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L'articolo 18 nella pubblica amministrazione

Storia di una distruzione annunciata

21 Giugno 2016

Intorno alla classe operaia si costruisca l'unità della lotta di tutto il mondo del lavoro, privato e pubblico

art 18

Sotto i colpi delle continue convulsioni economiche e crisi di sovrapproduzione, naturali nel sistema capitalistico, il capitale deve continuamente far fronte alla caduta dei saggi di profitto, cercando di “tamponarla” con l’aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro. La maggiore facilità di licenziamento è uno dei mezzi funzionali a tal fine, consentendo di spremere di più un minor numero di lavoratori, favorendo le delocalizzazioni verso la manodopera super sfruttata ed un “ricambio generazionale” di lavoratori con salari più bassi e minori diritti, più ricattabili e precari.


Nel folle sistema capitalistico ormai senza sbocchi, in barba a carte costituzionali e codici del lavoro, il tasso di arbitrio del licenziamento viene spinto in avanti, di fatto, a causa dalle crisi che esso stesso genera. L’unico ostacolo reale ed immediato lo può trovare solo nel livello di lotta e di resistenza sviluppato dalla classe lavoratrice e dagli sfruttati, da cui possono nascere anche conquiste giuridiche. Lo sfondamento reazionario e padronale in Italia, sul fronte dell’art.18, è valso perciò anche come dimostrazione di forza da parte della classe avversa: in Italia v’era infatti una maggiore tutela giuridica del lavoratore sul licenziamento, in virtù della precedente versione dell’art.18 L.300/1970.


Conquistato come “sottoprodotto” di una grande stagione di lotte operaie, l’art.18 prescriveva un semplice ed elementare diritto: essere reintegrato sul luogo di lavoro, con l’aggiunta di un risarcimento del danno in denaro, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento. Tale tutela era estesa anche al rapporto di lavoro pubblico “contrattualizzato” dagli anni ’90. Unico neo era la sua non applicazione alle aziende con meno di quindici dipendenti (cinque per le imprese agricole). Con l’acuirsi della crisi di sovrapproduzione ed in combinato disposto con l’arretramento della classe lavoratrice, il capitale, alla disperata ricerca di qualunque cosa utile a tamponare la caduta dei saggi di profitto, da tempo aveva preso di mira anche questo elementare diritto: un altro “ostacolo giuridico” da eliminare nel processo di smantellamento delle conquiste operaie.


L’ultimo decisivo attacco reazionario all’art.18 è così avvenuto con la legge 92/2012, la “(contro)riforma Fornero”, sino al micidiale Jobs act del governo Renzi (D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23). Lo hanno demolito in più riprese, con il supporto di sindacati di comodo. Ed invero questo è stato anche l’epilogo di un percorso regressivo ben preparato anni addietro dai vari governi di destra e di centrosinistra, con la complicità delle burocrazie sindacali. Tanto più che oggi, la proposta sulla nuova carta del lavoro della CGIL per ripristinare l’art.18 e per superare le mille forme di lavoro precario è anche un elenco-promemoria di tutte le conquiste man mano eliminate nel tempo. In effetti si dovrebbero abrogare tutte le norme sul mercato del lavoro deliberate dai governi di destra e di centrosinistra nell’ultimo trentennio, su commissione di banchieri, Marchionne e Confindustria.


Sta di fatto che ad oggi il precedente articolo 18, semplice espressione di un elementare diritto, viene soppiantato da una norma regressiva, farraginosa e complicata, che in sostanza, come avrebbe detto Marx , “fa girare indietro la ruota della storia”. Novella giuridica suscettibile di svariate nuove casistiche da interpretare in balia del terno al lotto della giustizia borghese. In sostanza: anche se il licenziamento è illegittimo, il lavoratore non ha più diritto al reintegro, ed il rapporto di lavoro viene dichiarato risolto con tutte le disastrose conseguenze esistenziali ed economiche, rimanendo al lavoratore solo un risarcimento in denaro variabile in base alle varie casistiche previste.


Tolta la fuffa, il punto chiave di questa barbarie giuridica risiede nel quinto comma del “nuovo” art.18 introdotto dalla citata L.92/2012: “Il giudice, nelle altre ipotesiin cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavorocon effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria…”. La locuzione “altre ipotesi” crea il presupposto giuridico per l’arbitrario licenziamento illegittimo, senza la tutela reale del reintegro sul luogo di lavoro, nei casi più diffusi e frequenti. (1) Rimangono tutelati dal reintegro solo i seguenti “casi limite”, benché estesi anche ai dirigenti e senza limite circa il numero dei dipendenti dell’azienda: licenziamento discriminatorio, licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti previsti in caso di maternità e paternità, licenziamento nullo perché dichiarato tale da altre disposizioni di legge, licenziamento determinato da motivo illecito esclusivo (art 1345 c.c., art. 1324 c.c.), licenziamento orale.


Insomma, la tutela reale del reintegro viene relegata solo ad alcune limitate ipotesi che spesso sono anche difficili da provare sul piano giudiziario o comunque poco usate dai padroni sul piano formale, trattandosi di chiari illeciti che le aziende mai paleserebbero, ancorché perseguite di fatto sotto altra nomen iuris. Nel caso di licenziamento senza giustificato motivo oggettivo, e solo per i “datori di lavoro” con più di quindici dipendenti nell’ambito dello stesso comune o più di sessanta sul territorio nazionale, la reintegra si applica eccezionalmente, cioè solo nel caso in cui il motivo dellainidoneità fisica o psichica del lavoratore sia stato ritenuto ingiustificato dal giudice o esso sia stato intimato ad un lavoratore malato o infortunato in violazione dell’art. 2110 c.c., o nell'ipotesi in cui accerti la manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Si noti: l’ipotesi della “insussistenza del fatto” non basta come tale, ma deve essere “manifesta”, il che crea un altro ampio margine di arbitrio anche nell’interpretazione della norma rispetto ai casi concreti ed ulteriori difficoltà difensive del lavoratore sul piano legale; tanto più in periodo di crisi acuta dove il carattere manifesto o meno di certe condizioni aziendali diviene ancor più aleatorio. In quanto al giustificato motivo soggettivo o alla giusta causa, anche se non ne ricorrono gli estremi la reintegra non si applica, salvo che in un caso: per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa.


Ma a lorsignori non è bastato abbattere nel modo appena descritto l’art.18 solo per il settore privato. In realtà il capitale esige di estendere il maggior arbitrio del licenziamento anche nel settore pubblico, come uno degli elementi funzionali alla privatizzazione ed al taglio della spesa sociale, sempre nell’ottica di tamponare la caduta dei saggi di profitto. Ed infatti con la privatizzazione si creano spazi di mercato più extraprofitti da ruberie; con il taglio della spesa sociale si recuperano risorse da regalare al capitale con sgravi e contributi; il tutto si aggiunge alla grande rapina di spesa pubblica per gli interessi usurai sui titoli pubblici, detenuti dagli stessi magnati che hanno causato il debito, il quale peraltro si autoalimenta con un meccanismo anatocistico, pagato dai lavoratori con le varie tassazioni.


Non solo: il maggior arbitrio del licenziamento nel settore pubblico aumenta in modo esponenziale il potere delle varie cricche borghesi che gestiscono la P.A. Ad esempio, sarebbe più facile esercitare ritorsioni e licenziamenti arbitrari del lavoratore pubblico che si opponesse ad abusi, saccheggi delle risorse pubbliche e dell’ambiente, in danno della spesa sociale, della salute pubblica e delle masse sfruttate. O che fosse perseguitato a causa della sua attività sindacale o politica non gradita al potere. Ottenuta la demolizione dell’art.18 per il settore privato, è iniziata perciò la solita canea reazionaria, che ne reclama l’estensione anche ai lavoratori pubblici; le finalità di questa campagna ovviamente non sono quelle di elevare il livello qualitativo e quantitativo dei servizi pubblici e la loro accessibilità per le masse popolari, bensì di smantellamento graduale della natura pubblica della loro gestione per le nefaste finalità predette in danno alle classi lavoratrici e povere.


Ma qui è sorto un problema giuridico: il sistema capitalistico, come rimane impigliato nelle sue contraddizioni sul piano economico (crisi di sovrapproduzione e suoi effetti), così lo può rimanere nell’ambito del proprio ordinamento giuridico, a furia di concepire finzioni giuridiche, quali l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge necessariamente inesistente nella società divisa in classi o l’"imparzialità" della Pubblica Amministrazione stabilita dall’art.97 della Costituzione, a fronte della natura di classe dello Stato.


Ma è proprio rispetto a quest’ultimo principio dell’art.97 della Costituzione che è caduto in contraddizione, sul piano tecnico-giuridico, il tentativo reazionario di estendere il licenziamento arbitrario al settore pubblico. Ed infatti la recente Sentenza 11868/2016 del 9/6/2016 della Corte Suprema di Cassazione sancisce che le suddette “modifiche” apportate all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori dalla legge 92/2012 (la riforma Fornero), non si possono estendere ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, precipuamente, proprio in virtù del citato art.97 della Costituzione. Segnatamente la Corte ha affermato che il comma 8 dell’art.1 della L.92/2012 (legge Fornero), non estende “automaticamente” ai lavoratori pubblici la novella dell’art.18, ma rinvia ad un successivo intervento normativo di “armonizzazione” della disciplina del pubblico impiego contrattualizzato. Ne deriva, secondo la Corte, che l’art.18 “pre-Fornero” non è stato espunto dall’ordinamento, proprio perché rimane ancora in vigore nel settore pubblico.


La tutela da riconoscere ai dipendenti pubblici, in caso di licenziamento illegittimo, resta quella assicurata dalla previgente formulazione dell’art.18 citato, cioè la tutela reale, grazie alla quale il lavoratore ha sempre il diritto ad essere reintegrato quando il licenziamento risulta illegittimo. Prima faciela detta formulazione potrebbe far ritenere solo un rinvio del pericolo che l’abolizione dell’art.18 “pre-Fornero” si estenda anche al settore pubblico, al successivo intervento di armonizzazione normativa. Ma non pare che le cose stiano così: leggendo in particolare il punto 3.3 della citata sentenza, si evincono diversi impedimenti all’estensione della legge Fornero al pubblico impiego anche in sede del paventato rinvio. Un punto significativo rilevato dalla Corte è che nell’impiego privato la limitazione del potere di licenziare “ha il solo scopo di tutelare il dipendente”; nell’impiego pubblico la limitazione “è posta soprattutto a tutela degli interessi collettivi, non tanto e non solo del dipendente, rilevando in tal caso l’art.97 della Costituzione” cioè la tutela della “imparzialità e del buon andamento della P.A.”.


Ma vengono evidenziate anche altre ragioni giuridiche: a) le finalità della detta Legge 92/2012 ex se afferiscono esclusivamente all’impresa privata; b) le ipotesi disciplinari della legge Fornero sono – testuale - “pensate solo in relazione al lavoro privatoe dunque non sono estensibili all’impiego pubblico contrattualizzato, tipicizzato dalla inderogabile disciplina del D. Lgs.1501/2009; c)la inconciliabilità del “nuovo” art.18 con le norme del procedimento disciplinare di cui al D. Lgs 165/2001 (legge quadro del pubblico impiego).


Insomma si afferma il principio che la modulazione delle tutele per l’impiego pubblico contrattualizzato richiede una ponderazione di interessi del tutto specifica e diversa rispetto al lavoro privato.


Ne deriva un’altra conclusione importante sancita dalla Corte: il rinvio alla futura “armonizzazione” non significa, stante l’assetto normativo predetto, la possibilità futura di estensione della legge Fornero al pubblico impiego con riguardo all’art.18: se e quando si dovesse procedere alla suddetta “armonizzazione” , non sarà comunque possibile estendere la detta “riforma Fornero” dell’art.18 al settore pubblico. Ciò perché, sempre secondo la Corte, il rinvio alla nuova normativa di armonizzazione pubblico-privato “nasce limitato” dalla normativa specifica sul pubblico impiego che, appunto, ha inteso escludere in ogni caso, una tutela diversa da quella reale nelle ipotesi di licenziamento illegittimo, peraltro a prescindere dal numero di dipendenti. In altri termini, sotto il profilo giuridico, l’abolizione del diritto di reintegra ex art.18 può riguardare solo il settore privato, non anche quello pubblico.


Ma il punto fermo sotto il profilo sociale e politico è che questa barbarie giuridica, cioè l’essere privati del reintegro pur essendo stati licenziati illecitamente, è da respingere al mittente sia per il lavoratore privato sia per il lavoratore pubblico. Le conquiste parziali ed immediate ottenute dai lavoratori, nel creare una barriera giuridica contro i licenziamenti hanno consentito di inserire nell’ordinamento – ancorché borghese – delle tutele particolari per i lavoratori subordinati. Così nello stesso ordinamento borghese alcuni principi giuridici conquistati come sottoprodotto delle lotte, assurgono anche ad una sorta di “confessione” del capitalismo rispetto alle sue stesse ingiustizie: nel diritto del lavoro è infatti divenuto principio consolidato che l’uguaglianza, pur sancita formalmente, non corrisponde alla realtà, sicché l’operaio e il padrone formalmente uguali di fronte alla legge, non lo sono di fatto, essendo il secondo, individualmente preso, in stato di soggezione rispetto al potere economico e politico del secondo.


In tal senso il populismo grillino, al motto di “uno vale uno”, sottende l’avversità borghese all’unità sindacale e politica della classe avversa, unica che può dare forza ai lavoratori, e magari propugna l’estensione del licenziamento arbitrario al pubblico impiego per eliminare quella che considera in quanto tale “una zavorra” per la società (insieme ai pensionati), recuperando risorse in favore delle piccole e medie imprese, ma sempre in danno ai lavoratori ed alla povera gente. D’altro lato, se nel pubblico impiego, per le suddette peculiarità giuridiche del rapporto, vi possono essere maggiori tutele rispetto al lavoro privato, il problema semmai è quello estenderle a quest’ultimo, non di abbatterle per il primo. E va smentito l’assunto, falso ma passato come senso comune, della assoluta “non licenziabilità e irresponsabilità” del pubblico dipendente. La pubblica amministrazione è piena di casi di mobbing, ritorsioni, discriminazioni, arbitrari processi disciplinari, su cui si paventano licenziamenti illeciti per meri fini persecutori, verso lavoratori “rei” solo di fare il proprio dovere verso l’interesse sociale, cercando di impedire o rivelando piccoli e grandi abusi di potere e ruberie, perpetrati dalle varie camarille borghesi che saccheggiano l’erario e l’ambiente; o solo perché è invisa al potere la loro militanza politica e sindacale. Anche l’uso arbitrario-clientelare degli “incentivi” e degli incarichi di responsabile di servizio o dirigenziale conferiti intuitu personae (cioè derivanti dall'affidamento a elementi discrezionali e parziali, derivanti da valutazioni di natura personale),consentiti dalla americanizzazione aziendalistica della P.A. avutasi con la controriforma di Bassanini, rappresentano uno strumento di asservimento del dipendente pubblico al potere borghese nell’ambito delle strutture della P.A., di clientelismo e corruttele. Ed è evidente che il licenziamento illecito ed arbitrario senza possibilità di reintegro del pubblico dipendente rafforzerebbe tale potere di ricatto da parte delle camarille borghesi, “legali” o mafiose, che saccheggiano le pubbliche risorse, devastano l’ambiente e la società, tra enti locali, regioni e apparati statali.


Inciso: la difesa legale di un lavoratore pubblico da ritorsioni e licenziamenti arbitrari potrebbe appigliarsi al concetto di “imparzialità e buon andamento della P.A.”di cui all’art.97 della Costituzione, richiamato dalla Corte solo per “necessità tecnica”, non di certo per la finzione giuridica ed illusoria dello Stato come entità imparziale al di sopra delle classi.


Nel contempo è evidente che la ricerca del potenziamento quali-quantitativo dei servizi pubblici sotto il controllo sociale dei lavoratori, inclusa la rimozione di alcune sacche di parassitismo e del “servilismo burocratico” verso i potenti, va esattamente nella direzione opposta a quella del taglio, dello smantellamento e della privatizzazione del servizio pubblico.


Su queste basi, la divisione e la guerra tra lavoratori privati e pubblici che il capitale tenta di innestare anche sulla questione della mancata estensione del nuovo regime dell’art.18 al settore pubblico, va respinta al mittente. Ogni abbattimento dei diritti dei “lavoratori privati” è l’apripista per l’attacco ai lavoratori pubblici, e viceversa.


Ma anche qui il compito da svolgere è quello di unire ciò che il capitale divide: la lotta per il ripristino del precedente art.18 nel settore privato e per la sua difesa nel settore pubblico, con cui semplicemente si afferma per tutti i lavoratori e senza limiti riferiti al numero di dipendenti, il diritto di reintegro in caso di licenziamento illegittimo,rappresenta un terreno di costruzione dell’unità tra lavoratori privati e pubblici, unitamente alla difesa ed al potenziamento servizi pubblicidal saccheggio delle privatizzazioni.


La classe operaia deve invertire la direzione di arretramento, riconquistare la propria unità, la coscienza del proprio ruolo rivoluzionario, ed assumere la direzione delle lotte di tutto il mondo del lavoro e di tutti gli sfruttati. Incluse le lotte dei lavoratori pubblici. Legando queste battaglie immediate e parziali, tutte, alla necessità di rovesciare la minoranza di banchieri e capitalisti che, travolti dalla crisi del loro sistema, cercano disperatamente di rimanere a galla anche saccheggiando ciò che rimane dei servizi pubblici e delle tutele come l’art.18, nella prospettiva di ricostruire i servizi pubblici in un contesto di radicale riorganizzazione dell’economia e della società su nuove basi, quelle socialiste.


Il Partito Comunista dei Lavoratori è nato e lavora per questa prospettiva.







(1) Oltre che le illegittimità del licenziamento nel merito, anche le violazioni di forma o di procedura non comportano più il diritto al reintegro; si tratta dei licenziamenti privi di motivazione ex art. 2, comma 2 legge 604/66, dei licenziamenti posti in essere con violazione della procedura disciplinare di cui all’art.7 legge 300/70 e della procedura per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 7 legge 604/66.


Tiziano Di Clemente

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