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Green Border, una recensione

25 Febbraio 2024
green border


In un periodo storico come questo anche la visione di un “buon film” - ovvero una storia solida ispirata a fatti d’attualità con un messaggio progressista forte e chiaro - costituisce una boccata d’aria, almeno sul piano strettamente culturale.

Per questo vogliamo scrivere qualche riga sull’ultima opera di Agnieszka Holland, Green Border (in lingua originale Zielona Granica, distribuito in Italia talvolta con il titolo tradotto Il confine verde), disponibile nelle sale per pochi giorni nelle ultime settimane e pluripremiato alla ottantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2023.

A spingerci alla visione è stato in primo luogo il tema trattato. La Holland non è nuova a parlare nei suoi lavori dei delicati temi del razzismo, della xenofobia, della persecuzione razziale e delle forme di resistenza e solidarietà messe in campo per contrastare tali fenomeni (un esempio è il celebre In Darkness, ambientato però in un’epoca storica e in un contesto socio-politico del tutto differenti), ma qui, per la prima volta, inserisce tali temi nella cornice della nostra contemporaneità e si immette all’interno dell’ondata di pellicole che analizzano – non sempre con risultati degni di nota - la tragica situazione attuale (per fare due esempi di produzione italiana: L’ordine delle cose di Andrea Segre e il recentissimo Io capitano di Matteo Garrone).

In secondo luogo, la nostra attenzione è stata attirata dalle polemiche che hanno accompagnato e seguito la produzione e la distribuzione dell’opera. Il governo ultranazionalista e reazionario polacco ha dichiaratamente boicottato il lavoro della Holland con una serie di operazioni che vanno dall’esclusione dal novero delle pellicole papabili per la candidatura polacca agli Oscar fino dall’equiparazione del film alle opere della propaganda nazista che si evince dalle dichiarazioni fatte dal presidente Duda e successivamente dal ministro della giustizia Ziobro. Accuse di nazismo che la Holland ha giustamente rispedito ai mittenti ricordando anche la sua storia familiare e le sue origini ebraiche. Il ministro dell’interno Kaminski ha invece sostenuto, in un comunicato stampa, che il film è “falso”, “inaccettabile” e costituisce un “attacco brutale all’uniforme polacca” pur non avendo visto che il trailer. Va inoltre ricordato come a tutte le sale cinematografiche polacche che hanno messo il film in cartellone sia stata imposta la proiezione, a mo’ di introduzione, di un breve video istituzionale che smentisce completamente la storia narrata da Agnieszka Holland.

Il film analizza la crisi migratoria - iniziata nell’estate 2021 su istigazione delle vane promesse di fornire un passaggio sicuro verso l’Unione Europea soprattutto ai migranti provenienti dal Medio Oriente diffuse dal regime autoritario e reazionario di Lukasenka - lungo il cosiddetto “confine verde”, una vasta zona di foreste vergini e aree paludose tra Bielorussia e Polonia, attraverso la voce e le vicende di più personaggi: una famiglia di rifugiati siriani in fuga dall’ISIS che si unisce ad una insegnante di inglese di origine afghana e, di volta in volta, ad altri gruppi di migranti di varia provenienza per tentare di attraversare il confine; un giovane ufficiale della polizia di frontiera polacca addestrato a catturare migranti e rispedirli, in spregio al diritto internazionale, oltre i confini dell’UE; un gruppo di giovan*; attivist*; che presta soccorso e assistenza ai migranti nella foresta e cerca di impedire alla polizia di commettere azioni illegali e violente; una psicoterapeuta polacca di sinistra che, spinta da una lunga serie di (mis)fatti, decide infine di uscire dall’inazione e unirsi al gruppo antirazzista citato poco fa diventando così il personaggio centrale almeno nella seconda metà della storia.

Le varie storie finiscono per intrecciarsi in uno o più punti andando così a costituire uno spaccato corale e complessivo della tragedia raccontata. Una narrazione quasi priva di cedimenti ai facili melodrammi o al lato didascalico tipici di un certo cinema “impegnato” e priva anche dei “classici” tentativi di attenuare le responsabilità dei vari attori istituzionali: l’Unione Europea viene citata come uno spettro lontano impegnato a massacrare migranti lungo tutti i suoi confini (e, aggiungiamo noi, a portare avanti politiche di rapina ed espansione imperialista e neocoloniale nei territori africani e mediorientali dove i flussi migratori iniziano) mentre le azioni repressive della polizia di confine polacca e delle forze militari e di polizia bielorusse sono rappresentate senza nessuna indulgenza, ma anche senza disumanizzarne gli autori (espediente purtroppo fin troppo utilizzato dal cinema nella rappresentazione dei personaggi negativi con effetti deleteri sul pubblico) e cercando anzi di mostrare alcuni aspetti della loro vita privata per mettere a nudo contraddizioni e aporie individuali oltre che la pervasività dell’indottrinamento e della disciplina a cui si sono prestati in quanto tutori dell’ordine borghese.

Non siamo certamente di fronte ad un film rivoluzionario o armato di una prospettiva di classe e anti-imperialista, ma ci troviamo al cospetto di un film che pur partendo dall’alveo del progressismo piccolo-borghese risulta indubbiamente ben fatto e franco, capace di fare affiorare continuamente quesiti e riflessioni che oscillano tra il politico e il morale. Probabilmente non adatto a tutt*;. È sicuramente poco raccomandabile per chi si crogiola nell’illusione che basti fare pressione sulle istituzioni o cambiare un singolo governo troppo di destra o appellarsi a qualche legge internazionale per ottenere la fine delle varie crisi migratorie ed umanitarie in corso.

Il film ci fa capire amaramente che il mutualismo, il supporto legale e il primo soccorso, indubbiamente necessari in una simile situazione, non sono sufficienti a rendere meno disumane le vite delle persone migranti e spesso non bastano a risolvere la spirale di violenza e soprusi a cui sono sottoposte. Involontariamente e con una lettura più profonda il lavoro della Holland (che comunque ci perdonerà questa azzardata interpretazione di certo poco gradita) invece ci riporta alla più drastica ma ben più realistica necessità di un cambiamento radicale di sistema, ad uno sguardo attento e consapevole fa capire che solo la rivoluzione e il governo delle lavoratrici e dei lavoratori, senza alcuna distinzione di razza o nazionalità, può farla finita con la sequela infinita di sangue e dolore che si consuma oggi ai margini dell’Europa del libero mercato e dell’austerità.

Un messaggio involontario che - di fronte alle notizie di pestaggi e suicidi quotidiani che giungono dai CPR nostrani, alle continue testimonianze di morti innocenti nel Mediterraneo e nei Balcani, alla oramai quasi certa condanna a quasi 130 anni complessivi di reclusione per lɜ partecipanti della manifestazione contro le frontiere avvenuta al Brennero nel 2016, alla vicenda purtroppo esemplare di Ilaria Salis e del suo processo per antifascismo in Ungheria, e in primo luogo di fronte al massacro in corso nella Striscia di Gaza e, in sordina, nel resto del martoriato Medio Oriente, in Yemen e in Nagorno-Karabakh – appare come una piccola eppur brillante luce nella notte più buia.

Achlys Nakta

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