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La politica di Lenin. Principi e tattica per la rivoluzione [seconda parte]

21 Gennaio 2024

#centovoltelenin

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Prosegue dalla prima parte



LA TATTICA RIVOLUZIONARIA DEL FRONTE UNICO E DEL GOVERNO OPERAIO

La tattica del fronte unico e del governo operaio rispondeva da un altro versante alla medesima questione: la conquista delle masse per il potere. Anche in questo caso, contro le resistenze dell’estremismo e partendo dall’esperienza viva della Rivoluzione russa.

Di cosa si trattava? Si trattava intanto di un’elaborazione tattica che poggiava sull’analisi marxista della realtà obiettiva e sulle necessità obiettive della lotta di classe: quelle della più ampia unità di lotta dei lavoratori contro le classi dominanti. E al tempo stesso della stretta relazione, nella dinamica della lotta, tra gli obiettivi immediati della mobilitazione di classe e la necessità di rompere con il capitalismo in crisi. “Uniamoci nella lotta comune attorno ad una piattaforma indipendente che risponda alle comuni esigenze della nostra classe. Uniamoci nella comune rottura con la borghesia, dentro una lotta comune per il potere dei lavoratori. Perché nessuna delle rivendicazioni elementari della nostra classe è compatibile con questa società: e ognuna di esse richiede una rottura anticapitalistica.”

Questo approccio, rivolto innanzitutto e sempre alle grandi masse, era traducibile in un’impegnativa articolazione tattica. Quella della sfida alle direzioni maggioritarie del movimento operaio, riformiste e/o centriste, perché rompessero con la borghesia, realizzando con i comunisti l’unità d’azione contro di essa sulla base di una piattaforma di classe. Perché questa articolazione tattica? Perché era quella più funzionale a smascherare e a compromettere le vecchie direzioni agli occhi dei settori più avanzati e combattivi della loro base proletaria, e così di allargare presso quella base l’influenza alternativa dei comunisti. Non a caso il Terzo Congresso dell’Internazionale, che varò la tattica del fronte unico, indicò la conquista delle masse (“Alle masse!”) come motivo ispiratore della politica dei partiti comunisti.

Questa innovazione tattica – tanto più suggerita nel ’22 dalle difficoltà della rivoluzione europea, dalla possibile stabilizzazione capitalistica, dalla permanente influenza di massa della socialdemocrazia e del centrismo – incontrò la forte resistenza del bordighismo italiano, del KAPD tedesco, del tribunismo olandese. Una resistenza diversamente motivata: nel caso del bordighismo da una visione essenzialmente passiva e propagandistica della politica rivoluzionaria; nel caso del KAPD e del tribunismo da una concezione della politica rivoluzionaria come offensiva lineare e permanente.

Ma, pur partendo da angolazioni diverse, gli argomenti finivano spesso col convergere. “Che senso ha aver fatto la scissione e aver creato i partiti comunisti se poi si ripropone l’unità d’azione con l’opportunismo? Perché si deve ripiegare su tatticismi da politicanti quando i comunisti sono gli unici a vantare la nettezza e purezza di una lotta anticapitalistica per il potere? Come si può proporre l’unità d’azione a partiti che hanno tradito il proletariato e votato i crediti di guerra?” Tali obiezioni rivelavano in realtà, dentro l’involucro di un’intransigenza formale, un’incomprensione profonda della politica rivoluzionaria e della sua complessità, sostituendola con l’altisonanza della frase o con la retorica del sentimento. Il problema – replicarono insieme Lenin e Trotsky – non è semplicemente riaffermare la propria fede nel comunismo e nella rivoluzione: il problema è conquistare le masse alla rivoluzione. Il problema non è semplicemente la denuncia del tradimento delle direzioni riformiste e centriste: ma distruggere la loro influenza sulle masse quindi sottrarre le masse alla loro influenza. Non sta qui il senso stesso della tattica?

Ancora una volta fu proprio l’esperienza del bolscevismo ad essere indicata come prezioso laboratorio ed esempio. Nel luglio del ’17 i dirigenti socialrivoluzionari e menscevichi, che partecipavano ad un governo borghese e di guerra, avevano represso frontalmente l’avanguardia del proletariato russo e il partito bolscevico. Ma ciò non aveva impedito ai bolscevichi un mese dopo, di fronte alla minaccia controrivoluzionaria di Kornilov, di rilanciare la proposta-sfida agli altri partiti operai e contadini perché realizzassero con i bolscevichi l’unità d’azione contro la reazione, naturalmente nel quadro della propria perdurante opposizione al governo borghese. Anche così i bolscevichi uscirono dall’isolamento, avvicinarono la base dei partiti riformisti, allargarono la propria influenza rivoluzionaria. Del resto: la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” aveva rappresentato la parola d’ordine centrale della politica bolscevica nel ’17. Ma poiché socialrivoluzionari e menscevichi detenevano la maggioranza nei soviet sino al settembre, quella parola d’ordine aveva un solo significato: chiedere pubblicamente a socialrivoluzionari e menscevichi di rompere con il centro liberale cadetto e di prendere il potere attraverso i soviet e sulla base dei soviet.

Non era stata proprio questa tattica politica sistematica, incalzante, ad aver logorato la credibilità delle direzioni riformiste agli occhi della loro base di massa? Ad aver dimostrato alle masse, non attraverso la sola denuncia, ma attraverso la loro esperienza pratica, che le loro direzioni preferivano perpetuare la coalizione col centro liberale cadetto in opposizione alle rivendicazioni di febbraio, piuttosto che unirsi ai bolscevichi per realizzare quelle rivendicazioni rompendo con la borghesia? E a chi obbiettava che quella tattica poteva andar bene in Russia ma non nella moderna Europa, Lenin e Trotsky replicarono che proprio il radicamento infinitamente più saldo e sperimentato del riformismo occidentale rispetto al riformismo russo chiariva che tanto più in Occidente il problema della conquista delle masse non poteva essere affrontato semplicemente con la denuncia o con la propaganda; ma richiedeva la complessità della manovra e della tattica e, quindi, l’assimilazione profonda dell’esperienza vittoriosa del bolscevismo russo. Ancora una volta, proprio la maggiore complessità della rivoluzione in Occidente veniva invocata contro la semplificazione dell’estremismo.
 

L’EGEMONIA PROLETARIA SULLE MASSE OPPRESSE: L'ANTIECONOMICISMO DI LENIN

Ma la concezione dell’egemonia in Lenin non riguardava unicamente l’aspetto – pur essenziale – della conquista della maggioranza del proletariato. Riguardava anche lo sviluppo dell’egemonia del proletariato sul più ampio blocco sociale della rivoluzione. Solo conquistando a un programma anticapitalistico l’insieme della masse oppresse il proletariato poteva veramente candidarsi al potere: questo era un punto centrale della politica di Lenin, contro ogni forma di grettezza operaistica ed economicistica. Il fatto che Lenin sia stato rappresentato lungamente come economicista ed operaista dimostra solamente la potenza geometrica dell’incontro tra l’ignoranza e la mistificazione.

Proprio il Che fare? – solitamente indicato come la massima espressione del ristretto operaismo leninista – è in realtà la più ampia argomentazione leniniana nella necessità di superare ogni economicismo operaistico. Alle posizioni dell’economicismo – incubatore del menscevismo – che sosteneva la necessità che la socialdemocrazia si limitasse alla lotta economica, il Che fare? opponeva tutta la necessaria ampiezza della politica rivoluzionaria del proletariato. Che per essere tale doveva allargare lo sguardo all’insieme delle masse oppresse, rivolgersi ai contadini oppressi dall’aristocrazia fondiaria, alle minoranze nazionali schiacciate dallo zarismo grande russo, alla gioventù studentesca e alle forze intellettuali private dei più elementari diritti di libertà; e ricondurre l’insieme delle oppressioni e delle contraddizioni che investivano la società russa alla necessità del rovesciamento rivoluzionario dello zarismo e della conquista del potere da parte degli operai e dei contadini. Solo una classe operaia capace di elevarsi al di sopra della propria spontanea coscienza tradunionistica avrebbe potuto ricomporre attorno a sé l’intero blocco delle masse oppresse e guadagnare la testa della Rivoluzione russa. Viceversa, una classe che si fosse limitata all’angusto economicismo avrebbe affidato alla borghesia liberale l’egemonia della rivoluzione e dei suoi sbocchi, a tutto danno non solo del proletariato ma dell’insieme delle masse oppresse. Da qui la funzione decisiva della socialdemocrazia rivoluzionaria, e dell’avanguardia proletaria in essa raccolta, per sviluppare la coscienza del proletariato russo sul terreno della rivoluzione e, con essa, la sua egemonia alternativa.

Peraltro, tutta la politica del bolscevismo russo per quasi vent’anni è stata la testimonianza vivente di questa ispirazione politica antieconomistica ed egemonistica. La stessa formula della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” – al di là della sua algebricità – non era forse la misura della centralità del rapporto tra proletariato urbano e masse contadine? Conquistare al proletariato della città i contadini salariati, sottrarre la maggioranza contadina piccolo-proprietaria e non sfruttatrice all’egemonia della borghesia liberale: questo era per Lenin il compito strategico centrale della politica bolscevica in Russia. L’egemonia proletaria sulle masse rurali e la rottura con la borghesia erano dunque le due facce della medesima politica, entrambe contrapposte al menscevismo.

Questa politica dell’egemonia proletaria sul blocco sociale alternativo non si limitò al contesto russo ma si estese alla politica internazionale del bolscevismo.

Nell’Occidente avanzato dell’Europa capitalista la III Internazionale contrastò ogni deriva o suggestione operaistico-sindacalista. La polemica leninista con l’anarco-sindacalismo internazionale nei primi anni Venti aveva esattamente questo segno. Ma benché poco conosciuta, questa battaglia politica di Lenin e di Trotsky passò anche attraverso le fila della stessa III Internazionale, talora intrecciandosi con la battaglia contro l’estremismo. Il tribunismo olandese e il kapdismo, in particolare (e in una certa misura anche il bordighismo), polemizzarono pubblicamente con la concezione bolscevica della rivoluzione in Occidente rimproverandole una visione eccessivamente estesa del blocco sociale rivoluzionario. “In Russia eravate costretti a un blocco sociale con i contadini data l’arretratezza di quella società. Ma nell’Europa capitalistica la rivoluzione deve essere esclusivamente operaia. Perché tutto il resto della società, inclusa la piccola borghesia impiegatizia, la piccola borghesia commerciale urbana, la piccola borghesia rurale, è organicamente legata al capitale. Rivolgersi a questi strati significa compromettere la rivoluzione”.

Gorter in particolare si era distinto per questa polemica nella sede del Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista. E proprio a Gorter giunse la replica di Trotsky, a nome della maggioranza leninista dell’Internazionale. Una replica teorica e politica. La replica teorica contestava a Gorter l’operaismo gretto dell’antico Lassalle, il quale aveva affermato che al di fuori del proletariato il resto della società rappresentava un’unica massa reazionaria; già Marx aveva polemizzato contro questa concezione, nella sua Critica del programma di Gotha. E questa critica restava attuale, non solo relativamente ai paesi coloniali e semicoloniali, ma anche nel contesto del capitalismo dell’Europa occidentale. Tanto più in una società capitalistica strutturata e complessa segnata da un dominio plurisecolare della borghesia, il proletariato non potrà realizzare la rivoluzione se non saprà intervenire in tutte le contraddizioni: sottraendo all’influenza della borghesia capitalistica settori inferiori di classe media, neutralizzandone altri, intercettando fasce di piccola borghesia impoverita dalla crisi del capitale, sia nella città sia nelle campagne.

Naturalmente questa posizione non aveva nulla a che spartire con quella che sarà togliattianemente la cosiddetta “politica delle alleanze” condotta dallo stalinismo. Che cercava, come nell’esperienza del PCI, di legarsi a interessi medioborghesi privilegiati (vedi il “ceto medio” emiliano) per subordinare ad essi il proletariato e negoziare meglio la collaborazione di classe con la grande borghesia. All’opposto: la politica dell’egemonia proletaria sugli stati inferiori della classe media per Lenin e per Trotsky era parte integrante della politica di rottura con la borghesia e di costruzione delle condizioni di successo della rivoluzione. Era un caso che proprio Lenin nel 1915, nell’indicare i requisiti di una situazione rivoluzionaria, citasse tra questi lo spostamento a sinistra delle classi medie?

In realtà Lenin dimostrava una volta di più una visione complessa della dinamica rivoluzionaria e della linea di frattura di una rivoluzione proletaria: che non era riducibile semplicemente alla linea divisoria, economicamente intesa, tra capitale e lavoro, ma al processo vivo della lotta di classe, alla costruzione e scomposizione dei blocchi sociali, all’intreccio tra fattori sociali e avvenimenti politici, alla lotta multiforme tra le classi fondamentali sul terreno dell’egemonia sociale, politica, culturale.

Peraltro, proprio la storia europea del Novecento – col fenomeno del fascismo e del nazismo – avrebbe dimostrato, seppur a negativo, il peso della piccola borghesia negli equilibri della lotta di classe nell’Occidente avanzato, smentendo ogni economicismo semplificatorio e confermando la necessità di una politica rivoluzionaria capace della più ampia egemonia di classe.
 

SOCIALISMO E LIBERAZIONE NAZIONALE. LA COMPLESSITÀ DELLA RIVOLUZIONE SOCIALISTA

Infine, il concetto di egemonia del proletariato sull’insieme delle masse oppresse trovò in Lenin un’espressione di carattere mondiale. Uno degli sviluppi più profondi del marxismo rivoluzionario da parte di Lenin fu rappresentato dalla comprensione dell’enorme importanza dei grandi sommovimenti anticoloniali dei popoli oppressi, a partire dall’Asia, e della sollevazione di tutte le nazionalità oppresse dall’imperialismo ai fini dell’affermazione della rivoluzione socialista internazionale.

Già in Russia la politica di pieno sostegno del bolscevismo al diritto di autodeterminazione delle nazionalità oppresse dall’impero russo aveva concorso alla vittoria dell’Ottobre. E proprio questo sarà uno dei primi punti d’attacco di Stalin alla tradizione politica del bolscevismo, come rivela il durissimo contrasto tra Stalin da un lato e Lenin (e Trotsky) dall’altro attorno alla questione georgiana.

Ma è sul terreno mondiale che la questione assumeva un carattere rilevantissimo, in particolare dopo l’Ottobre. La vittoria della rivoluzione, congiunta agli effetti della prima guerra imperialista, e alla spartizione coloniale che ne seguì, fu un potente impulso allo sviluppo del movimento anticoloniale su scala internazionale: in Asia, a partire dall’India e dalla Cina, in Medioriente e nell’intera nazione araba, nel cuore stesso dell’Europa, a partire dall’Irlanda e dai Balcani.

Il marxismo rivoluzionario – secondo Lenin – doveva assumere quel vasto moto come un riferimento essenziale. I comunisti rivoluzionari dei paesi delle nazionalità oppresse dovevano prender parte attiva al sommovimento anticoloniale evitando ogni ripiegamento propagandistico e attendista, e battendosi apertamente al suo interno per uno sbocco coerente antimperialista e socialista, in contrasto aperto col nazionalismo borghese e incalzando le contraddizioni delle forze nazionaliste piccolo borghesi più radicali. Ogni rinuncia alla battaglia per l’egemonia proletaria nel movimento anticoloniale, magari in nome dell’arretratezza economica sociale di quei paesi, avrebbe significato riproporre, nella sostanza, l’impostazione del menscevismo russo. Proprio la Rivoluzione d’ottobre aveva dimostrato, contro ogni lettura positivistica del marxismo, che un paese arretrato può essere più maturo per la rivoluzione proletaria di un paese avanzato. E che la rivoluzione socialista in quel paese arretrato poteva a sua volta sospingere l’intero processo rivoluzionario mondiale.

Analogamente, i partiti comunisti dell’Occidente capitalistico e dei paesi imperialisti erano chiamati dalla III Internazionale ad un pieno e incondizionato sostegno ai sommovimenti anticoloniali delle nazioni oppresse. E quindi a combattere non solo ogni socialsciovinismo a sostegno del “proprio” imperialismo contro la nazione che esso opprimeva, ma anche qualsiasi neutralità pacifista tra nazioni dominanti e nazioni dominate. Costruire nel proletariato delle metropoli d’Occidente la coscienza della convergenza di fondo con le ragioni dei popoli oppressi dal proprio imperialismo, sostenere la loro rivolta contro il proprio imperialismo, era, per Lenin, un compito prioritario dei partiti comunisti d’Europa e d’America. Anche per favorire nei movimenti coloniali una cosciente identificazione nel comunismo e quindi la battaglia di egemonia dei comunisti delle nazioni oppresse.

In questo quadro, e in questo spirito, la III Internazionale assunse la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione di tutte le nazioni oppresse (ivi incluso il diritto alla separazione). Un diritto già rivendicato dal movimento per la III Internazionale, e in primo luogo dal bolscevismo russo, nel pieno corso della guerra imperialista.

Questa impostazione incontrò obiezioni e resistenze lungo il processo della sua maturazione. Non solo da parte del riformismo e del centrismo, com’è naturale, ma anche nel campo del marxismo rivoluzionario. “Se i comunisti sono per il superamento delle nazioni, come possono sostenere i diritti nazionali, sia pure di nazioni oppresse? Se i comunisti sono i rappresentanti coerenti della classe operaia ‘che non ha patria’, come possono combinare l’indipendenza di classe col sostegno a movimenti nazionali non proletari, per di più guidati da forze nazionaliste?” E ancora: “Il concetto di autodeterminazione nazionale non è forse contraddetto dalla natura stessa dell’imperialismo che nega ogni possibile indipendenza reale delle nazioni soggiogate? L’unica risposta vera alle istanze nazionali dei popoli oppressi è la rivoluzione proletaria e non la rivendicazione di ‘diritti nazionali’ esclusivamente formali”. Queste e altre obiezioni – schematicamente riassunte – venivano poste alternativamente o da tendenze diverse dell’estremismo o da tendenze che inclinavano verso posizioni centriste. In un caso, autorevolissimo, dalla marxista rivoluzionaria Rosa Luxemburg, seppur negli anni relativamente lontani del dibattito sulla questione polacca.

Lenin (come la maggioranza dell’Internazionale) replicò energicamente a questi argomenti critici con un vigore proporzionale all’importanza cruciale che tale questione a suo avviso rivestiva per i destini stessi della rivoluzione socialista internazionale. Il testo di Lenin Contro l’economicismo imperialista è, tra gli altri, un efficace compendio di tale replica.

È vero, diceva Lenin, i comunisti sono i veri custodi dell’indipendenza proletaria ma, proprio in ragione della propria prospettiva indipendente, devono far proprie tutte le ragioni di emancipazione delle masse oppresse, ivi inclusa l’emancipazione nazionale dal giogo coloniale. Non farlo sarebbe – questo sì – la rinuncia alla propria prospettiva, a unico vantaggio dell’imperialismo e delle stesse borghesie nazionali dei popoli oppressi, votate al compromesso subalterno con l’imperialismo.

È vero, diceva Lenin, i comunisti rivendicano il superamento storico delle frontiere nazionali dentro la prospettiva della repubblica proletaria mondiale. Ma questa prospettiva di libera federazione dei popoli del mondo implica la rottura di ogni sudditanza coatta delle nazioni oppresse alla dominazione imperialista. A sua volta, nessun popolo può essere libero se opprime altri popoli.

E ancora, in risposta alla Luxemburg: è vero, l’autodeterminazione nazionale piena e stabile delle nazioni oppresse è incompatibile con la natura economica dell’imperialismo. Ma proprio per questo, come altre rivendicazioni democratiche, il principio di autodeterminazione nazionale va connesso alla prospettiva proletaria socialista: e può contribuire ad avvicinare a tale prospettiva, proprio sulla base dell’esperienza concreta della sua incompatibilità con il capitalismo mondiale, masse grandi dell’umanità. Viceversa, il rifiuto di quella rivendicazione significherebbe voltare le spalle alle aspirazioni di emancipazione e di libertà di quelle masse oppresse e per di più proprio nel momento del loro levarsi di fatto contro il giogo coloniale.

Ma, al di là di ogni replica specifica, Lenin trae spunto dal confronto sulla questione nazionale per riproporre una lezione di fondo sui caratteri stessi della rivoluzione proletaria. La rivoluzione proletaria internazionale secondo Lenin (e Trotsky) non poteva che riflettere il carattere ineguale e combinato del capitalismo mondiale. Chi pensa alla rivoluzione socialista come a una linea retta e uniforme, semplicemente e unicamente proletaria, scambia la realtà con la propria immaginazione. Tanto più nel quadro internazionale.

Ecco cosa scriveva Lenin a commento dell’insurrezione irlandese del 1916 e contro la sottovalutazione della sua importanza:

«Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa, senza le esplosioni rivoluzionarie di una parte della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate contro il giogo dei grandi proprietari fondiari, della Chiesa, contro il giogo monarchico, nazionale, etc., significa rinnegare la rivoluzione sociale. Ecco: da un lato si schiera un esercito e dice: ‘Siamo per il socialismo’, da un altro lato si schiera un altro esercito e dice: ‘Siamo per l’imperialismo’, e questa sarà la rivoluzione sociale! Soltanto da un punto di vista così pedantesco e ridicolo sarebbe possibile affermare che l’insurrezione irlandese è un ‘putsch’»

«Colui che attende una rivoluzione sociale ‘pura’, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione.»

«La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere.» (Lenin, Risultati della discussine sull’autodecisione, p. 353).


CONCLUSIONE

Riscoprire la verità del bolscevismo, liberandolo dalle sue caricature, non significa solo onorare la sua storia ma investirlo nel futuro del movimento operaio e dalla sua giovane generazione.

Anche oggi, come un secolo fa, si dischiude una svolta d’epoca profonda, segnata dalla crisi del capitalismo internazionale, dalla rottura dei vecchi equilibri sociali e politici, dalla ripresa delle contese imperialistiche e delle corse coloniali, dall’acutizzarsi della lotta di classe e dello scontro tra imperialismo e popoli oppressi.

Anche oggi, come un secolo fa, le vecchie direzioni del movimento operaio consumano la crisi del proprio riformismo, si associano sempre più strettamente ai governi liberali controriformatori e coloniali, moltiplicano le contraddizioni con la propria base sociale.

Anche oggi, come un secolo fa, è necessaria una battaglia internazionale per una nuova direzione del movimento operaio e per il rilancio della prospettiva rivoluzionaria e socialista, quale unica vera alternativa alla barbarie del capitalismo.

E così, come un secolo fa, la riscoperta da parte di Lenin del “vero” Marx, riscattato dalle deformazioni riformiste, fu decisivo per il rilancio della prospettiva rivoluzionaria, così oggi il recupero del “vero” Lenin, liberato dalle deformazioni staliniane, socialdemocratiche e centriste, è decisivo per la rifondazione di un partito rivoluzionario. Perché, tanto più oggi, solo il recupero dell’intransigenza dei princìpi e, insieme, della complessità della rivoluzione, può armare la lotta per la conquista del potere.

Marco Ferrando

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