Teoria

Del rossobrunismo di Diego Fusaro

21 Luglio 2017
fusar


Uno spettro si aggira per l’Italia. È lo spettro del fuffarismo.

Ormai è quasi un decennio che un improbabile filosofo rispondente al nome di Diego Fusaro, ricercatore oggi trentaquattrenne e prolifico compilatore di pagine per le più svariate case editrici, autodichiarato allievo di Marx, oltraggia il nome del maestro di Treviri e ne va inquinando il pensiero per piazze, giornali e televisioni.
I social lo hanno reso celebre ma, sciaguratamente per lui, il mezzo che meglio gli valse a pubblicizzare il suo inutile (come lo recensiva Stefano Garroni) “Bentornato Marx”, è adesso quello che più lo mette alla berlina per opera di chi dovrebbe, in lui, vedere un compagno, data l’etichetta di marxista che è il solo, a quanto pare, ad attribuirsi.

Il fatto è che Fusaro può dire di essere marxista come chi scrive può dire di essere il Trismegisto, ma quell’ateo antitradizionalista e ordouniversalista di Galileo, col suo obbligo di verifica dei postulati a stabilirne o meno la validità, sbugiarda con cadenza quotidiana l’efebico Cacasenno. Specialmente nei tempi recenti, alla luce degli aberranti paralogismi (ci atteniamo al linguaggio filosofico ma è consentito volgarizzare tutti gli eufemismi, sin quello di “diegofusaro”) che il professore per l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, cattolica e privata, inanella da qualche lustro.
Il giovane “intellettuale dissidente” (come si chiama il sito, fucina di propaganda destrorsa, che più sovente ne ospita gli interventi) prende le mosse da un altrettanto anomalo marxista che i più callidi ricorderanno come Costanzo Preve. L’identikit politico-filosofico di Preve può essere riassunto celermente, e lo facciamo già in forma critica.


FENOMENOLOGIA DI PREVE: DALLA REALPOLITIK AL SUPERAMENTO DELLA DICOTOMIA DESTRA-SINISTRA

È difficile trovare sedicenti intellettuali marxisti più inesatti, contraddittori e ignoranti verso i temi pretenziosamente affrontati di Costanzo Preve.
Inveterato togliattiano e strenuo fautore del Socialismo Reale, quello del re (da lui naturalizzato “comunismo storico novecentesco”, come se da un certo punto i comunisti potessero fare un comunismo non storico; logica soluzione, archiviare il comunismo vìstane l’inevitabilità del fallimento storico), illuminato sulla via di Damasco dalla geopolitica (il vecchio nazionalismo sub alia specie), antitrotskista della prima e dell’ultima ora (senza conoscere Trotskij se non attraverso la demonizzazione di marca staliniana dei suoi “ultimi errori”; va da sé, quelli che ne rendono realpolitikamente comprensibile l’assassinio, bontà sua!), coacervo sofistico di vicoli ciechi, deviazioni e cunette a ricoprire sempre non-morti zombie di fascismo, Preve fu il più fulgido antesignano di quel fenomeno che fu già il socialsciovinismo, ribattezzato rossobrunismo, che malgrado l’apparente dadaismo del nome, è una faccenda seria.
Ma a Cesare quel che è di Cesare: Preve ebbe un merito ancora più grande della fondazione di un’ideologia perversa, per quanto (cit., “io metto l'innovazione teorica sopra tutto il resto”, anche sopra la verità evidentemente) gliel’avrebbe preferita.
Tale merito stava nella profonda onestà coi presupposti di una nefanda dottrina che - nonostante le scomuniche che si attirò - non era sua propria, ma di tutto il comunismo controrivoluzionario. In ciò, il mestiere di filosofo lo faceva bene. E se il tempo è galantuomo, se la storia fa chiarezza nel suo corso (risaccando distillati alla Fusaro, per esempio) è anche merito di un audace oplita come Preve che, non avendo ministeri o elettorati da conservare, poté, in seno alla cloaca massima dello stalinismo italiano, lanciarsi verso le logiche conseguenze del revisionismo di base di tutta una tendenza politica. A prescindere che egli considerasse quelle conseguenze buone e naturali.

Caratteristica fondamentale del “marxismo eretico” di Preve fu la rimozione della classe proletaria nella guerra al capitalismo. Rimozione che scavalcava a destra persino le moltitudini interclassiste del negrismo, da lui aspramente criticato, in quanto andrà a culminare nel più patente nazionalismo. Nella loro sintesi, le posizioni e le analisi di Preve ci dicono che, se pure esistono conflitti sociali in seno alle nazioni, sono milleuna volta meno urgenti rispetto al conflitto tra le nazioni. Alcune delle quali sono più capital-imperialistiche, altre meno. Cosa rende alcune nazioni meno e altre più capitalistiche se non la lotta di classe, vinta o persa, a turno, da uno dei soggetti sociali in campo, è un mistero della fede geopolitica. Così per Preve, un antimperialista intelligente e ripulito dalle incrostazioni ideologiche che servono solo a sciupare tempo in derbies identitari, non doveva perdersi in beghe teoriche sclerotizzanti e anacronistiche. La soluzione, banalissima anche se per il suo ideatore fu poesia d’avanguardia, era scegliere il campo meno capitalistico, e schierarsi con quest’ultimo. Altra variante del socialsciovinismo, il campismo, che mai nulla ebbe a che fare coi comunisti (pre-Stalin, s’intende). Per questo era un errore d’infantilismo e da digiuni in geopolitica, nostra culpa, come ebbe a strigliare i da lui chiamati “trotskisti medi”, porsi contro Gheddafi. Campismo, nazionalismo, opportunismo, sciovinismo, stalinismo, interclassismo e altre mille ingredienti vecchi come il cucco che però Preve, shakerandoli, si convinceva essere il futuro da indicare a tutta l’arretrata, barbosa e storicistica sinistra.
Eppure è da escludere che Preve non conoscesse quel passo che recita “(…) può capitare ad un giovane generoso ma confusionario di credere di "inventare" per la prima volta opinioni più o meno marxiste senza sapere che esse sono già state ampiamente elaborate in precedenza”, essendone, benché non più giovane, l’autore. Fu esattamente ciò che egli fece.

Lo stalinismo che utilitaristicamente identificava la classe con la nazione, di modo da liquidare ogni critica al Blocco come da “traditori” e “quinte colonne del nazifascismo”, sta ovviamente alla base del pensiero di Preve che egli non fa che estendere al di là dell’’89; quando però, senza più simulacri di comunismi in stato di putrefazione avanzata in piedi, l’acriticità, l’assenza di analisi di classe, l’aberrazione del fideismo staliniano sopravviveva scopertamente come socialnazionalismo, sempre meno sociale e sempre più nazionalista.

Va da sé che riassestando i parametri nel nuovo scenario in cui non sussistono più i comunismi dell’est, difendere un paese e non una classe di quel paese (anche contro le rispettive caste parassitarie, come fecero gli “utopisti” trotskisti, citando sempre il Vate) non poteva più passare per l’equivoco comunista. Via via allora decadeva, in Preve, il senso stesso del comunismo, il senso della distinzione tra una destra e una sinistra politica. Che anzi agirebbe da freno all’unità nazionale contro i capitalisti, che stanno sempre e solo fuori da casa tua.
Così Preve, che rimase anticapitalista ma non più comunista, che rimosse ogni naturale riferimento di classe ai vari partiti e che, allergico alla memoria storica buona solo a “brandire santini”, giudicò i fatti come accessorio evenemenziale e sempre mutabile di enunciati ai quali rinnovar la fiducia all’infinito (tuffi a inversione rotante nell’Idealismo), insegnerà come il voto a Le Pen nel 2012 fungeva da contenimento dell’imperialismo bellico e da mitigamento del capitalismo impartito all’Europa dagli Usa. Solo a Preve risultava che una irriducibile gollista come Marine Le Pen potesse essere contro la guerra e la proprietà privata dei mezzi di produzione.

Ma Preve era un intellettuale ambizioso, non gli bastava straparlare dell’Europa e della fine del Novecento. A suffragio della scadenza storica delle categorie di destra e sinistra, tratterà del resto del mondo durante e prima tutto il secolo breve.

“Si tratta della questione della assoluta non universalità della polarità fra Destra e Sinistra e del fatto che se è avvenuta una indiscutibile mondializzazione dello spazio economico, non è affatto avvenuta una corrispondente mondializzazione dello spazio politico, per cui la polarità tra Destra e Sinistra connota soltanto alcuni sistemi politici mondiali, mentre altri – probabilmente la maggioranza – non ne tengono di fatto alcun conto”.
E “la polarità fra Destra e Sinistra non connota in generale né i punti alti della globalizzazione capitalistica – gli Usa, in primo luogo -, né i punti bassi di esso – mondo arabo ed islamico, ma neanche paesi asiatici – ma connota soprattutto dei punti medi di esso – come l’Europa continentale”.

Se, com’è pacifico al medesimo professore, avviene quel che egli chiama “mondializzazione dello spazio economico”, cioè l’espansione del modello economico e produttivo dominante di un’epoca, e inevitabile (inevitabile per il corso della lotta di classe internazionale, non per un dogma; dove più tardi arrivò la lotta borghese al feudalesimo, arrivò comunque e in forme già imbastardite dai nuovi modelli economici e produttivi; tanto che proprio su questo imbastardimento si innestò – e riuscì - il salto al socialismo in Russia dopo la rivoluzione di febbraio. Preve conosceva la teoria dello sviluppo combinato di Trotskij? Strano che no, visto che di Trotskii e trotskisti si riempì la bocca tutta la vita), se è pacifico questo, chiediamo al marxista Preve, proprio avvalendoci del metodo marxista, perché è illegittimo considerare arretrata la politica di quei paesi che non giungono a prendere coscienza del loro, di fatto avvenuto e oggettivo, stadio di modernizzazione economica, e delle parti e controparti sociali che essa crea.
E un marxista che vive nell’oggi chiede anche a Preve, quali sarebbero questi fantomatici paesi del mondo arabo e islamico e addirittura asiatici (sorge il sospetto che si burli scientemente dei suoi lettori) che non cononscano l’esistenza di destre e sinistre politiche? Faccia i nomi! Ma i nomi non si avranno mai. Fa il nome degli Usa, però. E tanto sarebbe bastato a domandargli se conosceva i partiti e i movimenti anche di estrema sinistra, negli States, che sopravvivono e lottano fino ad oggi. Al netto della poca visibilità e che siano perseguitati, ciò che si deve a un’imposizione dall’alto, non al fatto che naturalmente e dal basso, i paesi a capitalismo avanzato come gli Usa, o d’imperialismo d’importazione come i paesi arabi e la stessa Russia e Cina d’inizio secolo non generino sinistre di opposizione e rivoluzioni.

“Una sinistra che legittima preventivamente la globalizzazione, ed illegittima le cosiddette “resistenze” etniche e religiose è un punto di vista che legittima l’onnipotenza automatica dell’economia ed illegittima le resistenze nazionali e culturali”.
Così, nel conflitto tra il “superimperialismo” (cit.) nordamericano e “resistenza” Isis o Al Qaeda prima, un anticapitalista dovrebbe prendere le parti dell’integralismo islamico. Che per altro, con spiacevole corto circuito, mira all’egemonia globale come vi mirò Hitler provando a conquistare l’est e l’ovest. Si troverebbe bene oggi tra le fila del Pmli, Preve. O anche lì troverebbe da ridire per non ridire niente.
E nel conflitto tra l’Italia nazifascista e gli Stati Uniti, per chi doveva parteggiare un anticapitalista? Donde risultava, a Preve, che i nazionalismi borghesi che si oppongono all’invasione di una potenza capitalistica semplicemente più forte, non alternativa, che gli muove guerra per accapparramento di risorse e schiavi, non siano capitalistici a propria volta? Risultava a Preve che nella Germania del Terzo Reich vigesse il socialismo? No, per Preve, che sostituiva la nazione alla classe, bisognava prendere le difese del Duce contro Churchill, del negus contro il Duce, e à rebours così, di piccolo oppressore in più piccolo oppressore. La chiave della salvezza. E costoro tutti, forse obbedendo all’imperativo categorico kantiano, dovevano star fermi tra di loro.
E se fossero stati fermi, sarebbero stati lì, sorge spontanea la domanda?

La verità è che per Preve, fondamentalmente borghese e idealista, era inconcepibile una guerra di necessità materiali tra due o più soggetti. Le guerre si consumavano solo sul piano delle idee. E allora, non potendo negare l’esistenza delle guerre, negò l’esistenza dell’affinità ideologica delle nazioni facentisi le guerre. Se due potenze litigano, non è possibile che condividano le stesse idee. Qualcuna dovrà pur essere alternativa.
E anche se era più vero il contrario, e cioè che nell’iperreazionaria Italia del Ventennio la classe operaia era ancora più repressa che in Inghilterra, bastava sorvolare e porre la dialettica in termini blandamente sofistici.

Oggi la conoscenza di Preve giova, se non altro, a sincerarsi di una cosa. Che non fu la Bolognina o il crollo del Muro, con qualche masso che li colpì, a frastornare completamente certi ex-comunisti.
Del marxismo mutilato dallo stalinismo, questo era quello che si aveva e che si ebbe sempre: nazionalismo opportunista. L’’89, per le ragioni suesposte, fu l’evento storico che gettò la luce su Nostra Signora dell’Ipocrisia come la cantava Guccini; la farsa dello stalinismo all’italiana durato quasi un secolo.

La parabola di Preve finisce male. Degenerando prematuramente rispetto a tutta la compagneria, per la spregidicata coerenza con la propria abiezione di cui sopra, si trovò ostracizzato dagli abituali circoli rossi, finendo, da “Punto Rosso” e “Praxis”, a scrivere per la “Settimo Sigillo”, piccola casa notoriamente fascista (vedere i titoli stampati per credere). Restò un umile docente di storia della filosofia nei licei, e si sarebbe spento nell’oblio se, poco prima, qualcuno non fosse andato a ringalluzzirne gli ultimi palpiti di depravazione, onde farli suoi e puntare ben più in alto di dove, per gli sfortunati suoi tempi, poté il maestro.


DIEGO FUSARO E IL FASCISMO POSTMODERNO

A questo punto entra in scena il nostro dottorino eponimo del coro dei laureati.
Che si allinea subito ai binari previani, dai quali deriverà un rossobrunismo molto più accentuato, contestuale all’imbarbarimento dei tempi. Se Preve ha sempre cercato, per un vizio residuale, un’abitudine organica o un tornaconto narcisistico di intellettuale di sinistra, il confronto con le sinistre, questo negli anni 10 del 2000, a un ambizioso carrierista pasciuto nella culla dell’individualismo più sfrontato, non può importare di meno.
Sullo sfondo, la sinistra liberaldemocratica conclude il suo processo di disfacimento. È così che a Fusaro/Anakin l’Impero apre porte che a Preve/Palpatine non avrebbe aperto mai.
Fusaro, che sostiene le stesse tre carabattole di Preve (e pari pari ne eredita gli insigni riferimenti ad Alain de Benoist e Marco Tarchi!) ma le allunga fino a tirarne non i modesti opuscoli del maestro bensì dei veri libri dai quali guadagnare molto di più, giunge a essere pubblicato da case del tenore di Feltrinelli ed Einaudi.
Ed è curioso notare un fatto. Quando il fenomeno Fusaro non era chiaro nei suoi tratti e aveva assai più seguito “rosso” che oggi, era tenuto alla larga dai media. Da quando è accertato chi sia il “marxista dagli occhi azzurri che conquista le donne con le citazioni”, non c’è portavoce di partito comunista, rappresentante sindacale o intellettuale marxista invitato in tv più spesso di lui.

Nemico a parole del “postmodernismo”, Fusaro riesce nellimpresa più estrema che il postmoderno possa prefiggersi: mescolare, a settant’anni dalla Resistenza, i fascisti e i comunisti in un solo calderone e rivendere l’intruglio sottoforma di comune anticapitalismo. “Farebbe ridere se non facesse piangere” (il suo introibo preferito) sentirlo dichiararsi seguace di Antonio Gramsci quanto del suo assassino, Giovanni Gentile. Mentre dichiara urbi et orbi la sua indignazione per il fatto che l’Unità seguiti a fregiarsi del nome del suo fondatore, ché se è vero che Gramsci si gira nella tomba ogni mattina che l’Unità esce dai rulli, è vero anche che Fusaro lo rigira dall’altra parte ogni volta che lo nomina.
Né si può chiedere conto e ragione di queste contraddizioni. Fedele allo sFascio previano, Fusaro risponde di non essere né di destra né di sinistra, solo anticapitalista.
I postmoderni, però, e quelli che dichiarano morte le ideologie e finita la Storia, sono gli altri. Mica i prevefusari!

Ovviamente questa è leggiadrissima musica per le orecchie delle estreme destre impegnate dall’alba della repubblica a ridare una verginità al fascismo recuperando i mai esistiti e tutti solo nella propaganda “aspetti sociali” del fascismo (è in questi ambienti che viene coniato l’oltrismo “né di destra e né di sinistra”). Processo che si inoltrò tanto da indurre Casapound a dedicare serate alla memoria di Guevara. Epurato di ogni istanza marxista, ovviamente, e celebrato solo come liberatore della Patria dagli statunitensi. E se Casapound giunge a profanare Guevara, come può lasciarsi scappare quel succulento bocconcino dell’allievo indipendente di Marx?
“Ciò che è vivo e ciò che è morto in Marx” fu, nel febbraio del 2014, la conferenza che i fascisti del terzo millennio concordarono con Fusaro, da leccarsi i baffi al solo titolo.
E, seppure l’incontro non ebbe luogo a seguito del vespaio di polemiche scatenatosi tra i compagni indignati alla notizia che il nome di Marx avrebbe valicato l’uscio di Casapound, Fusaro si rifà alla grande tre anni dopo, presentando il suo “Pensare altrimenti” al circolo neofascista “La Terra dei Padri” di Modena.

Nel frattempo il Nostro diventa editorialista per Il Fatto Quotidiano ed è gettonatissimo nei salotti televisivi, dalla Rai a Mediaset, dove ad ogni proposizione in cui addita l’uscita dalla crisi capitalistica non mediante la lotta operaia internazionale, ma col ritorno alle sovranità nazionali, tutta la peggior borghesia incarnata da Salvini, Meloni e fin l’imprenditrice Santanché (che, a ‘sto punto, si sente ben in diritto di impalmare Marx anche lei), gli cade ai piedi in deliquio.
Fusaro spopola perché i suoi link-virus a Marx inventano un marxismo reazionario.
E l’“allievo indipendente”, che tra le innumeri necrofilie che consuma quotidianamente, si unisce allo stupro di massa sul cadavere di Pasolini, proprio richiamandosi alle sue teorie sul rapporto cattedratico tra tv e spettatori, ci spiega la ragione della sua costanza sugli schermi. In là dei quali, non permettendo interazione coi marxisti veri, i padroni dei mezzi di comunicazione si appropriano di Marx, lo vestono d’orbace e fez e ne fanno uno di loro.

Fascisti dichiarati e criptofascisti come i Cinque Stelle sono il pubblico preferito di Fusaro.
La marmaglia della destra medio e piccolo-borghese, conservatrice, religiosa, nazionalista (oggi si dice “identitaria”) fa sempre più, della creatura bifronte che è Fusaro, un proprio vessillo, nobilitando filosoficamente e mediaticamente le proprie ragioni. Fusaro, considerato che questa destra non ha mai avuto grandi paladini culturali, può vantare un primato nel riverniciare il fascismo da marxismo rivoluzionario così trasversalmente.
Veniamo ad alcune di queste vernici.


TRE CAVALLI DI BATTAGLIA DI FUSARO

In sincrono con tutta la destra da Forza Nuova a Fratelli d’Italia, Fusaro è uno strenuo avversario delle teorie di genere, da lui temibilmente rinominate “ideologia gender”.
Gli studi e le teorie sul genere sessuale intendono dimostrare una verità ormai pacifica per tutto il campo progressista, contro la quale solo qualche fuffaro trova da fuffeggiare. Ossia che le identità di genere, maschio e femmina, sono frutto di costruzioni ideologiche sociali, mutabili nel tempo - e il tempo muta con le lotte - e non condizioni naturali. Fusaro sostiene che l’ideologia gender e la destrutturazione delle identità di genere così come si danno, celino il malefico piano di Mr. Capitalus di annientamento della famiglia. La quale si dà solo (sempre secondo il poggiolo all’ombra del Papa Re da cui vede il mondo Fusaro) dall’unione tra maschio e femmina. Annientando la famiglia, primo nucleo di società, si disabituerebbe l’individuo a percepirsi parte di una società, instillando in esso un senso di raminga atomizzazione e rendendolo liberamente deterritorializzabile, spremibile e cestinabile sempre da parte di Capitalus.
Chiariamo, per amor di completezza, qual è il giusto punto di vista sulla questione di genere e dove si insinua la strumentale contraffazione di Fusaro.
Per cominciare, una nota di metodo: capitalismo non è capitalesimo. Il capitalismo è un modo di produzione e un rapporto sociale; è un meccanismo di furto. Non ha un pensiero, è un’azione. Il capitalismo si appropria dei prodotti, non ne produce. Neanche idee.
La produzione delle idee (e solo questa) è invece compito delle borghesie, e precisamente dell’intellighentia borghese, che sta al capitalismo come il cervello sta alla mano. Chi teme un capitalismo pensante, teme Mano della famiglia Addams. Questo è molto chiaro in Gramsci, del cui magistero l’allievo molto indipendente si fregia.
Ma non si sentirà mai Fusaro parlare di “borghesie”. Proprio in virtù di quelle piccole e medie borghesie di cui anzitutto è organico e al cui plauso mira, additando a sommo nemico non un rapporto sociale, un modo di produzione (che i borghesi suoi estimatori non si sognano di abolire) ma chi, sulla pista di questo rapporto sociale, arriva prima.
I “grandi” capitalisti, i “grandi” finanzieri. Le plutocrazie di mussoliniana memoria.
Quanto al gender: gli studi e le battaglie sull’identità di genere non sostengono che non esistono uomo e donna, ossia che per natura si nasce con un sesso maschile o con un sesso femminile (e si può nascere con entrambi). Scindono uomo e donna, condizioni naturali, da maschio e femmina, da maschile e femminile, rappresentazioni culturali di funzioni sociali preordinate. La battaglia per la liberazione dai pregiudizi sessuali, figli della religione, è fondamentale per la cessione dell’oppressione dell’uomo sulla donna, che ricalca l’oppressione dell’uomo sull’uomo, ed è quella, semmai, la più antica legittimazione culturale e psicologica della presunta naturalità della dominazione di classe. Per non parlare degli effetti devastanti che questa suddivisione culturale ha nell’universo lgbt, della diversità e dell’emarginazione in cui lo relega. Fusaro si smarchi pure dalla sua pinzoccheria nel dire che “una cosa sono gli orientamenti, altra cosa è il genere”, come il Testimone di Geova che rassicura “Io non condanno l’omosessuale, condanno l’omosessualità”. Sono due facce di una stessa medaglia.

Fusaro è un convinto assertore della sovranità nazionale e monetaria e, in quest’ottica, fa il tifo per il politico di turno (da Salvini alla Raggi) per rompere con l’Unione Europea. La sovranità nazionale della borghesia non è mai stata condizione favorevole per la sovranità operaia più di quanto non lo sia quella internazionale. Per non parlare di quella monetaria, siano i padroni del soldo – perché c’è un rapporto sociale che li rende tali – i borghesi di “casa tua” o i borghesi di casa tua comunque, ma che si danno appuntamento a Bruxelles con borghesi di altri paesi.
Quand’anche si sciogliesse il parlamento europeo, la politica è sovrastruttura. I politici non sono una classe, sono una casta. A Bruxelles non si va che a ratificare il capitalismo. Che si realizza mediante la proprietà privata dei mezzi di produzione e la conseguente estorsione di plusvalore. Non si può pensare di abolire la proiezione sovrastrutturale del potere capitalistico senza, congiuntamente, abolirne la struttura.
Ci sono realtà di sinistra, anche qui lo diciamo per amore di completezza, che suffragano strampalatamente un’eventuale Italexit delle ragioni operaie. Fusaro, che quando parla di Europa vede solo nazioni da liberare e non classi, non fa neanche quello.

Peggio mi sento sull’immigrazione, da Fusaro desinenziata “immigrazionismo”, cosa che Forza Nuova dovrebbe chiedergli il copyright. Per il neodiciannovista, la storia è questa: dato che al Capitale l’immigrazione fa comodo (al capitale fanno comodo anche i suoi libri, se non lo sa) perché sfrutta proletari disperati retribuendoli sotto lo stretto necessario, bisogna bloccare l’immigrazione di modo da recidere questa sorgiva vena di ricchezza al Capitale. La ricetta dei fascisti. Ma con l’anticapitalismo di mezzo.
Il programma comunista per gli immigrati disoccupati o sfruttati dal padronato è guadagnarli alla lotta di classe, farne una forza proletaria e lo specchio dell’iniquità dell’intero sistema. È l’esproprio delle fabbriche e delle terre, la tassazione dei grandi patrimoni da cui ricavare più strutture per l’accoglienza, per un sussidio di disoccupazione, per enti che si occupino di trovare un lavoro ai proletari vittime delle guerre imperialistiche sottoscritte dai medesimi che negano che essi fuggano da quelle, e dalla barbarie che hanno portato. Ma il lavoro non cresce sul terreno del capitalismo. Ecco perché una politica inclusiva è il più forte detonatore per le contraddizioni di questa società, per la spoliazione dalla sua pelle morta incapace a contenerne la nuova vita. Per la rivoluzione. Ed ecco perché i borghesi che lo sanno, avversano l’immigrazione che gli riempie di pericolosi poveri il giardino di casa, e anche i cadetti che, sul principio si dicono favorevoli, si rimangiano tutto (Macron e Renzi), recuperando in curva i programmi xenofobi.
Scriveva Lenin “L’idea di cercare la salvezza della classe operaia ovunque eccetto che nello sviluppo ulteriore del capitalismo, è un’idea reazionaria”, e la verità di queste parole non può apparire più evidente quando si sentono certi anticapitalisti voler portare indietro il capitalismo invece che farlo esplodere.
Sicché, lungi da ogni soluzione leninista al “problema dell’immigrazione” che è solo problema di miseria sociale, Fusaro non trova di meglio da fare che ricorrere alla bufala del Piano Kalergi, contraffatta dal neonazista Gerd Honsik, dove si paventerebbe una “sostituzione etnica”, ovviamente raccogliendo gli scroscianti applausi delle fogne d’ogni dove.

In molti hanno pensato che una nullaggine simile non sarebbe andata troppo lontano.
Ma questi sono i tempi in cui la totalizzante reazione cerca proprio il nulla per frenare il tutto che potrebbe accadere. E quando lo trova, lo spreme sino alle ultime uova d’oro che può dare.

Salvo Lo Galbo

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