Interventi

Rispondendo a un comunista sardo

Tra crisi della sinistra, crisi dell'indipendentismo e crisi economica

24 Maggio 2017

Questo articolo riprende integralmente - con l'aggiunta di note, citazioni e precisazioni - l'intervento dell'autore alla presentazione del libro di Cristiano Sabino, “Compagno T. Lettere a un comunista sardo”, organizzata dal PCL e tenutasi a Tula il 20 maggio 2017

tula

Leggendo il libro di Cristiano Sabino mi sono reso conto che la sua lettura costituisce un’ottima occasione per fare un primo bilancio e lo spunto per ulteriori approfondimenti.

Il dato di fondo delle riflessioni di Cristiano, in questa particolare forma dello scambio epistolare con un immaginario Compagno T, archetipo di certi militanti della sinistra o sedicenti tali, è secondo me quello di una crisi. Anzi di più crisi. Direi almeno tre crisi: una crisi dell’indipendentismo sardo, una crisi storica della sinistra, quella che in termini marxisti definiamo crisi della direzione politica rivoluzionaria del movimento operaio e proletario, e infine crisi economica, sociale e politica del capitalismo.

Io partirei dalla seconda, nell’ordine citato, perché è secondo me in un certo senso la madre di tutte le crisi politiche. La vera questione che ogni forza politica che pretenda di risolvere la “questione sarda” deve affrontare. Infatti proprio la crisi di direzione politica rivoluzionaria del proletariato sardo spiega il revival in Sardegna dell’Indipendentismo, ben prima della crisi economica, sociale, politica e anche morale della nostra terra, la Sardegna, che guardando alla storia contemporanea, cioè a tutta l’epoca borghese che dura sino ad oggi, resta costantemente irrisolta. Tale crisi economica, sociale e politica che non è altro che la crisi della società borghese del capitalismo decadente, crisi a cui l’indipendentismo, o il sardismo indipendentista, come ideologia, come movimento politico organizzato, e anche come moto o sentimento di protesta sociale spontaneo, hanno cercato di dare una soluzione, insufficiente ahimè, visto che oggi siamo qui a discutere anche della crisi dell’indipendentismo.

Torniamo un attimo indietro, e facendo una dovuta premessa, bisogna ricordare che la crisi della direzione politica rivoluzionaria del movimento operaio e proletario è una crisi che dura da molto tempo, quasi un secolo. Il suo inizio si può far risalire al momento in cui, intorno alla metà degli anni ’20 del ‘900, si sviluppa una durissima lotta all’interno del partito comunista (bolscevico) russo, e di conseguenza nella stessa Internazionale comunista, che vedrà scontrarsi sostanzialmente due tendenze. La prima, espressa da quella che sarà l’opposizione di sinistra all’interno del partito comunista russo e poi dell’Internazionale, che sulla linea di Lenin, cercherà di tenere, nonostante le avversità cui andava incontro il giovane stato operaio nato dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, la barra della direzione politica rivoluzionaria che era quella della linea della rivoluzione mondiale, e la seconda, che arriverà a costituire l’ortodossia politica del movimento comunista internazionale, che si alimenterà delle principale debolezze oggettive del giovane stato operaio: l’isolamento di una rivoluzione esplosa in un paese ancora profondamente arretrato dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive e dove il proletariato costituiva ancora una classe per quanto decisiva minoritaria, l’esaurimento di una parte considerevole dei migliori quadri rivoluzionari in una sanguinosa e lunga guerra civile, l’emergere di una casta burocratica nello stato e nell’apparato del partito che usurperà finalmente il potere del giovane proletariato russo. Questa seconda tendenza, che finirà con l’indentificarsi con la casta burocratica controrivoluzionaria usurpatrice, divenendone l’espressione ideologica della conservazione dei propri privilegi di casta, svilupperà e teorizzerà rispetto all’opposizione di sinistra, una linea di adattamento al capitalismo, sintetizzabile nella teoria del socialismo in un paese solo, che nei fatti rinviava all’infinito, e infine ostacolava, il problema dello sviluppo internazionale della rivoluzione, cioè della liquidazione definitiva del capitalismo, quindi della rivoluzione mondiale. Stiamo ovviamente parlando dello stalinismo, che ad un certo punto per il concorso delle forze e circostanze a cui si è già fatto riferimento riesce ad affermarsi dapprima politicamente e poi, manu militari, con una spietata repressione sull’opposizione di sinistra nell’URSS e nell’Internazionale, e di gran parte dello stesso gruppo dirigente del partito di Lenin.

Con l’affermazione dello stalinismo in URSS e alla direzione politica del movimento operaio o di una sua parte molto consistente e decisiva sul piano internazionale, assistiamo all’affermazione di un’ideologia estranea al marxismo rivoluzionario, anzi un’aperta reazione ad esso, che laddove quest’ultimo pone come questione centrale il problema del rovesciamento del capitalismo nazionalmente e internazionalmente (problema della rivoluzione mondiale), il primo ha costituito invece un adattamento al capitalismo stesso.

E’ questo adattamento, o meglio l’affermazione alla direzione mondiale del proletariato rivoluzionario della tendenza staliniana fautrice di questo adattamento, se non di una vera e propria capitolazione, al capitalismo mondiale che spiega perché, nonostante il secolo seguito dall’ottobre 1917 ad oggi, segnato costantemente da guerre civili, crisi rivoluzionarie e rivoluzioni, tentativi d’insurrezione, guerre imperialiste tra cui una seconda guerra mondiale devastante e potenzialmente terminale per l’esistenza stessa del capitalismo, guerre anticoloniali e di liberazione nazionale, che hanno determinato un secolo caratterizzato da una tale intensità politica da spingere uno storico a definirlo “secolo breve”, un secolo in cui il protagonista politico fondamentale è stato il proletariato e quei settori popolari sui potenziali alleati, che malgrado lo stalinismo e il riformismo tradizionale di stampo socialdemocratico, ha visto una costante ascesa organizzativa e numerica della classe operaia e del proletariato, dove circa un terzo del pianeta è stato sottratto al dominio diretto del capitale, bene, questo adattamento spiega perché tale secolo si sia concluso con il crollo dell’URSS e dei paesi a socialismo reale, con la restaurazione del capitalismo in quella parte del pianeta dove il capitale era stato espropriato, con il quasi totale annichilimento del movimento comunista internazionale, con uno spaventoso e costante arretramento delle condizioni di lavoro e di esistenza di enormi masse proletarie rispetto alle migliori condizioni conquistate con le lotte di tutto il ‘900, insomma con un fallimento totale su tutti i fronti. E questo spiega quindi la persistenza stessa del capitalismo, non le sue presunte capacità rigenerative, nonostante viva oggi il punto massimo della sua crisi storica, in termini economici, politici e sociali.

Torniamo quindi all’altro punto in esame, all’indipendentismo, a questa manifestazione politica più recente del sardismo come ideologia nazionale del riscatto del popolo sardo, e alla sua crisi attuale.

Badate bene, non è un caso che assistiamo ad un revival, per certi versi inedito, del sardismo nella forma dell’Indipendentismo sardo e alla sua successiva crisi, che il compagno Sabino analizza nel sua libro e a cui cerca di trovare una risposta. Non è un caso, dicevo, di questo revival a cavallo tra la fine del ‘900 e il primo decennio del XXI secolo, in coincidenza proprio con l’esplosione della crisi politica del movimento operaio internazionale e sardo, con la scomparsa della sue organizzazioni politiche storiche di riferimento, con il misero fallimento dei successivi tentativi di ricomposizione, nel momento del punto più alto della crisi stessa del capitalismo, che in Sardegna coincide sostanzialmente con la crisi dei grandi poli industriali e la disgregazione di interi settori di classe operaia sarda.

Ora si capiscono meglio anche le ragioni della mia precedente premessa storica.

Non è un caso, appunto, perché l’indipendentismo sardo, in particolare per quanto riguarda l’indipendentismo di sinistra e le sue tendenze di origine marxista o apertamente comuniste, fu uno dei tentativi di dare una risposta politica e organizzativa a questa crisi politica, economia e sociale della Sardegna, cioè alla crisi del regime capitalista in Sardegna, e quindi di dare una risposta al problema della crisi della stessa direzione rivoluzionaria del movimento proletario e di emancipazione del popolo sardo. E questo tentativo di risposta, che a differenza di fenomeni solo apparentemente simili nel quadro dello stato italiano, pensiamo al leghismo, ha generalmente, e storicamente, assunto un carattere progressivo, malgrado la presenza di tendenze apertamente reazionarie, come evidenzia lo stesso Cristiano in alcuni passaggi del suo libro; questo tentativo di risposta si spiega per la sua genesi e i suoi caratteri con la particolarità della storia sarda recente, o contemporanea, all’origine della “questione sarda”.

La storia sarda contemporanea è innanzitutto la storia di una nazione mancata. La storia di una nazione che ha sperimentato probabilmente l’unico caso di una rivoluzione borghese non passiva, la rivoluzione del 1793-96 diretta da Giommaria Angioy [1], per usare la caratterizzazione fatta da Gramsci del Risorgimento italiano e dell’epoca di rivoluzioni borghesi nel territorio dell’attuale stato italiano che prepareranno e culmineranno nel Risorgimento e nella nascita dello stato unitario sabaudo. Una rivoluzione abortita però, che non portò a compimento il tentativo insurrezionale diretto dall’Angioy, con delle conseguenze storiche per la Sardegna che si riflettono sino ad oggi. Il fallimento della rivoluzione democratico-borghese sarda, infatti, privando la Sardegna dell’indipendenza politica nazionale, l’ha di fatto, privata già sul nascere della sua direzione politica rivoluzionaria giacobina, o, forse, è meglio dire che ha privato la nascente direzione politica giacobina sarda raccolta intorno all’Angioy dello strumento politico, lo stato nazionale, per procedere con la liquidazione radicale e definitiva dei residui feudali in Sardegna. Questo spiega il perché, ovviamente, la transizione dal residuale regime di rapporti politici ed economico-sociali feudali ai moderni rapporti capitalistici in Sardegna sia avvenuta oltre che nei termini della definitiva integrazione politica, in forma subalterna, nel Regno di Sardegna prima e nello stato unitario poi, necessariamente, come conseguenza di quest’ultima, in quelli di un’integrazione economica subordinata, dai caratteri coloniali o semicoloniali, nel nuovo mercato nazionale creato dalla borghesia unitaria, sostanzialmente settentrionale, con il processo di unificazione politica risorgimentale. Ciò è all’origine di due elementi caratteristici della storia sarda contemporanea: 1) il persistente sottosviluppo e soffocamento delle forze produttive e la loro integrazione in forma, come abbiamo visto, subalterna e dipendente nel mercato nazionale postunitario e per il tramite di esso nel nascente mercato mondiale; 2) la persistenza, da una parte, di uno strato sociale molto vasto, seppur minoritario e in costante riduzione, della piccola borghesia rurale, parliamo dei pastori e contadini sardi, costituito nella stragrande maggioranza da unità produttive molto ristrette, nella quasi totalità a conduzione familiare, con una scarsa presenza e incidenza, quindi, delle aziende che sfruttano direttamente salariati; uno strato che ha vissuto e vive molto spesso lo stato centrale e le sue articolazioni come un elemento estraneo ed oppressore, caratterizzato da un forte individualismo, che subisce l’oppressione capitalista attraverso la rendita parassitaria, soprattutto prima, l’esproprio parziale, operato dall’industriale caseario, del prodotto del proprio lavoro, il latte, e l’usura e l’esproprio da parte dal capitale bancario, e infine il mercato nazionale e mondiale che sfugge totalmente al suo controllo. Dall’altra l’emersione più recente di uno strato di piccola borghesia artigiano e semiartigiano o tecnico, diretto prodotto dello sviluppo capitalistico, cresciuto come appendice dell’industria (sia in senso stretto che nell’edilizia) e dei servizi, costituito da una forte percentuale di singoli lavoratori autonomi ma anche di piccoli padroncini, costantemente in bilico dal punto di vista sociale, con passaggi periodici dalla piccola borghesia al proletariato e viceversa, per effetto delle crisi e dell’arretrato sviluppo delle forze produttive sarde, cui si aggiungono infine settori intellettuali di tradizionale e recente generazione dalla condizione materiale sempre più precarie e prossima al proletariato. [2]

Queste due elementi caratteristici della storia sarda, e comuni anche alla storia di molte altre nazioni, spiegano la persistenza del sardismo, nelle sue differenti varianti, da quella autonomista iniziale del ’19 del PSd’A di Lussu, a quella più recente della galassia indipendentista, come l’espressione, per quanto non l’unica, sia ideologica che organizzativa, tendenzialmente democratico-progressiva e in certi momenti anche rivoluzionaria, di questi strati popolari.

La storia della Sardegna e la “questione sarda” spiegano, quindi questo carattere che il sardismo, nelle sue varianti ha storicamente avuto, la sua persistenza e la ricorrenza nei momenti di crisi storica acuta. Un carattere compreso bene da Gramsci e dai suoi eredi più coerenti, mi riferisco in particolare a Pietro Tresso [3], ed al suo intervento su questo punto specifico nello scritto Marxismo e questione nazionale.

Non è quindi un caso che un’organizzazione che si richiama al trotskismo come il Partito Comunista dei Lavoratori sia a discutere qui con rappresentante di una tendenza comunista dell’indipendentismo sardo.

Questi caratteri sociali, politici, di classe del sardismo e dell’indipendentismo sardo spiegano però anche la sua crisi, il fatto che non sia riuscito a costruire un radicamento profondo nel proletariato sardo, seppur essendone stato e potendone essere potenzialmente un alleato, il fatto che non sia riuscito a costituire una direzione rivoluzionaria alternativa ad esso, e infine le degenerazioni nel parlamentarismo, nel riformismo, nel trasformismo che denuncia lo stesso compagno Sabino nel suo libro e che sono in molti casi speculari alle degenerazione vissute dalla stessa sinistra e dalle organizzazioni storiche del movimento operaio e proletario. Per i limiti politici storici della stessa classe sociale di suo prevalente riferimento, limiti descritti e sintetizzati da Marx già nel Manifesto, che è incapace di farsi “classe nazionale”, come lo fu la borghesia al momento delle rivoluzioni che hanno rovesciato il feudalesimo, o come lo è il proletariato. È incapace cioè di esprimere fino in fondo un’autentica direzione politica della nazione, proprio perché riflette sostanzialmente gli interessi materiali di una classe, che non tanto per il fatto di essere minoritaria seppur significativa, quanto per i la sua collocazione nell’ordinamento sociale borghese tra la borghesia in quanto tale e il proletariato è incapace di esprimere una direzione politica indipendente. Per questo è soggetto periodicamente alle crisi e alle scissioni. Nel momento in cui si sposta più a sinistra, o si radicalizza a sinistra, gli elementi borghesi nazionalisti o piccolo borghesi più direttamente legati alla borghesia da un rapporto di subalternità e dipendenza rompono perché temono un’egemonia del proletariato o la minaccia alla propria condizione materiale che potrebbe derivare dalla rivoluzione proletaria, o viceversa sono gli elementi proletari o legati da un rapporto di fiducia politica e morale con il proletariato o le tendenze politiche comuniste e di matrice proletaria ad essere costretti a rompere nel momento in cui vedono prevale le tendenze filo-borghesi. Si aggiunga poi l’enorme sistema di corruzione e di divisione di cui dispone lo stato borghese e la borghesia, con tutti i suoi agenti e canali che ha già sperimentato efficacemente contro lo stesso proletariato.

È anche vero però che pure il proletariato sardo ha fallito, finora, il compito, che pure storicamente gli spetta, di direzione politica rivoluzionaria della lotta di emancipazione propria e dell’insieme del popolo sardo, come anche quello di offrire una direzione rivoluzionaria alle stesse tendenze proletarie dell’indipendentismo e dei settori popolari che in esso hanno cercato una soluzione alla profonda crisi economica e sociale in cui il crollo del capitalismo ha gettato anche la Sardegna.

Per questo è perfettamente corretta e puntuale l’accusa che Cristiano Sabino rivolge nel suo libro al “compagno T” su questo punto.

La spiegazione di questa incapacità, è da imputare, come ho cercato di spiegare all’inizio del mio intervento, sostanzialmente, alla crisi storica della direzione politica rivoluzionaria determinatasi con l’affermazione generale dello stalinismo sulle correnti realmente marxiste rivoluzionarie del movimento operaio, che è andato ad affiancarsi, riflettendo le stesse degenerazioni, all’altra tendenza dominante, il riformismo socialdemocratico, contro cui il marxismo rivoluzionario di Lenin ha così tenacemente e magistralmente lottato, privando quindi totalmente il proletariato di una guida rivoluzionaria. Non è da imputare però, a differenza di altre cose citate giustamente dal compagno Sabino, a quello che lui definisce, in diverse sue lettere, operaismo di maniera o, ancora operaismo metropolitano, del compagno T. L’errore fondamentale dell’operaismo originario di Tronti e Negri, o dei termini per cosi dire sostanzialmente economicisti di intendere la lotta di fabbrica e sociale più generale delle principali organizzazioni politiche e sindacali del proletariato dello stato italiano, il PCI e soprattutto la CGIL, non fu quello di riconoscere la centralità del proletariato, e in particolare del proletariato industriale e di fabbrica nella direzione di queste lotte, o in quanto classe o soggetto politico, quanto, nel primo caso, nell’assolutizzare la figura dell’operaio riducendo tutto alla lotta interna alla fabbrica, è soprattutto derivando da un fatto reale, che è l’operaio a produrre il capitale, l’idea falsa che, sostanzialmente, sia sufficiente per rovesciare il sistema capitalista che l’operaio si neghi “come forza produttiva affermandosi come super-potenza politica”. Che in sostanza significava affermare che pur essendo una classe oppressa, priva dei mezzi di produzione potesse determinare le scelte economiche del sistema non dopo la conquista del potere ma prima. Nel caso del PCI e della CGIL l’economicismo della lotta di fabbrica e sociale significava concretamente il rifiuto da parte delle principali organizzazioni del movimento operaio, al pari dell’operaismo in senso stretto, della lotta per la conquista del potere. Il contenuto di entrambe le impostazioni era il riformismo. La prima che lo derivava dall’assolutizzazione della lotta tra capitale e lavoro dentro la fabbrica, negando la necessità della costruzione di un partito rivoluzionario e riducendo esclusivamente la lotta di classe alla spontanea lotta all’interno della fabbrica tra capitale e lavoro, la seconda come conseguenza dell’affermazione dello stalinismo e della sua ideologia di adattamento al capitalismo, che riconosceva il ruolo fondamentale del partito, ma lo riduceva allo strumento della lotta politica del proletariato per… la conquista del potere? No, per le riforme di struttura: la via (riformista) italiana al socialismo..

Ma, per tornare al punto centrale della questione, è alla crisi di direzione politica rivoluzionaria del movimento operaio che si deve sostanzialmente anche il fatto che non si sia risolta una della contraddizioni della moderna produzione capitalista, cui allude, criticandola giustamente, il compagno Sabino, il problema della crisi ecologica, il problema dello sviluppo diseguale, dello sfruttamento coloniale, del saccheggio indiscriminato della natura, che è caratteristico non del modo di produzione industriale in sé, ma della produzione industriale capitalista, cioè della produzione industriale finalizzata all’accumulazione di capitale.

Aggiungo che è un po’ paradossale questo riferimento all’operaismo, per quanto possa essere anche corretto se inteso nei termini che abbiamo appena segnalato data la sua influenza su ampi settori dell’estrema sinistra, perché tra le ideologie dominanti sia all’interno dell’indipendentismo sardo, che della sinistra e delle avanguardie politiche giovanili sarde impegnate nelle lotte più recenti, sostanzialmente quelle contro le basi e l’occupazione militare della Sardegna, prevalgono proprio quelle di origine operaista, che si sono evolute a partire dall’operaismo verso una forma di postmodernismo, che sono state veicolate attraverso i residui di quella che fu la “nuova sinistra” degli anni ’70 alle nuove generazioni; che hanno trovato terreno fertile nella crisi della coscienza politica e nell’isolamento generale nel campo della lotta teorica in cui si è trovato il marxismo rivoluzionario dopo il crollo del socialismo reale, e che, sostanzialmente, teorizzano il superamento della lotta di classe e della centralità del proletariato come soggetto rivoluzionario, sostituendoli con la lotta delle moltitudini, dei popoli, o dei movimenti; la negazione dello strumento del partito rivoluzionario e la sostituzione con l’autorganizzazione dei movimenti; il superamento della società borghese attraverso il rifiuto dell’industria, in pratica teorizzando un ritorno romantico alla società pre-capitalista dei piccoli produttori agricoli e artigianali, ad impatto zero, si direbbe oggi, e la riscoperta di alcune concezioni del socialismo utopistico e anarchico sulla cui inadeguatezza il socialismo scientifico aveva trionfato.

Quindi per ritornare alla questione dell’origine dell’indipendentismo sardo e della crisi politica proletariato sardo, fu appunto l’adattamento al capitalismo e la concezione, quindi, della rivoluzione a tappe, o della transizione a tappe elaborate dallo stalinismo, e dalla sua versione italiana, il togliattismo, che hanno impedito al proletariato di convertirsi in direzione rivoluzionaria in Sardegna. Le elaborazioni e le analisi strategiche indispensabili alla organizzazione e guida politica di questa direzione rivoluzionaria, c’erano e ci sono ancora. Sono quelle contenute nelle elaborazioni teoriche dei primi 4 congressi dell’Internazionale comunista, e sono quelle contenute nelle analisi ed elaborazioni di Gramsci e del PCd’I fino all’isolamento politico di Gramsci e alla degenerazione staliniana dello stesso PCd’I. Nel caso specifico sardo la formula di questa direzione politica rivoluzionaria era quella della Repubblica sarda dei consigli (Congresso regionale sardo clandestino del PCd’I del 1924), nel quadro della Federazione delle Repubbliche socialiste e soviettiste d’Italia (IV congresso del PCd’I, Colonia 1931) [4].

Il PCI togliattiano sostituì infine, a questa formula di distruzione dello stato borghese sabaudo, la sua ricostituzione, con la svolta di Salerno del ‘44, attraverso la linea di collaborazione di classe dell’unità antifascista durante la resistenza e, dopo, nella mera difesa dello stato repubblicano antifascista. In Sardegna con la linea dell’unità autonomista, con la sinistra democristiana, e della lotta per realizzare, seppur in maniera realmente democratica e in termini contrapposti a quelli definiti dalla DC, i piani di rinascita.

Il PCI, non seppe, per questi stessi motivi, utilizzare a pieno (cioè per la conquista del potere) la svolta oggettiva, d’importanza strategica, rappresentata dalla proletarizzazione della Sardegna, avvenuta nel secondo dopoguerra, di cui una delle cause, fu anche la rapida estensione del proletariato industriale, dovuta anche ad uno sviluppo industriale non determinato dalle impostazioni iniziale dei piani di rinascita, o dall’impostazione che il PCI sardo voleva darne con la propria lotta politico-rivendicativa, ma da quelle di chi effettivamente deteneva il potere: il capitalismo rapace e coloniale della borghesia settentrionale di cui il regime democristiano era lo strumento di potere, e la borghesia sarda un alleato.

Per concludere quindi, po’ avvenire un superamento della crisi dell’indipendentismo sardo, da una parte, o della crisi della sinistra dall’altra, ribadendo per l’ennesima volta la necessità di ricostruire l’unità delle forze indipendentiste o delle forze della sinistra? Secondo noi no. Perché alla base delle divisioni, non ci sono semplici incomprensioni, settarismi, opportunismi, personalismi di avventurieri politici ecc., queste sono tutte conseguenze, non cause. La base delle rotture e divisioni continue avviene lungo le faglie delle divisioni di classe e della lotta di classe che continua nel sottosuolo. L’unità di tutto l’indipendentismo significa, per il proletariato sardo e i settori popolari e di piccola borghesia sarda più poveri, la subordinazione alla direzione politica degli interessi materiali di particolari di settori della borghesia sarda o della piccola borghesia sarda in lotta con lo stato centrale e i loro maggiori concorrenti continentali o internazionali. Pressioni analoghe alimentano le divisioni della sinistra. Bisogna saper riconoscere i differenti interessi di classe che si riflettono nella differenza delle varie correnti e partiti politici sardi. Dal punto di vista della costruzione di una direzione politica rivoluzionaria del proletariato sardo, e quindi del popolo sfruttato sardo, l’unità si può costruire solo tra le tendenze chiaramente classiste proletarie. La creazione di questa direzione politica del proletariato e popolo sardo può avvenire solo con la riorganizzazione politica del proletariato sardo intorno ad un programma di transizione che aiuti le masse a trovare, nel processo della loro lotta quotidiana, il ponte tra le rivendicazioni attuali e il programma della rivoluzione socialista. Questo ponte deve consistere in un sistema di rivendicazioni transitorie che partano dalle condizioni attuali e dal livello di coscienza attuale di larghi strati della classe lavoratrice salariata e portino invariabilmente a una sola conclusione: la conquista del potere da parte del proletariato.”

Questo lavoro presuppone la lotta chiara e aperta, rispettosa, certo, del contributo pratico di lotta dei compagni e compagne anche quando mosso da una teoria sbagliata, ma sempre inflessibile contro tutte le tendenze più o meno riformiste o antirivoluzionarie all’interno del movimento indipendentista e della sinistra sardi, che negano la centralità del proletariato, affermano il superamento della lotta di classe riducendo tutto ad una mera lotta di popoli, di stati o di “moltitudini”, negano la centralità del partito rivoluzionario come strumento di organizzazione del proletariato e delle larghe masse sfruttate intorno ad esso per la conquista del potere, sostituiscono alla teoria della rivoluzione, una teoria della trasformazione sociale per tappe, graduale, culturale, riformista, di genere ecc. ecc., rifiutando di lottare per la solo formula di soluzione politica alla crisi della Sardegna, quella del governo dei lavoratori sotto la direzione del proletariato rivoluzionario sardo nella forma della Repubblica Sarda dei consigli, nel quadro di una Federazione delle Repubbliche socialiste d’Italia, nella prospettiva della costituzione di una Federazione delle Repubbliche Socialiste d’Europa (Stati socialisti uniti d’Europa).

Tale lotta teorica, che deve accompagnare sempre la lotta pratica, è tanto più indispensabile oggi vista la confusione politica in cui la crisi del movimento operaio con lo spaventoso arretramento della sua coscienza socialista, ha gettato le masse proletarie e le stesse avanguardie politiche e militanti. Ci troviamo oggi in una situazione dove il socialismo scientifico, un po’ come alle sue origini e nell’epoca degli scontri della Prima Internazionale, deve riaffermare la correttezza dell’impostazione e dell’analisi marxista rivoluzionaria contro il riemergere sotto varie forme di tendenze utopiste, anarchiche e da socialismo piccolo borghese, con il vantaggio però che il marxismo rivoluzionario avvalersi oggi del grande bagaglio di esperienza teorica ed organizzativa rivoluzionaria accumulato dal proletariato in oltre un secolo di lotta.




Note:

[1] Sarebbe interessante e utile approfondire anche attraverso la ricerca storica questo aspetto della storia sarda completamente trascurato dalla storiografia ufficiale

[2]Le aziende agricole e zootecniche sarde sono per il 98% a conduzione diretta senza impiego di salariati (le statistiche potrebbero non considerare forme di lavoro nero, ma sono comunque significative del livello d’incidenza della piccola proprietà a conduzione diretta, rispetto alla grande media proprietà capitalista con salariati) che producono per l’industria e il mercato capitalisti.(Sardegna Statistiche, dati 2015) Il dato più eclatante è però quello relativo al proletariato, inteso come classe dei lavoratori salariati, in Sardegna, che è una smentita di certi miti sulla scomparsa del proletariato o la centralità della piccola borghesia artigianale o rurale in Sardegna. Infatti, le forze di lavoro totali sarde sono 684 mila unità, di cui gli occupati sono 565mila, di cui i lavoratori dipendenti (salariati) sono 416mila (60,8% circa del totale delle forze di lavoro e il 73,6% circa della forza lavoro occupata). A questi bisogna aggiungere poi i disoccupati (119mila, 17,3% della forza lavoro attiva totale), e gli inattivi (431mila, per una popolazione compresa tra la fascia d’età 15-64 anni) che nella stragrande maggioranza appartengono al proletariato, in quanto ne costituiscono l’esercito industriale di riserva. Sommando tutte le cifre abbiamo che il proletariato sardo, nelle sue varie articolazioni (escludendo settori “salariati” come i manager, i dirigenti d’impresa pubblica e privata, gli alti funzionari), ammonta almeno a circa il 60% della popolazione sarda, senza considerare tutta la restante popolazione che ne compone le famiglie.

[3] Dirigente della Nuova Opposizione Italiana, frazione del PCd'I aderente alla Opposizione di Sinistra Internazionale, di cui faceva parte Trotsky.

[4] Sebbene questo Congresso, definito “congresso della svolta” segnerà, un ulteriore passaggio, nella degenerazione staliniana del PCd’I, fu infatti preceduto dall’espulsione dell’opposizioni di sinistra interna, Ravazzoli, Tresso, Leonetti, non poté vedere la partecipazione di Gramsci, rinchiuso nelle prigioni fasciste, è presenta evidenti limiti e fondamentali errori strategici e tattici (su cui aveva maturato profonde critiche lo stesso Gramsci in carcere) dovuti all’accettazione della tesi staliniana del "socialfascismo" e delle elaborazioni del cosidetto "terzo periodo", conserva ancora dei residui della precedente elaborazione del programma marxista rivoluzionario gramsciano per la situazione italiana. A tal proposito nella formulazione completa del congresso già citata si dice:

“La rivoluzione proletaria organizzerà lo stato sulla base dei comitati di operai, di contadini, di soldati e di marinai, sulla base della più ampia democrazia proletaria.

Allo scopo di accelerare lo sviluppo economico, politico e culturale del Mezzogiorno, della Sicilia, e della Sardegna, e di soddisfare le aspirazioni delle masse lavoratrici, la rivoluzione proletaria promuoverà una particolare organizzazione autonoma politico amministrativa di queste regioni, sino alla costituzione di repubbliche socialiste e soviettiste autonome del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna nella Federazione delle Repubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia.

La rivoluzione proletaria darà alle minoranze nazionali il diritto di disporre di sé fino alla separazione, realizzerà questo diritto nel modo più assoluto, libererà tutte le popolazioni coloniali dall’oppressione dell’imperialismo italiano.” (IV Congresso del PCd’I, Colonia 1931)

Gianmarco Satta

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