Internazionale

Né Prigozhin né Putin

Alcune prime considerazioni sulla crisi russa

2 Luglio 2023
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La crisi esplosa sabato scorso in Russia con l'ammutinamento della milizia Wagner e la sua “marcia su Mosca” è il primo contraccolpo interno della guerra d'invasione dell'Ucraina. Ma è anche la cartina di tornasole, al di là del suo esito, delle linee di faglia che attraversano il regime putiniano e il suo apparato militare.
La ritirata di Prigozhin, e soprattutto i termini della cosiddetta mediazione di Lukashenko, sembrano configurare una sconfitta radicale degli ammutinati, una sorta di resa. Ma anche Putin e la sua immagine pubblica escono lesionate dalla sommossa. Per la prima volta il profilo dell'invincibile comandante in capo che tutto controlla e dispone è stato messo in discussione. Riuscirà ora Putin a trasformare la sconfitta della sommossa in una leva di rilancio del proprio prestigio appannato?

Sotto la direzione di Prigozhin e con la protezione di Putin, la milizia Wagner era diventata un centro di potere di grandi proporzioni all'interno dello Stato russo. Un centro di potere militare, mediatico, affaristico. La sua crescita ha accompagnato lo sviluppo dell'imperialismo russo e della sua politica di potenza. Prima in Siria, poi in Libia, poi ancora in buona parte parte dell'Africa subsahariana. Ovunque la milizia offre protezione militare per conto di Mosca in cambio di concessioni minerarie, in particolare in oro e diamanti (60 milioni di dollari di profitti annui). Il lavoro di rimpiazzo dell'imperialismo francese da parte dell'imperialismo russo nel cuore dell'Africa è stato appaltato da Putin alla Wagner.

Ma è soprattutto l'invasione dell'Ucraina ad aver spinto in primo piano il ruolo militare della Wagner. Lautamente sostenuta con 86 miliardi dallo stato russo, secondo la cifra ora rivelata dallo stesso Putin, la Wagner ha potuto mettere a frutto in Ucraina l'esperienza militare accumulata in Siria e il proprio patrimonio militare di mezzi pesanti e uomini. Il regime putiniano le ha consentito condizioni privilegiate di arruolamento, a partire dal reclutamento in massa di detenuti in cambio di grazia.
Una armata criminale, sotto ogni punto di vista, diretta da avventurieri dichiaratamente nazisti. L'assassinio a martellate, con tanto di video, di militari sospetti di arrendevolezza, dà la cifra delle regole interne alla compagnia. La battaglia di Bakhmut è stata il fiore all'occhiello della Wagner, il simbolo rivendicato della propria capacità militare e del proprio potere. Ventimila soldati massacrati sono stati il prezzo di questo successo, nel nome della patria russa.

Ma la proprio la crescita della Wagner è diventata col tempo un problema negli equilibri interni allo Stato russo.
Prigozhin a partire da gennaio 23 ha avviato una pubblica linea di contrasto con il ministero della Difesa Shoigu e il nuovo Capo di stato maggiore Gerasimov, accusati di incapacità, codardia, corruzione, insensibilità verso le condizioni della truppa al fronte. Una campagna spietata condotta non solo per linee interne, ma anche attraverso i canali Telegram e il gruppo mediatico Patriot, entrambi targati Wagner. La campagna non ha mai chiamato in causa il Presidente Putin, anzi ogni volta omaggiato come “il nostro Presidente”. Semplicemente ha cercato di spingere Putin a rompere con Shoigu e Geramisov rimpiazzandoli con altri uomini legati alla Wagner, tra cui innanzitutto il generale Surovikin, già noto come “macellaio di Aleppo”. Surovikin era stato non a caso il Capo di stato maggiore sino a gennaio, proprio per essere rimpiazzato da Gerasimov. Prigozhin voleva semplicemente spingere Putin a ripristinare la precedente linea di comando.
Per sei mesi la Wagner ha bombardato quotidianamente con la propria propaganda il quartier generale dell'esercito russo. Per sei mesi Putin ha taciuto sulla controversia cercando di tenersi al di sopra delle contraddizioni interne del proprio apparato militare per provare a dominarle. È il ruolo classico di un Bonaparte. Ma l'operazione di equilibrismo si è rivelata, oltre una certa soglia, impossibile.

A partire da maggio, il ministero della Difesa di Shoigu, col benestare di Putin, avviava un'operazione di razionalizzazione dell'apparato militare e di unificazione del comando. L'operazione investiva il ruolo stesso delle milizie private, in Russia assai numerose, rispondenti a diversi interessi oligarchici, come nel caso tra gli altri della milizia Gazprom. Il ministero della Difesa ha chiesto a ogni milizia privata di contrattualizzare il proprio rapporto con lo Stato, come condizione necessaria per poter operare sul fronte di guerra. Nei fatti, una proposta di integrazione e subordinazione delle milizie all'interno delle forze armate della Federazione Russa sotto il comando della Difesa.
La milizia Wagner si è sentita minacciata e ha respinto la proposta. La sollevazione di Prighozin è stato l'estremo tentativo di farla saltare, l'ultimo tentativo temerario di premere su Putin per imporre un cambio di scenario. Non un golpe per rovesciare Putin, ma un'iniziativa mirata a spezzare la sua alleanza con Shoigu, la massimizzazione estrema della propria politica di pressione sul Presidente russo in funzione della salvaguardia del proprio ruolo. Ma l'operazione è fallita. Le prime ore dell'ammutinamento sembravano incoraggianti: la conquista pacifica di Rostov, una rapida avanzata verso Mosca senza significative resistenze. In realtà, in quelle stesse ore si sfaldavano tutte le premesse di un possibile successo.

In primo luogo, messo di fronte all'ammutinamento militare, Putin ha dovuto alla fine posizionarsi con una dichiarazione pubblica di denuncia degli ammutinati come “traditori che pugnalavano alla spalle il popolo russo” nel corso della guerra. “Proprio come aveva fatto Lenin nel '17”, ha affermato Putin con un accostamento tra Lenin e Prighozin ovviamente grottesco (ma che conferma indirettamente una volta di più l'ossessione anticomunista di Putin). Da qui l'annuncio pubblico della punizione esemplare dei responsabili, e l'appello all'unità del popolo russo.

In secondo luogo, il generale Surovikin, prediletto da Prigozhin e su cui Prigozhin puntava, si appellava pubblicamente alla Wagner perché non spargesse sangue russo e scegliesse di ritirarsi. Non solo. Per dare la prova del proprio posizionamento contro la ribellione della milizia Wagner, Surovikin ha mosso aerei ed elicotteri, sotto il proprio comando, per contrastare l'avanzata, L'unica azione militare di contrasto dell'avanzata della Wagner (al prezzo di 16 piloti morti) è stata dispiegata paradossalmente dall'unico generale “amico” di Prighozin. Anche per questo la defezione di Surovikin ha dato all'avventura della Wagner il colpo di grazia,

La dichiarazione di ritirata dopo l'avvicinamento a 200 chilometri da Mosca è stata a quel punto obbligata. Lukashenko, per conto di Putin, si è intestata la mediazione risolutiva. Ma di resa si tratta. Prigozin salva al momento (forse) la pelle attraverso l'esilio in Bielorussia. Per il resto, la Wagner appare smembrata, privata del vecchio sostegno economico statale, e in ogni caso esclusa dalle operazioni militari in Ucraina. Suravikin è scomparso, probabilmente sotto interrogatorio per i sui rapporti ambigui con la Wagner. Gli odiati Shoigu e Gerasimov restano al loro posto, mentre i servizi segreti (FSB) lanciano la caccia ai reali o presunti complici di Wagner nel sottobosco dell'apparato statale. Difficile immaginare un esito più catastrofico per l'avventura di Prigozhin.

Ma se Prigozhin piange, Putin non ride. Il Presidente resta in sella, cerca bagni di folla per dimostrare la propria popolarità, proverà a capitalizzare la disfatta della sommossa col rilancio propagandistico del proprio regime. E tuttavia la sua immagine esce lesionata dalla vicenda. Troppe cose non tornano.
Alle ore 9 del sabato mattina il Presidente aveva lanciato la pubblica reprimenda dell'ammutinamento, ma per l'intera giornata l'esercito non si è mosso. Alcune unità militari hanno persino dichiarato simpatia per gli ammutinati (la duecentocinquesima brigata cosacca dei fucilieri motorizzati, la ventiduesima brigata Spetznaz, e diverse unità del cosiddetto “Storm Z”). L'unico a contrastare militarmente l'avanzata della Wagner è stato il generale estraneo alla catena centrale di comando, Surovikin, unicamente preoccupato di non compromettere il proprio futuro. In compenso a rispondere alla chiamata di Putin, sia pure in ritardo, è stato l'islamofascista Kadyrov e la sua milizia, pronta a farsi guardia del corpo del Presidente (in cambio del controllo terroristico sulla Cecenia).
Per l'intera giornata la resistenza a Prigozhin si è dunque risolta in alcune strade abbattute per rallentare la sua avanzata, i sacchi di sabbia e le mitragliatrici a Mosca quale estrema difesa della capitale: l'immagine di un potere arroccato e sotto assedio messo di fronte a tutta la sua fragilità. Non esattamente la coreografia più indicata per un Presidente che fa dell'ostentazione della propria forza la leva principale del proprio prestigio.

Il regime putiniano paga la privatizzazione dell'apparato statale, l'appalto delle strutture militari, la debolezza di una forza diretta su cui far leva. L'unica forza militare presidenziale è la Guardia nazionale russa, una sorta di arma dei carabinieri. Ma dispone di 10000 uomini, e non possiede ad oggi armi pesanti. Il fatto che ora Putin annunci l'armamento pesante della Guardia nazionale, e dunque il suo potenziamento, rivela la consapevolezza delle difficoltà del fronte interno, esposto in prospettiva a nuove possibili prove.

La popolazione russa non si è mossa, né per Prigozhin né per Putin. Non per Prigozhin, se si esclude l'immagine di Rostov in cui però la festa attorno alla Wagner era anche soddisfazione per la sua resa pacifica e la sua dipartita. Ma nemmeno per Putin, nonostante l'appello a reti unificate del Presidente. Il consenso maggioritario attorno al Presidente resta, ma è un consenso passivo, oggi forse più dubbioso di ieri.
La guerra d'invasione dell'Ucraina era stata presentata da Putin come rilancio della gloria russa, contro l'Ucraina nazista e l'Occidente collettivo, contro il Nemico. Ma ora improvvisamente è il fronte interno che si incrina. Sono i cosiddetti “eroi di Bakhmut” ad aver denunciato la corruzione e l'incapacità dei comandi.

E rimbalza l'ammissione clamorosa di Prigozhin, nell'ora della propria emarginazione, secondo cui sono tutte bugie quelle raccontate sulla guerra: sui morti in battaglia, sulle vittorie riportate e persino sulle ragioni della guerra: fatta non per difendere la Russia dall'Ucraina ma per appendere nuove medaglie al petto di Shoigu. In forma semplificata, una verità indubbia. Ora confessata. Da un macellaio di guerra, ma confessata. E tanto più significativa proprio perché confessata da un macellaio di guerra, il più insospettabile dei nazionalisti russi.

Naturalmente il regime putiniano spiega il tutto col fatto che l'Ucraina e l'Occidente sarebbero i mandanti... dell'ammutinamento di Prigozhin. E alcuni sciocchi in Italia crederanno all'ultima favola putiniana, come già a quelle precedenti. Ma in Russia il dubbio sulla credibilità della propaganda di guerra ha forse aperto un nuovo piccolo varco in un settore più ampio di opinione pubblica. Putin farà di tutto per chiudere quel varco nel segno del rilancio dello sciovinismo grande russo. All'avanguardia del movimento operaio russo il compito di dilatarlo: contro Putin, il suo imperialismo, la sua guerra.

Partito Comunista dei Lavoratori

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