Interventi

Recensione a 'Stalin e il PCI. Tra mito e realtà'

12 Gennaio 2024

Da Le Monde Diplomatique - il Manifesto

recensione


Riprendiamo la recensione al libro di Marco Ferrando pubblicata sul numero di dicembre 2023 dell'edizione italiana di Le Monde Diplomatique. Ringraziamo il recensore, Luca Alteri, e il Manifesto, per averci consentito la ripubblicazione della recensione.


“…Pedoni e cavalieri si affrontano di continuo. Ripiegare in un attimo, attaccare in un attimo: piede veloce, cervello pronto avanzano e vincono. Larghezza di vedute e cura del dettaglio!” Quello che Ho Chi Minh scriveva nel 1942 a proposito della nobile e rivoluzionaria attività degli scacchi ben si attiene alla sfida tra Marco Ferrando e il Partito Comunista Italiano, con il compagno Giuseppe Stalin come arbitro, inevitabilmente di parte. Il volume pubblicato da Red Star Press ha una complessità che non può essere sciolta nel breve spazio qui a disposizione, a meno di non voler banalizzare l’impegno dell’Autore, da decenni impegnato nelle lotte politiche e sociali italiane, oltre che nel campo dell’internazionalismo e dell’antimperialismo. Che si tratti di un lavoro ambizioso viene subito esplicitato: «Questo libro non ha la pretesa di parlare a tutti, di soddisfare tutti i palati. Ha l’ambizione di parlare ai giovani militanti comunisti, ovunque collocati, che cercano con onestà e coraggio nella storia del movimento operaio la radice della tradizione leninista, senza farsi dominare dalla pigrizia di vecchi luoghi comuni» (p. 16). Non è, in realtà, uno studio sulla più grande formazione politica del movimento operaio italiano (se lo fosse, andrebbe semplicemente ad aggiungere le sue cospicue pagine a una torrenziale pubblicistica sul PCI, osservato da tutte le prospettive e condito in tutte le salse): vuole porsi, invece, come la storia di quel continuo anelito all’unità che i comunisti italiani hanno mostrato da quando sono nati mediante, paradossalmente, una scissione, quasi si trattasse di un infinito contrappasso, peraltro riverberato nelle divisioni, nelle fuoriuscite, nelle espulsioni dentro un’esistenza ultracentenaria. Ogni volta una perdita e una sottrazione, ogni volta un’aggiunta e un arricchimento, ma anche – drammaticamente – un arretramento nella capacità di rappresentare i lavoratori e le lavoratrici. La responsabilità di questa progressiva involuzione – attivata, per quanto sottotraccia, già da quando il PCI costituiva ancora il partito della classe operaia – viene attribuita da Ferrando a Stalin e, soprattutto, allo stalinismo, vale a dire a una deviazione dal leninismo evidentemente sopravvissuta al suo eponimo.

L’argomento, notoriamente, è divisivo, quanto pure inaggirabile, nel suo aver impegnato – attraverso i decenni – alcune tra le migliori menti dell’area comunista. Nel presente saggio, l’ipotesi dell’Autore è che la rottura degli ideali e del programma del bolscevismo e della Terza Internazionale risalga «alla fine degli anni Venti e si compia nel successivo decennio» (p. 347): l’espulsione di metà dell’Ufficio Politico del PCd’I avrebbe introdotto una politica di «collaborazione di classe e di coesistenza strategica con l’imperialismo». Di più: avrebbe impostato una sorta di “mutazione genetica” all’interno del Movimento comunista internazionale, divenuto poroso nei confronti delle democrazie borghesi e delle lusinghe socialdemocratiche, comprensive delle ancelle del governismo, del parlamentarismo, dell’elettoralismo. I fatti successivi, almeno nello specifico italiano, parlano la lingua della svolta di Salerno, dell’amnistia concessa ai fascisti, del “compromesso storico”, infine della definitiva estinzione del PCI, legata al crollo dell’URSS: un abbraccio mortale ma inevitabile, secondo Ferrando, dal momento che «l’ascesa di Togliatti nel PCI fu inseparabile dal consolidamento del regime staliniano nell’URSS» (p. 348) e l’intero gruppo dirigente comunista ricevette dalla relazione con il Cremlino un’energia politica decisiva per strutturarsi come partito di massa, ma evidentemente non sufficiente a evitare che tale dimensione venisse utilizzata come gruccia della democrazia liberale. Stalin decise che il PCI dovesse entrare nei governi di unità nazionale (1944-1947) e sempre Stalin ne determinò indirettamente la fuoriuscita, nel momento in cui l’URSS ruppe gli accordi con gli Stati imperialisti. D’altronde, «il PCI rimaneva prevalentemente il partito di Mosca» (p. 348). È un’intera cosmogonia, quella descritta da Ferrando, funzionale a perfezionare il controllo sulla classe operaia in nome della controrivoluzione staliniana, a colpi di sclerotizzazione burocratica: Togliatti e Stalin sarebbero stati legati a doppio filo – anche nella definizione delle comuni sorti politiche (ed era gravoso il compito del Migliore, nel bilanciare le richieste del leader bolscevico con la necessità di difendere la sua Segreteria in Italia) – ma pure le figure “eretiche” succedutesi nei decenni, da Secchia a Ingrao, avrebbero svolto un ruolo, magari involontario, di “ancoraggio” del PCI nella memoria dei comunisti italiani, facendolo diventare “un Paese nel Paese” e saturando – di contro – le aspettative per una diversa organizzazione della sinistra politica e sindacale. Eppure, non i tradimenti, le collusioni, le alleanze capestro, gli ostracismi: Marco Ferrando pare sottolineare nell’assenza di analisi materialistica e marxista la responsabilità più grave dello stalinismo-togliattismo italiano. È nel metodo e non nei contenuti, la ferita più profonda, pare dire. Nondimeno, pur nella dovizia di documenti, lo Stalin analizzato dall’Autore fatica a emanciparsi dallo stalinismo e diventa quasi un simulacro, estraniandosi dalla sua storicità: le basi materiali dell’esperienza sovietica si perdono nei lampi di un contro-mito, la cui portata non differisce molto da quella dei miti che l’Autore prova a detronizzare. Lo fa, gli va riconosciuto, senza indugiare nell’autoreferenzialità, nel soggettivismo, nello schematismo, nel becero opportunismo che spesso hanno albergato nello spazio tra una delusione elettorale e la preparazione della successiva tornata. Non qui, dove c’è, invece, l’insoddisfazione di chi è rimasto per sempre giovane, come da citazione in epigrafe, rifiutando l’esperienza e il suo cinismo.

Luca Alteri

CONDIVIDI

FONTE