Dalle sezioni del PCL

Il reddito di cittadinanza è l'oppio dei popoli

L'unica risposta alla disoccupazione è la diminuzione delle ore di lavoro a parità di salario.

2 Luglio 2013

L’intenso dibattito e le mobilitazioni di lotta anche significative, intorno al tema di un reddito sganciato dal lavoro, hanno ormai quasi un secolo di storia. Alla fine degli anni 60, quando il boom economico postbellico conosceva un primo declino, nei paesi anglosassoni (Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles, etc..), nei paesi scandinavi (Norvegia, Danimarca, Svezia,etc...) e in altri paesi (Belgio e Francia) si aprì un largo dibattito e si realizzarono strumenti d’intervento legislativo che avevano come oggetto il sostegno - alla condizione di disoccupazione di fasce minoritarie ma crescenti - della popolazione in età lavorativa (18-65 anni). A dire il vero però, già in epoca assai precedente si era affrontato l’argomento. Infatti, durante la crisi negli Usa seguita al crollo del mercato borsistico del 29, e nelle misure comprese nell’arcinoto New Deal roosveltiano, è possibile riscontrare le radici del dibattito che poi è giunto fino ai giorni nostri e anche le prime misure concrete di reddito minimo garantito. Da questa breve introduzione di carattere “storico”, ci è già possibile comprendere un dato importante, anche se ovvio per alcuni. Il dibattito intorno a forme di reddito di cittadinanza o di salario minimo garantito (vedremo più avanti che sono “strumenti” diversi) e la loro parziale realizzazione in taluni paesi, è avvenuto sempre in periodi di marcata crisi produttiva e di conseguente recessione economica. Da qui, una prima constatazione oggettiva. Sono misure pensate per “preservare” il sistema disinnescando un potenziale di rivolta e per favorire la domanda interna, non certo per garantire il benessere dei cittadini.
Facevamo prima cenno al fatto che parlare di reddito minimo garantito o di reddito di cittadinanza, è parlare in realtà di strumenti sostanzialmente diversi tra loro. Infatti, mentre il reddito minimo garantito è una cifra mensile che lo stato elargisce al disoccupato in possesso di alcuni requisiti, il reddito di cittadinanza è invece, un complesso di prestazioni che insieme ad una cifra mensile (normalmente assai modesta), comprende anche servizi pubblici gratuiti o a tariffe ridotte (istruzione, casa, trasporti, sanità, cultura nelle realtà più evolute). Si tratta di una distinzione di una certa rilevanza, in quanto allude al concetto della cittadinanza attiva e pone il problema dell'esclusione sociale, conseguenza probabile di simili misure. Si noti che abbiamo fin qui usato la definizione di reddito minimo garantito, in luogo del “marchio” ben più famoso di salario minimo garantito, rivendicazione storica di alcuni movimenti antagonisti italiani. Nella gran parte del resto d'Europa infatti, con salario minimo garantito viene indicato il salario sotto il quale non è lecito corrispondere una prestazione lavorativa e spesso, è stabilito anno per anno con apposita legge. Dunque, onde evitare fraintendimenti è più opportuno parlare di reddito minimo garantito. A questo punto, a rischio di risultare da un lato tediosi e dall'altro sicuramente approssimativi, ci sembra opportuno ricordare il ruolo del lavoro salariato in una società capitalistica. Il lavoro, ha un ruolo decisivo nella valorizzazione del capitale anzi, senza lavoro non esiste proprio valorizzazione. Sotto il capitale, il lavoro è una merce con un suo prezzo che come qualsiasi altro prezzo, è deciso dall'incontro della domanda e dell'offerta. Basta ricordare questa formula economica per sfatare il mito della piena occupazione, in una società capitalistica. Negli anni 90 in Usa, in un periodo di relativa ripresa produttiva, bastava rendere pubblico il dato decrescente del tasso di disoccupazione per determinare crolli borsistici. La ragione era ovvia. Tanto più si assottigliava l'esercito della manodopera di riserva (come Marx definiva i disoccupati), tanto più il costo del lavoro era potenzialmente destinato ad aumentare. Dunque al capitale la disoccupazione serve eccome, ma è normale che un eccesso crea al sistema i problemi a cui prima abbiamo fatto cenno. Oggi, specie in occidente, si è portati a ritenere che nell'ultimo decennio il fenomeno della disoccupazione abbia subito un forte incremento il che è vero, ma appunto, solo in occidente. Infatti, se consideriamo che ormai è il mondo il luogo della produzione, su questa scala dobbiamo invece registrare una crescita significativa della popolazione lavoratrice (dati O.N.U.). Dunque, è più corretto affermare che il lavoro si è spostato in cerca di manodopera a più basso costo e a minor contenuto di diritti. La crisi drammatica, perché crisi strutturale di sovrapproduzione, ha poi fatto il resto.
Nel dibattito serrato di questi anni tra economisti borghesi, si sono sentite le tesi e le analisi più diverse ma tutti, senza eccezioni, alla fine concordano su un punto: bisogna intervenire in ogni paese per abbassare il costo del lavoro. Gli spread, i buchi nei pubblici bilanci e le altre diavolerie di un sistema marcio, sono il corollario ideologico indispensabile al raggiungimento del vero obiettivo che è: colpire i lavoratori, il loro salario e i loro diritti. Ovvio che per garantire il suo margine di plusvalore e possibilmente accrescerlo, il capitalista può solo ritagliare il costo del lavoro, cosa che puntualmente sta avvenendo. Se questo è lo scenario che abbiamo sotto gli occhi, a che punto si colloca in questa fase, la richiesta di un reddito garantito o di un reddito di cittadinanza? In una posizione assai diversa anche rispetto al recente passato. E' un fatto che se le retribuzioni non si adeguano da anni al costo della vita (si pensi al pubblico impiego), il rinnovo dei contratti avviene costantemente in perdita determinando salari scarsi per la gran parte della classe lavoratrice, quale potrà mai essere l'entità di un reddito sociale in una simile situazione? Risulta scontato che per banali ragioni di convenienza, il reddito di cittadinanza dovrà essere sensibilmente più basso del più basso dei redditi da lavoro dipendente.
Se come avviene oggi, più frequentemente di quel che si pensi, ci sono “regolari” stipendi che non superano la soglia degli 800 euro, si capisce perché nel disegno di legge depositato in parlamento dal Movimento 5 Stelle il reddito sociale ipotizzato venga fissato a 600 euro. Dismessi gli abiti del guru comiziante che prometteva mille euro a tutti, il politico Grillo, ha rivisto al ribasso la stima del reddito eventualmente da garantire, evitando per altro di chiarire il modo col quale s'intendeva finanziare l'intero provvedimento. Dal momento che in più di un occasione il comico ha chiamato in causa l'Inps come ente gestore dell'eventuale sussidio, è probabile che Grillo immagini di pagare una parte dei sussidi con i contributi previdenziali dei lavoratori dipendenti. Non sarebbe certo una cosa di cui stupirsi, per uno che considera milioni di lavoratori pubblici come dei parassiti (percettori già di un sussidio sociale secondo il comico), o che esulta alla chiusura di insediamenti produttivi(come nel caso del Sulcis o di Taranto). In definitiva però, Grillo fa il suo mestiere. Ha tirato fuori questa, come altre rivendicazione anche in contraddizione tra loro, al solo scopo di raccogliere il maggior numero di consensi ben sapendo che mai, sarebbe stato chiamato a realizzare davvero ciò che andava promettendo nello tzunami tour.
Se però milioni di persone considerano il tema del reddito garantito non come mero strumento di propaganda ma al contrario, come rivendicazione urgente e concreta, non ce la possiamo cavare denunciando a ragione le falsità e le ambiguità altrui. Come qualsiasi altra misura immediata tesa a migliorare la condizione di vita di milioni di lavoratori, anche il reddito garantito, è di per se una proposta interessante e bisogna assolutamente interloquire con i singoli o i gruppi che portano avanti questa rivendicazione. Ma bisogna farlo a partire da un onesto e sincero confronto che sciolga tutti i nodi della questione. Per parte nostra, restiamo convinti che in una fase come quella che viviamo, nella quale il capitale non ha nulla da offrire ma tutto da togliere, ben difficilmente un movimento per quanto forte, possa strappare un risultato che vada oltre l'elemosina sociale del tipo della vergognosa social card di epoca berlusconiana. Diverso sarebbe il caso di un movimento di lotta ampio e radicale che da una posizione di forza imponesse al sistema misure urgenti e straordinarie.
Ma se questo ipotetico movimento, del quale al momento non si scorgono nemmeno i presupposti, per restare all'ipotesi, avesse accumulato una forza tale da convincere lo stato della borghesia ad una misura tanto onerosa, perché mai dovrebbe accontentarsi di un provvedimento tanto parziale? Varrebbe a quel punto la pena di avanzare l'unica proposta in grado davvero di modificare l'intero scenario del lavoro nel nostro paese.
Ci riferiamo, alla diminuzione generalizzata e per contratto dell'orario di lavoro a parità di salario, fino al riassorbimento totale della disoccupazione. Questa rivendicazione storica del movimento operaio internazionale, è ancora oggi l'unica misura di giustizia sociale in grado potenzialmente di mobilitare l'intera classe lavoratrice. Lavoratori e disoccupati, giovani e anziani sarebbero tutti favoriti da una rivendicazione che unirebbe anzi che dividere. Tra tutte, il potenziale di aggregazione che la battaglia per la riduzione a parità di salario dell'orario di lavoro riuscirebbe a suscitare, ce la fa preferire a qualsiasi altra. Non più di quindici anni fa, sull'uso distorto e strumentale di questa rivendicazione, Bertinotti aveva prima fatto le sue fortune e poi il presupposto per il suo giusto declino. Ma al netto dei tradimenti e dei miserabili opportunismi, anche all'epoca questa battaglia era riuscita a mobilitare centinaia di migliaia di lavoratori. Si parlava allora di una riduzione a trentacinque ore settimanali, oggi si può tranquillamente pensare alle trenta ore e in alcuni comparti anche meno. Nessuno sarebbe escluso, nessuno sentirebbe il peso di essere assistito. Tanti obietteranno che un provvedimento come la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario prefigura in realtà un altro sistema sociale. E' un eccezione che ci sentiamo di accogliere. Deve essere per questo che ci piace così tanto.

In conclusione, vorremmo trasmettere a chi leggerà questo contributo l'urgenza che noi stessi avvertiamo. Questi discorsi, nella realtà narcotizzata dell'Italia delle larghe intese possono sembrare pura teoria ma è possibile che a breve saremo tutti chiamati a dare contributi al momento impensabili.

Marco Di Pietrantonio - PCL Abruzzo

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