione di classe al governo dell’Unione, trasformando lo sciopero del voto nello sciopero generale. La lotta a difesa delle pensioni, contro ogni allungamento dell’età pensionabile e per il ritorno della previdenza a ripartizione, è la “prima linea” dell’opposizione sociale. E va collegata alla lotta per la sanità pubblica, per la scuola pubblica, per il reale diritto alla casa, contro lo strozzinaggio di affitti e mutui insostenibili. A chi dice che “i soldi non ci sono” indichiamo il tesoro da cui attingere (altro che “tesoretti”!): i 21 miliardi di euro per spese militari, gli enormi profitti delle grandi imprese e delle banche, gli scandalosi privilegi fiscali del clero.
Così denunciamo, da un versante di classe, lo scandalo dei privilegi istituzionali. Non si può lasciare questa materia nelle mani ipocrite del populismo reazionario delle destre e dell’“antipolitica”. Un’opposizione di classe deve apertamente rivendicare l’abbattimento degli stipendi parlamentari, la fine di ogni privilegio pensionistico di “casta”, l’abolizione del Senato e di ogni forma di parassitismo istituzionale. Non vi sono “i costi della politica”, ma i costi del regime borghese: che sono anche i costi dei giganteschi trasferimenti di denaro pubblico alle grandi imprese e dei trasferimenti “privati” delle imprese e delle loro lobby, ai propri partiti parlamentari, in un intreccio inestricabile di politica e affari. La verità è che solo un’alternativa anticapitalistica può costruire uno Stato “trasparente” e a “buon mercato”, privo di ogni privilegio perché basato sull’autorganizzazione dei lavoratori e sulla revocabilità permanente di ogni rappresentante eletto.
Così un’opposizione di classe deve mettere apertamente in discussione il potere economico delle classi dominanti, santuario occulto di una lotta per bande nutrita da risorse pubbliche e intrecciata con gli apparati dello Stato (Tronchetti Provera insegna). Quelle stesse banche italiane esaltate dalla grande stampa e protette dal “Partito Democratico” (Banca Intesa da Prodi, Unicredito da D’Alema) sono esattamente le banche responsabili (ufficialmente) del ladrocinio Parmalat, delle truffe Cirio e bond argentini, del mercimonio Telecom, oltre che dell’ordinaria attività usuraia nei confronti di milioni di famiglie. Sono anche quelle stesse banche cui Prodi regala TFR, fondi pensione, Alitalia… Una campagna di massa per la nazionalizzazione delle banche sotto il controllo dei lavoratori e dei consumatori, non solo risponde a un criterio elementare di igiene morale e risparmio pubblico, ma potrebbe incontrare il sostegno di ampi settori di massa. E in ogni caso chiarisce ancora una volta il senso stesso dell’unica alternativa vera: quella di un governo dei lavoratori che liberi la maggioranza della società dalla dittatura del capitale finanziario, dei suoi governi, dei suoi partiti.
Del resto lo scandalo delle relazioni dei dirigenti DS con i peggiori faccendieri del sottobosco finanziario (i Consorte, i Fiorani, i Ricucci), in un gioco di reciproci favori con Berlusconi per la scalata di Antonveneta e BNL, dà la misura di come la politica borghese anteponga i comuni interessi di classe ad ogni logica formale di schieramento. Il suo unico credo è il profitto, la sua vittima i lavoratori. Per questo solo un governo dei lavoratori può liberare la società e la politica da questa autentica spazzatura.

Per un partito di classe indipendente

Legare l’opposizione a Prodi alla prospettiva di un’alternativa di sistema richiede la costruzione di un partito indipendente dei lavoratori e delle lavoratrici. Le correnti della stessa sinistra d’opposizione che obiettano a questa conclusione non lo fanno per divergenze astratte sulla “forma partito”, ma perché rimuovono dal proprio orizzonte l’alternativa di sistema. Per un puro antagonismo di movimento, che vive di soli obiettivi immediati, non è necessario un partito: al più è sufficiente un’organizzazione politico-sindacale. Per una linea di appoggio esterno al governo Prodi, da incalzare con i movimenti, non è necessario un partito: è sufficiente una “sinistra critica” del PRC o al più un effimero cartello politico-elettorale. Ma per costruire nei movimenti e nelle lotte la prospettiva di un’alternativa di potere allora è necessario un partito: fondato su principi rigorosi, fortemente organizzato, socialmente radicato, capace di memoria storica, legato ai rivoluzionari di tutto il mondo. Peraltro solo questo partito può impedire che ancora una volta le lotte e i movimenti che verranno siano nuovamente subordinati ai disegni dei loro avversari.
Questa è la prospettiva del Partito Comunista dei Lavoratori. Un anno fa puntammo su questa impresa. L’esperienza dei fatti ha interamente confermato la sua necessità e praticabilità. A sinistra del PRC e del governo Prodi si è aperto, come avevamo previsto, uno spazio politico grande. Non si tratta di occuparlo con l’ennesimo castello di carta di qualche suggestione estemporanea, movimentista e/o elettoralista. Si tratta di costruire tenacemente e pazientemente un partito rivoluzionario della classe lavoratrice, che sappia costruire un altro futuro.
Il congresso fondativo del Partito Comunista dei Lavoratori sarà un passo avanti fondamentale di questo processo.

Un anno di politica economica del governo Prodi: dalla parte dei padroni, senza riuscire a soddisfarli - di L.S.

Un governo senza una solida maggioranza parlamentare, ma con un preciso obbiettivo liberale

Il governo Prodi ha stentatamente raggiunto un anno di vita. Un anno segnato dall’esito elettorale del 2006 e dalla sua risicata maggioranza al Senato. Ci si poteva aspettare, a fronte di queste difficoltà, una politica economica prudente. Ed effettivamente si può pensare che questo sia stata l’impostazione prodiana, almeno sino a questa primavera. Una politica con un preciso obbiettivo: la rapida riduzione del deficit attraverso l’aumento del carico fiscale (sostanzialmente a carico del lavoro dipendente), la crescita dell’avanzo primario (spendere meno delle entrate), la destinazione a tale scopo di ogni eventuale nuova entrata (conseguente a privatizzazioni e/o miglioramenti del ciclo economico). Indirizzata su questo binario la gestione dei conti pubblici, il governo si è sostanzialmente barcamenato tra grandi annunci, piccole riforme e soprattutto passi felpati.

Il Dpef 2006 ha annunciato un piano di controriforme vasto (pensioni, sanità e servizi pubblici). La finanziaria è poi stata caratterizzata da una significativa correzione, 40 mld di euro, di nuove tasse e tagli alla spesa. Per ripagare gli umori scontenti di Confindustria, a loro si è destinato il cuneo fiscale. Ma non c’era più traccia dei grandi interventi strutturali sul pubblico impiego, sulle pensioni, sulla sanità promessi al padronato.
Sul fronte delle liberalizzazioni il decreto Bersani ha avuto molta visibilità, intervenendo su alcune nicchie commerciali e sui liberi professionisti. Ma non si è ancora riusciti ad imporre in Parlamento il decreto Lanzillotta, per rinvigorire la concentrazione delle municipalizzate. E le privatizzazioni, già bloccate durante il governo Berlusconi, non hanno visto nuovi rilanci. Questa politica è stata facilitata da alcune condizioni congiunturali, grazie al combinato disposto della positiva fase del ciclo e di una inaspettata tenuta del tessuto industriale italiano. Certo, il mantenimento della politica di bilancio come obbiettivo fondante del governo ha caratterizzato una finanziaria “di rigore”, privilegiato il capitale (cuneo fiscale) e colpito il lavoro dipendente (tasse e tagli ai servizi pubblici). Però fondamentalmente questo risultato è stato ottenuto senza imporre grandi controriforme e senza dare eccessivi scossoni all’Unione.


Il vento di primavera, annuncio di nuovi attacchi al mondo del lavoro

Ma un vento di primavera sembra aver cambiato le cose, lasciando cadere le prudenze autunnali. Una tendenza a sbloccare i provvedimenti liberali in cantiere ha iniziato a soffiare sulla grande stampa.
Sul fronte del TFR, l’approssimarsi della scadenza sul silenzio-assenso rende evidente il fallimento di questo provvedimento: meno del 10% dei lavoratori ha già optato per i fondi, probabilmente molto meno della metà sarà costretta a farlo con la mancata esplicitazione di una volontà contraria. La necessità di creare grandi conglomerati finanziari, in grado di intervenire nella ristrutturazione produttiva in corso, non è soddisfatta. E non a caso in ambienti confindustriali, tra le righe dei supplementi economici, in alcuni ambienti del centrosinistra si inizia a sussurrare una nuova parola d’ordine: è imperativo salvare il “secondo pilastro”, è essenziale dare slancio ad al sistema pensionistico privato, è vitale trasferire una quota delle trattenute, oggi versate all’INPS, ai privati.
E cresce l’urgenza di colpire nuovamente il “primo pilastro”, la pensione pubblica, per innescare una necessità non sentita tra i lavoratori: il finanziamento delle pensioni private. L’innalzamento dell’età pensionistica, ma sopratutto l’abbassamento dei coefficienti (l’abbassamento delle pensioni reali), più che ad un imprevedibile quadramento dei conti dell’Inps è funzionale a creare la consapevolezza dell’insufficienza della propria pensione.
Sul fronte dei contratti, a dicembre la partita del pubblico impiego sembrava chiusa con il blocco della volontà di Padoa Schioppa di saltare un anno del rinnovo (di non concedere quanto dovuto recuperando l’inflazione reale) e di triennalizzare i contratti (allungare il periodo di adeguamento all’inflazione, abbassando quindi nel tempo i loro salari reali). A distanza di sei mesi, il tira e molla tra provvedimenti tecnici, tavoli di contrattazione e scioperi disdetti ha prodotto la conferma degli obbiettivi di TPS. Il rinnovo ha infatti garantito i conti per il 2007 (l’aumento di 101 euro su 11 mesi sono un costo, per le casse dello stato, sostanzialmente identico ai 94 euro su 12 mesi) ed ha aperto la strada alla triennalizzazione. Questo accordo apre di fatto una nuova stagione di contrattazione sindacale nel nostro paese. Il governo di centrosinistra invia un segnale chiaro ai padroni ed ai lavoratori: le prossime contrattazioni (ad es. metalmeccanici) si apriranno con questa proposta sul tavolo, il mondo del lavoro si è diviso, una sua componente significativa ha rinunciato a lottare.
Sul fronte delle privatizzazioni la primavera ha portato alla riapertura di un ciclo. Da una parte si è avviata la cessione di Alitalia, rinunciando ad un azienda strategica e condannando i lavoratori ad un futuro di tagli e ristrutturazioni. Dall’altra si è annunciata quella di Fincantieri, azienda in attivo, leader mondiale nella cantieristica, che con la sua trasformazione in Spa e la cessione in Borsa del 49% delle azioni si avvia ad un futuro di delocalizzazione e fusione con altre grandi imprese del settore. Due segnali precisi, che rompono la tregua mantenuta dal centrodestra e ricandidano il governo Prodi a seguire il percorso di dieci anni fa, che portò a realizzare le più consistenti privatizzazioni in Europa (da TelecomItalia ad Autostrade).


Le ragioni di un cambio di fase: consolidare il rapporto politico con il grande capitale, sostenere i padroni nella ristrutturazione in corso

Questi segnali si sono concretizzati nonostante l’approssimarsi delle elezioni amministrative, appuntamento che avrebbe dovuto suggerire ben altre prudenze a fronte di un quadro politico così precario. Perché?
L’avvio del Partito Democratico impone l’adozione di una linea che rappresenti questo passaggio storico: sul piano simbolico e su quello della rappresentanza, il Partito democratico si presenta come soggetto interclassista, non più legato al mondo del lavoro dipendente. Ma di più, la stessa stentata esistenza di questo governo ha rilanciato in numerosi circoli la prospettiva di una ristrutturazione del quadro istituzionale. È necessario rilanciare ora una linea in grado di ricompattare gli interessi del grande capitale industriale e finanziario che gioca la sua partita nel processo di integrazione europea, del medio capitale industriale che sta conoscendo in questi anni un significativo consolidamento, del piccolo capitale atterrito da una politica di rigore e dal rilancio dell’euro. Una politica economica in grado di ricomporre e consolidare il blocco sociale della borghesia italiana, che può ritrovare la sua unità a partire da un significativo attacco al salario diretto, indiretto e sociale dei lavoratori. Una spinta alla ricomposizione che ha le sue radici nei processi in corso.
Sul piano strutturale l’avvio dell’integrazione del capitale europeo, con le prime grandi fusioni intracontinentali di banche ed imprese, parallela ad un ennesimo rivolgimento degli equilibri del capitale italiano (vedi le vicende Telecom, Unicredit e Bancaintesa). Un processo che segnala l’urgenza di sostenere un sistema industriale che non è scomparso, ma che è in profonda ristrutturazione, con le fusioni transeuropee (Enel, Autostrade e Telecom), con il consolidamento anche inaspettato di grandi imprese (Eni e Fiat) e con l’emergere di nuove piccole multinazionali (da Marcegaglia all’Indesit).
La congiuntura di questo anno sembra inoltre assai fragile, con preoccupanti segnali del precipitare degli equilibri mondiali, a partire da una possibile recessione statunitense e dalla debolezza dei mercati finanziari cinesi. Un cambio di stagione che si potrebbe produrre congiuntamente al progressivo aumento dei tassi d’interesse europei, per contenere la crescita salariale nel cuore economico del continente, la Germania e la sua filiera mitteleuropea.
In questo quadro si riscontra l’urgenza di un cambio di marcia: la nascita concreta dei fondi privati e quindi la nuova riforma delle pensioni; una compressione dei salari reali, e quindi una riforma delle procedure di contrattazione. Se Prodi non riesce oggi ad intervenire in questa direzione e prosegue la sua “marcia tranquilla” sulla politica di bilancio, il rischio che corre è quello di un cambio di cavallo da parte di settori decisivi del capitale italiano. La ripresa della proposta di un nuovo governo di larghe o piccole intese rischia di diventare per il suo governo di drammatica attualità, in un quadro segnato dal combinato disposto di una diretta scesa in campo di nuove soggettività e di un referendum elettorale in grado di scombinare il quadro parlamentare dato.


È ora che scendano in campo anche i lavoratori: per cancellare le controriforme annunciate, per l’aumento dei salari e delle pensioni, per garantire i diritti del alvoro dipendente cancellando la legge 30.

Questa linea ci pare sia stata accolta da ampi strati di lavoratori con sorpresa, sbigottimento e rabbia.
Sorpresa, perché le diffuse aspettative verso il centrosinistra erano diverse. Il senso comune di vasti settori popolari attribuiva all’Unione una politica di distribuzione e di difesa dello stato sociale; un’aspettativa confermata dal confronto con Berlusconi, rappresentate simbolico e oramai mitico del liberismo, al di là dalle concrete politiche realmente implementate dai suoi governi. Un’aspettativa che è stata incentivata dal Prc, dalla sinistra Ds e dalla Cgil, senza preoccuparsi di gonfiare un’illusione che prima o poi sarebbe esplosa, con effetti devastanti sulla fiducia, la consapevolezza, la reattività dei loro settori sociali di riferimento.
Sbigottimento, perché questo governo sta indebolendo nei lavoratori un riferimento politico storico e la speranza di poter resistere alle politiche liberali. Davanti ad un sindacato che non sciopera, ad un governo Prodi che privatizza, che aumenta le tasse e che riduce i servizi cresce lo sbandamento, la disaffezione ed il voto a destra.
Rabbia, per l’impressione di tradimento, la pesantezza dei nuovi colpi, la coscienza di sé di una classe colpita ma non sconfitta. Una rabbia emersa nei fischi delle assemblee di Mirafiori, nelle scioperi della scuola, nelle partecipate mobilitazioni dei precari del pubblico impiego, nel voto alla Fiat contro la piattaforma contrattuale dei metalmeccanici.
Questa rabbia va colta e rilanciata, perché non prendano il sopravvento la sorpresa e lo sbigottimento. Questa rabbia va indirizzata contro questo governo, costruendo un opposizione sociale di massa alla politica liberale promossa da Padoa Schioppa e controfirmata da Bertinotti.
Lo sviluppo di un movimento di massa può fermare questi provvedimenti. E può scompigliare le carte di chi pensa di sostituire a questa debole maggioranza un nuovo quadro politico impostato su una legge elettorale maggioritaria. Battere oggi questo governo sul fronte delle significa riattivare settori popolari e di classe allo sbando, indebolire una prospettiva di governo istituzionale che si può reggere solo sulla pace sociale, riaprire la reale possibilità di scardinare, dalla parte dei lavoratori, le politiche liberiste di questi anni. Questa rabbia è quindi la nostra rabbia, una rabbia che ci spinge a sostenere e partecipare a tutti gli scioperi di queste settimane, a chiedere e costruire uno sciopero generale contro la riforma delle pensioni.

La disfatta della sinistra di governo, le prospettive del movimento No War - di Danilo Trotta

La giornata di sabato 9 giugno ha presentato contemporaneamente due fenomeni profondamente legati tra loro. Da un lato il fallimento del presidio in Piazza del Popolo a Roma organizzato dalla sinistra moderata e governista (Prc, Pdci, Sd, Verdi, Fiom-Cgil, Arci) e dall’altro la straordinaria riuscita della manifestazione/corteo della sinistra d’opposizione ed antimperialista,con una forte partecipazione del mcPCL, contro la visita in Italia di Bush, la sua politica imperialista e quella del governo Prodi. Il fallimento del presidio della sinistra governativa, al quale non erano presenti più di mille persone (ad essere generosi) rappresenta sia il fallimento della linea di sostegno incondizionato al governo Prodi, sia il conseguente e irreversibile scollamento dei gruppi dirigenti dalla propria base operaia e popolare la quale o refluisce nella passivizzazione (e come visto alle recenti elezioni amministrative esercita una sorta di “sciopero del voto” e non sostiene più i suoi partiti storici, fenomeno che favorisce un pericoloso ritorno delle destre più populiste e xenofobe) oppure,sia pure in misura minore, comincia a mobilitarsi sulle parole d’ordine della sinistra antimperialista, fino a ieri tenuta in disparte (per la serie ”nessun nemico a sinistra). Questa è stata la principale sconfitta di Giordano, Diliberto & C., ovvero l’aver visto cadere nel vuoto l’appello fatto alla propria base militante e simpatizzante la quale ha significativamente disertato il presidio organizzato dai propri leader e ha scelto la manifestazione della sinistra antimperialista, basata sul rifiuto congiunto dell’imperialismo americano e di quello italiano. Questa però è anche una importante tappa nel processo di ridefinizione e disgregazione della sinistra italiana. Là dove i partiti della sinistra governativa lavorano alla costruzione di una forza neo-socialdemocratica e riformista alla sinistra del costituendo Partito Democratico, definito come collage di ceti politici,sono proprio essi, invece, gli artefici di un’operazione di saldatura di burocrazie politiche che non riescono a mobilitare neanche mille persone su un tema strategico come la critica alla guerra imperialista, scontando l’appoggio all’interventismo umanitario di Prodi e D’Alema (in particolare dopo l’incidente del voto in Senato sulla relazione del ministro degli esteri a fine febbraio) e accelerando lo sbriciolamento del proprio consenso e radicamento sociale che a fine legislatura (a patto che il governo ci arrivi!) non potrà che portare questi partiti a rischiare la scomparsa della scena politica come i loro colleghi del Partito Comunista Francese, diventato dopo i governi della “sinistra plurale” una delle più piccole e ininfluenti formazioni politiche della Francia e della sinistra francese.
Le difficoltà cui andrà incontro la sinistra governativa nel tentativo di evitare questo scenario sono enormi, giacché su questioni importantissime come l’allargamento della base di Vicenza o l’aumento delle spese militari (ad esempio l’acquisto degli elicotteri da guerra Mangusta ed altri) essa non ha potuto far altro che abbassare la testa, impossibilitata com’era a rompere col governo e ad assumere un ruolo d’opposizione coerente. L’unica cosa che ha tentato di fare è stata un improbabile mediazione in pieno stile concertativo tra le ragioni dei comitati NO DAL MOLIN e la posizione del governo. Fortunatamente la parte più radicale della comunità vicentina e la sinistra antimperialista sono decise a portare avanti la propria lotta contro la base non solo dal punto di vista ambientale ed urbanistico ma principalmente poiché l’allargamento della base di Ederle è funzionale all’inasprimento dell’impegno militare statunitense in Medioriente ed in particolare in un sempre più possibile intervento contro Iran e Siria.
È evidente però che dopo il 9 giugno si aprono scenari importanti anche per il mcPCL e per il complesso della sinistra antimperialista e d’opposizione. La coerenza con la quale il nostro movimento ha lottato in questi mesi contro il governo Prodi, senza illusioni su ipotetiche pressioni di movimento sull’esecutivo, non appartiene a tutte le organizzazioni che hanno manifestato contro la visita di Bush. Sinistra Critica di Cannavò e Turigliatto e la Rete 28 Aprile in CGIL ancora poco prima della manifestazione assicuravano il proprio sostegno anche all’iniziativa di Piazza del Popolo (che non c’è! ci viene da dire) sostenendo che non ci fosse una sostanziale differenza tra le due dimostrazioni. Anche dopo l’espulsione di Turigliatto dal partito e dal gruppo al Senato di Rifondazione, Sinistra Critica non ha mai assunto una posizione chiara nei confronti del governo Prodi, oscillando opportunisticamente tra la posizione di voce critica della maggioranza e quella di opposizione non troppo radicale. Tanto sulla questione della guerra quanto sulla politica generale del governo occorre chiarezza nelle proprie posizioni le quali devono portare non ad una generica critica nei confronti dell’esecutivo ma piuttosto alla più netta opposizione nei confronti del governo e nei confronti delle ambiguità di alcune organizzazioni del movimento NO WAR. Pericolose sono le argomentazioni di quelle organizzazioni che imputando a Prodi un atteggiamento servile nei confronti degli Usa, rivendicano un ruolo di indipendenza dall’America dell’Italia e dell’Unione Europea. A tal proposito è necessario riaffermare il carattere imperialista del governo Italiano e dell’Unione Europea come blocco degli imperialismi francese, tedesco, inglese ed anche italiano. Servile nei confronti degli Usa era il governo Berlusconi contro il quale il grande capitale italiano (Confindustria e grandi banche) hanno favorito e preparato la vittoria elettorale di Prodi e del centrosinistra, proprio per riassumere quel ruolo di indipendenza dell’imperialismo italiano e di salvaguardia dei propri peculiari interessi. Per tornare ai compiti della sinistra antimperialista bisogna dire che il movimento per il Partito Comunista dei Lavoratori ha avuto un importante ruolo sia nelle mobilitazioni che hanno preceduto quella del 9 giugno sia nell’organizzazione di quest’ultima, giacché siamo stati tra i primi ad associare la lotta contro l’imperialismo americano ad una intransigente opposizione alle politiche guerrafondaie ed imperialiste del governo Prodi. Il mcPCL chiede a gran voce che tutte le organizzazioni realmente impegnate contro la guerra lottino implacabilmente:

- per la denuncia degli interessi dell’imperialismo italiano nei paesi in guerra e per il ritiro incondizionato delle truppe italiane dall’Afghanistan,dal Libano,dal Kosovo e da tutti gli scenari di guerra

- per il taglio immediato delle spese di guerra e il loro investimento nella spesa sociale

- per il rifiuto dell’allargamento della base militare americana di Vicenza e per la chiusura di tutte le basi militari,siano esse americane,NATO o italiane,sulla parola d’ordine “l’Italia fuori dalla NATO,la NATO fuori dall’Italia”

- per la fine immediata di ogni rapporto economico o patto bilaterale con potenze imperialiste (come gli Usa e Israele)

Solo lottando per queste rivendicazioni il movimento contro la guerra può allargare ulteriormente la propria influenza sul complesso del movimento operaio ed attrarre i settori più emarginati della società contro i quali si abbattono i tagli alla spesa sociale,fonte di finanziamento dell’intervento bellico dell’Italia nel mondo.

A un anno dall'insediamento di Ferrero al Ministero della Solidarietà sociale - di Federico Bacchiocchi

Diritti dei migranti: tanto rumore per nulla

Si sa che delle buone intenzioni spesso è lastricata la strada che porta all'inferno, ma ad un anno dal suo insediamento viene da dubitare anche della bontà delle intenzioni del Ministro della Solidarietà Sociale, l'on.Ferrero del PRC.
Il Ministro “comunista” è asceso al governo per farsi interprete delle lotte dei migranti, o così almeno sosteneva in campagna elettorale con il suo Partito. Infatti, appena insediatosi, dichiarava solennemente di voler abrogare la legge Bossi-Fini e assicurava che, come da programma elettorale, i famigerati CPT sarebbero stati chiusi, ossia, testualmente “non ci saranno più” (il Manifesto del 15/12/2006).
Negli stessi giorni però il Ministro dell'Interno, l'on.Amato, sicuramente meno “simpatico” e “movimentista” di Ferrero, ma più realista e sincero sulle vere intenzioni del governo , con senso di opportunità si preoccupava di raffreddare gli entusiasmi e affermava che dei CPT “non possiamo farne a meno”, e che invece di chiuderli era necessario addirittura aumentarne il numero.
Tra i due scoppiò subito, ovviamente, una “dura” polemica, così aspra, vista l'intransigenza del ministro rifondarolo, che doveva sfociare a maggio dell'anno successivo in un ritrovato e amorevole sodalizio suggellato dal Disegno di legge Amato-Ferrero. Era finalmente l'ora dell'abrogazione della Bossi-Fini che apriva l'era della libertà di circolazione per i migranti? Macché, si tratta di una “ragionevole” riforma che di quella legge definita sempre, dal movimento dei migranti, razzista e antisociale, che ne lascia in piedi gli aspetti di sostanza, affiancandogli, in compenso, trovate molto discutibili. Rimangono, infatti i decreti di flusso immigratorio a discrezione del governo in carica, rimane, per il lavoratore immigrato, il cappio al collo del legame tra permesso di soggiorno e lavoro, con l'aggravante che anche il lavoratore a tempo indeterminato possiede un diritto precario a rimanere nel nostro paese e deve rinnovare il permesso, si introducono discriminazioni tra immigrati di serie A con le “corsie preferenziali per l'accesso dei lavoratori qualificati (i ricchi) e gli altri (i poveri in fuga da miseria e guerre) per i quali rimane il calvario di costose (70€ invece dei precedenti 15) e burocratiche procedure per i rinnovi dei permessi. Infine viene reintrodotto lo “sponsor”, previsto già dalla precedente legge Turco-Napolitano, che oltre a privati cittadini, enti locali e sindacati può essere rappresentato anche da associazioni padronali nella posizione di poter assumere il ruolo di intermediatori di manodopera, in altre parole di “caporali” legalizzati dai quali il migrante in cerca di lavoro dipende in tutto e per tutto. E se qualcuno può pensare che queste siano solo le bugie di pericolosi e prevenuti estremisti, vada a chiedere il parere dei migranti senegalesi che solo qualche giorno dopo l'approvazione del DDL Amato-Ferrero hanno contestato il Ministro alla Solidarietà Sociale al grido “sanatoria ora “ e “chiudere i CPT”. Già, i CPT. Sono luoghi di detenzione amministrativa, carceri per migranti, campi di concentramento indegni di un regime minimamente democratico e lesivi dei più elementari diritti umani. Questo lo si può leggere persino tra le righe del rapporto della commissione governativa De Mistura (non certo un gruppo di pericolosi estremisti) che dopo aver effettuato sopralluoghi in tutti i CPT del Paese ne ha bocciati molti e tra questi soprattutto il CPT di Bologna “il più invivibile d'Italia” tanto che il commisario Raffaele Miraglia lo ha paragonato ad un carcere di massima sicurezza.
Senza timore del ridicolo, il Ministro Ferrero era tornato ad affermare che “i CPT vanno svuotati subito e definitivamente superati con l'abrogazione (sic!) della Bossi-Fini”. Peccato che spesso le repliche della storia sono dure e non hanno rispetto per gli animali gentili come quello dell'Onorevole.
Infatti a maggio il Ministero dell'Interno ha stanziato quasi 800.000€ per lavori di blindatura del CPT più invivibile d'Italia, quello di Bologna, cioè per costruire sbarre d'acciaio al posto delle reti metalliche e parallelepipedi di cemento per rimpiazzare i letti, altro che superamento.
I CPT dunque non vengono chiusi, non viene chiuso quello di Gradisca, nonostante le proteste della Regione Friuli e dell'amministrazione della città, non si chiude quello di Lampedusa le cui condizioni di disumanità sono state rivelate dalla famosa inchiesta del giornalista F.Gatti comparsa sulle pagine dell'Espresso. Al più, vista la ricchezza di vocaboli della lingua italiana e dal momento che magari ai ministri del governo Prodi manca il coraggio ma non certo la fantasia, muteranno di nome, in CDI o CDA senza che nulla cambi della loro funzione e del loro carattere detentivo.
Intanto nell'assordante silenzio della sinistra cosiddetta radicale, l'Italia continua a finanziare la costruzione di campi di concentramento per migranti in Libia proseguendo la “delocalizzazione delle politiche di lotta all'immigrazione”inaugurata dalla destra. È così che viene finanziato il famigerato campo di Eli Fellah alla periferia di Tripoli, che il noto giornalista Jas Gavrosski così descriveva nel maggio del 2005: ”Eli Fellah straripa di inumanità, di brutture da terzo mondo. ...mentre noi passiamo vicino ai loro stanzoni (dei detenuti) a cercare la dignità umana richiesta dall'occidente e scopriamo che qui non sanno cosa sia”. In un campo come questo vengono detenute migliaia di persone per motivi arbitrari, quasi casuali in base alla cittadinanza o al colore della pelle, in attesa della deportazione. Sembra di assistere ad un ritorno in pieno stile della tradizione colonialista italiana quando il Ministro Amato, senza vergogna e senza scrupoli, esalta questo tipo infame di cooperazione con il governo libico che a detta sua ha prodotto in un recente passato “effetti e visibili risultati”.
Come sul terreno sociale e della guerra anche su quello dell'immigrazione è evidente la continuità sostanziale tra il governo Berlusconi e il governo Prodi.
In conclusione, abbandonando ogni amara ironia, il bilancio dell'azione di governo dell'on.Ferrero e del suo partito, il PRC, è disastroso per i diritti dei migranti. È successo il contrario di quanto avevano promesso i partiti della cosiddetta sinistra radicale: invece di essere gli emissari nella compagine governativa delle grandi mobilitazioni che hanno attraversato il Paese per contrastare le politiche xenofobe della destra e sconfiggere Berlusconi, esse hanno letteralmente svenduto le ragioni dei movimenti per accreditarsi in un rapporto di interlocuzione privilegiata con le forze del futuro Partito Democratico e i poteri forti che esse rappresentano, e ottenere in cambio poltrone presidenziali e ministeriali. Mettere la “mordacchia” all'opposizione politica e sociale di sinistra era la dote che volevano portare a Prodi. Affermavano che chi si fosse mosso da sinistra contro il governo dell'Unione non sarebbe stato capito dalla gente e avrebbe fallito. Le ultime prove elettorali, ma soprattutto la riposta dei movimenti che stanno reagendo e ritrovando la propria indipendenza dimostrano invece che sono loro a rischiare di rimanere soli.