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Né pacifisti, nè stalinisti. Contro la guerra, da comunisti rivoluzionari   CONTRO L'INTERVENTO IMPERIALISTA, MA DALLA PARTE DELLA RIVOLUZIONE LIBICA

25 Marzo 2011

 
L'intervento imperialista in Libia, nel contesto della rivoluzione araba, fornisce uno spaccato illuminante di posizioni a confronto nella sinistra italiana.
 
Come PCL lavoriamo naturalmente per il più ampio fronte unico di forze contro l'intervento militare, a favore dello sviluppo di un vero movimento di massa . Ma dentro la costruzione del movimento riteniamo essenziale evitare ogni forma di rimozione politica delle divergenze esistenti. Sapendo che esse non riguardano solo un problema specifico di “politica internazionale” ma, in ultima analisi, la stessa natura dei programmi di fondo che si perseguono.
 
La “guerra di Libia” mette a confronto, in estrema sintesi, quattro posizioni diverse a sinistra.
 
 
QUATTRO POSIZIONI A CONFRONTO: INTERVENTISMO UMANITARIO, PACIFISMO, NEOSTALINISMO, MARXISMO RIVOLUZIONARIO
 
Una prima posizione si barcamena tra l'interventismo umanitario e il pacifismo. E' il caso di Nichi Vendola e di SEL. Si tratta di una posizione aperturista verso la risoluzione 1973 dell'ONU ( che ha aperto la via all'intervento armato), ma al tempo stesso formalmente “prudente”.. sull'uso delle armi. E' il tentativo di conciliare l'inconcialibile: l'imperialismo e l'attenzione umanitaria. Ma soprattutto la corsa al premierato del centrosinistra e i voti pacifisti. L'aspirante Premier del Centrosinistra deve mostrarsi sufficientemente “statista” da riconoscere l'Onu e le sue disposizioni di guerra, ma anche sufficientemente scaltro da apparire contrario alla guerra. Sufficientemente “responsabile” agli occhi di un PD che vota la guerra ( salvando Berlusconi), ma anche sufficientemente “pacifista” per insidiargli i voti. Siamo per l'appunto al triste replay del bertinottismo (voto alle missioni di guerra ma con la spilletta della “pace”), seppur mascherato oggi dall'assenza in Parlamento.
 
Una seconda posizione  è di carattere “trattativista” pacifista. E' il caso della Federazione della Sinistra ( Diliberto Ferrero Salvi Patta). Si tratta di una posizione sicuramente contraria all'intervento di guerra in Libia, ma nel nome di una soluzione “diplomatica” del “contenzioso interno libico”. In altri termini di una soluzione di “pace” tra Gheddafi e gli insorti, o di una imprecisata “transizione democratica” assistita dalla “diplomazia internazionale”. E' una posizione che nel nome della “non violenza” o pone di fatto sullo stesso piano la violenza degli oppressori e la violenza degli oppressi , la rivoluzione libica e la controrivoluzione del regime; e/o ripropone l'eterna illusione su una possibile “neutralità” dell'Onu e delle istituzioni internazionali dell'imperialismo.  Nel migliore dei casi, condanna formalmente la natura oppressiva del regime libico, ma non sostiene l'insurrezione armata per rovesciarlo.  E' l'eterna riproposizione di un pacifismo al di sopra della storia e della realtà( tranne quando si  ottengono ministeri e si votano le guerre imperialiste). Ma anche sufficientemente presentabile al centrosinistra e ai suoi salotti borghesi per cercare di non essere scaricati dalle alleanze elettorali amministrative e dalla auspicata “Alleanza democratica” col PD e la UDC, partiti di guerra.
 
Una terza posizione si attesta sul sostegno politico ( a volte critico, a volte no) a Gheddafi e al suo regime. E' il caso della composita area neostalinista italiana. Si tratta di una posizione fortemente contraria all'intervento imperialista- di cui denuncia anche correttamente finalità e ipocrisia- ma nel nome della difesa di un regime “antimperialista” e della sua tradizione, in perfetto allineamento con le posizioni di Chavez e di Castro. E' una posizione che non solo rimuove la realtà del regime confondendola con la sua propaganda, ma anche la realtà della rivoluzione, presentata come insorgenza tribale. Nella sua versione più ricercata e meno “gheddafista” ( Rete dei Comunisti) rappresenta la vicenda libica come una spiacevole guerra civile fra tribù, tra cui occorrerebbe mettere pace grazie a una intermediazione diplomatica di Stati (borghesi) arabi e africani. Nei fatti è la ricopiatura della proposta Chavez, interessato esclusivamente a salvaguardare le buone relazioni economiche e diplomatiche con Gheddafi ( come col regime iraniano). Si tratta della conferma di una posizione generale che sostituisce la storia reale della lotta di classe e delle lotte dei popoli oppressi con la relazione tra campi statuali: ieri la burocrazia dell'URSS, oggi più modestamente il regime bolivariano. La rivoluzione reale naturalmente , può aspettare, a vantaggio della sua (variabile) rappresentazione mitologica.
 
La quarta posizione è quella del marxismo rivoluzionario: che combina l'opposizione più radicale all'intervento imperialista col sostegno alla rivoluzione libica, nell'ambito della più generale rivoluzione araba. E' la posizione del Partito Comunista dei lavoratori. In quanto rivoluzionari, partiamo sempre dalla distinzione elementare tra oppressi ed oppressori, ad ogni latitudine del mondo. In quanto rivoluzionari sosteniamo ogni movimento degli oppressi contro gli oppressori, quali che siano le sue contraddizioni e i suoi limiti. In quanto rivoluzionari cerchiamo di intervenire in ogni movimento degli oppressi  per ricondurre le sue ragioni alla prospettiva della rivoluzione socialista, su scala nazionale e internazionale.  Questa è la base generale di definizione del nostro posizionamento nei processi storici reali e nelle loro dinamiche,  spesso molto complicate. Questo è il nostro metodo d'approccio alla vicenda libica.
 
LE DIFFERENZE TRA LA RIVOLUZIONE LIBICA E LA RIVOLUZIONE TUNISINA ED EGIZIANA
 
La rivoluzione libica è un fatto reale, inseparabile nel suo stesso innesco dal processo più generale della rivoluzione araba, iniziato in Tunisia e in Egitto.
Certo la rivoluzione libica ha avuto ed ha una dinamica diversa da quella tunisina ed egiziana. Ma non perchè “il regime di Gheddafi non è poi tanto male”, “le masse libiche stanno meglio che in Tunisia e in Egitto”, ci sono forme di “democrazia popolare” ecc.ecc., come afferma, con involontaria e tragica ironia, la vulgata neostalinista. Ma per ragioni esattamente opposte.
 
Il regime di Gheddafi ha una natura ben più totalitaria e dispotica dei regimi di Ben Alì e Mubarak. In Tunisia e in Egitto regimi bonapartisti e corrotti tolleravano forme recintate di “opposizione” politica e una parziale dialettica sindacale, sia pur limitata e controllata. Ciò che ha favorito l'utilizzo di canali organizzati nell'ascesa rivoluzionaria (pensiamo al ruolo del sindacato Ugtt in Tunisia o ,in forma molto minore, dei sindacati indipendenti in Egitto). In Libia il regime ha ciclicamente eliminato manu militari ogni ombra di opposizione interna, ha espunto ogni spazio di dialettica sociale e sindacale,  ha costruito una rete capillare di controllo sociale attraverso la polizia diffusa di regime ( i cosiddetti comitati rivoluzionari).
 
In Tunisia e in Egitto esistevano ed esistono eserciti nazionali potenti, certo più subordinati, nei loro vertici, all'imperialismo ma anche più esposti, nelle loro fila, al contagio popolare  della pressione di massa. In Libia l'esercito nazionale ha avuto ed ha un corpo assai limitato, a fronte di una potentissima milizia privata del Rais, come struttura separata di regime, largamente impermeabile alla società libica, e organicamente dipendente dalla famiglia Gheddafi. Cui si aggiunge una presenza di milizie mercenarie direttamente acquistate dal Colonnello in Centro Africa ( spesso con la significativa intermediazione sionista, come hanno documentato, non senza imbarazzo, il Messaggero e il Mattino).
 
In Tunisia e in Egitto, esisteva ed esiste una consistente classe operaia industriale autoctona, non a caso protagonista determinante in entrambi i casi del processo rivoluzionario. In Libia una classe operaia industriale libica è estremamente limitata : mentre è molto presente un proletariato d'importazione, proveniente da altri paesi arabi (Tunisia ed Egitto innanzitutto) ma anche dall'Asia, dal Sudan, dal Ciad, dal cuore dell'Africa nera, ridotto ad uno stato semischiavile ( con grande vantaggio per le “democratiche” aziende occidentali), e politicamente depotenziato dalla propria condizione.
 
E' sufficiente tutto questo per capire le maggiori difficoltà della rivoluzione libica, e le sue indubbie particolarità? Peraltro proprio questo contesto misura tanto il carattere eroico dell'insurrezione di Bengasi e in tante altre città della Cirenaica e della Tripolitania, quanto la sua immediata traduzione in contrapposizione militare e guerra civile ( col passaggio determinante di settori dell'esercito agli insorti). E viceversa: chi si ostina a negare l'esistenza di una rivoluzione popolare contrapponendole la categoria della “guerra civile”, non solo ignora la storia del rapporto tra guerre civili e rivoluzioni ( v. il nostro testo “dalla parte della rivoluzione libica”), ma rimuove la dinamica concreta di una vicenda libica in cui l'unica forma concreta di rivoluzione popolare- nella condizioni imposte dalla natura del regime- era esattamente la guerra civile. Per cui chi respinge inorridito la guerra civile in Libia di fatto respinge ..la rivoluzione popolare contro Gheddafi. Che è esattamente la conclusione degli stalinisti.
 
Né vale il riferimento alla cosiddetta “guerra tribale”, per negare la rivoluzione. Naturalmente in Libia è ben presente la vecchia rete tribale ed è indubbio che anche elementi tribali siano confluiti nella sollevazione popolare contro Gheddafi ( come del resto storicamente in numerosi movimenti di massa anticoloniali o di ribellione sociale,  in particolare in Africa). Ma è totalmente falso, nel merito, ridurre l'insurrezione popolare al gioco tribale. In un certo senso è vero l'opposto. E stato il regime di Gheddafi ad aver largamente preservato la struttura tribale della società libica in funzione della propria autoconservazione, attraverso il rapporto diretto con i capi clan. Ed ancora oggi è Gheddafi ad appellarsi ai capi tribù per lanciare un appello di “pacificazione” contro la rivoluzione (v. la cosiddetta “marcia della riconciliazione”). Ed è invece proprio la rivoluzione popolare ad aver avuto un parziale effetto dissolvente e di scomposizione dei vecchi assetti tribali, coinvolgendo una gioventù ribelle largamente estranea alla tradizione, e unificando trasversalmente settori di massa della più diversa provenienza tribale attorno alla comune rivendicazione democratica del rovesciamento del regime. Peraltro la composizione del Consiglio della rivoluzione a Bengasi non segue affatto un criterio tribale, al punto da annoverare al proprio interno elementi della tribù di Gheddafi ( tribù Qadafi).
 
LE NECESSITA' PARTICOLARI  DELL'INTERVENTO IMPERIALISTA IN LIBIA
 
Peraltro  proprio la natura particolare del contesto libico spiega l'intervento militare delle potenze imperialiste. Non tutto è spiegabile semplicemente con le ricchezze petrolifere della Libia, che pur hanno un peso importante nelle scelte dell'imperialismo. Molto ha a che fare con la natura delle forze in gioco e della stessa guerra civile.
 
In Tunisia e soprattutto in Egitto, l'imperialismo aveva ed ha interessi enormi, sia di carattere economico, sia di natura strategica e militare. Eppure non ha mai neppure ipotizzato un intervento diretto. Per quale ragione? Sicuramente per l'imponenza di una sollevazione popolare che sconsigliava ogni avventura: tanto più in virtù del suo trascinamento, in varie forme, in tutta la nazione araba. Ma anche per un secondo fattore: il fatto che in entrambi i paesi e soprattutto in Egitto l'imperialismo disponeva e dispone di leve potenti nei rispettivi apparati statali ( in particolare militari) e di indubbi legami con parte delle leaderschip delle rivolte.
 
Questo fattore è o assente o assai  ridotto in Libia. Il cuore dell'apparato militare libico è polizia privata di regime, data la tradizionale marginalità dell'esercito. La guida della rivoluzione ( Consiglio nazionale di transizione) è un coacervo improvvisato e semisconosciuto di elementi contraddittori e disparati ( ex ministri di Gheddafi, generali scissionisti, islamici, giovani blogger), senza legami organici pregressi con gli ambienti occidentali ( e tra loro). L'imperialismo non poteva affidarsi passivamente a questa leaderschip.  Solo un intervento militare diretto  poteva consentire all'imperialismo un entratura nella partita libica ( e per questa via un più ampio potere di condizionamento sull'intero quadro del Maghreb e della nazione araba in ebollizione, contro la rivoluzione libica ed araba). Il che naturalmente non risparmia all'imperialismo – come vediamo- lo scotto delle proprie contraddizioni interne circa la ripartizione della torta.
 
In questo quadro la nostra posizione è molto netta: siamo contro l'intervento militare imperialista- e innanzitutto del nostro imperialismo- ma dal versante della rivoluzione libica, non di Gheddafi o di un indistinta “pacificazione”( immaginabile solo se pilotata dall'imperialismo nei suoi propri interessi e contro la rivoluzione)
 
CONTRO L'IMPERIALISMO, MA DA RIVOLUZIONARI
 
“Ma come? Come fate a stare contro l'imperialismo e al tempo stesso dalla parte degli insorti che plaudono all'intervento imperialista”? L'obiezione sembra pertinente. E invece ignora la realtà e la complessità della rivoluzione. Peraltro non nuova nella storia: basti pensare, tra i tanti esempi disponibili, al rapporto tra insurrezione partigiana e truppe imperialiste “alleate” nell'Italia del 43-45 ( Dove la politica criminale di subordinazione del movimento partigiano al quadro nazionale e internazionale della “democrazia imperialista” e delle sue forze militari- imposto da Stalin e da Togliatti- certo non poteva motivare alcuna posizione neutrale o “pacifista” nella guerra civile antifascista: ma doveva essere semmai contrastata proprio nel nome dell'autonomia del movimento partigiano  e dello sviluppo della rivoluzione socialista in Italia, in aperta contrapposizione agi imperialismi “democratici” ).
 
E' vero: a fronte di un rapporto di forze militari assolutamente impari, e segnati da una clamorosa impreparazione e disorganizzazione ( altro che complotto preordinato !) , non solo la leaderschip di Bengasi ma la stessa massa degli insorti libici ha salutato l'intervento imperialista come la propria salvezza: quella delle proprie famiglie, e, illusoriamente, della propria “rivoluzione”. Chi può francamente meravigliarsi di questo?
E' semmai importante notare che nei giorni iniziali dell'ascesa insurrezionale, la stessa direzione della rivolta e a maggior ragione il senso comune della sua base di massa, non solo non avevano invocato l'intervento occidentale, ma l'avevano ripetutamente e pubblicamente scongiurato: “La rivoluzione è nostra, non dello straniero”. Qualsiasi intervento occidentale era stato pubblicamente avversato. Ma quando la situazione al fronte si è complicata e poi capovolta, con l'avanzata travolgente della controrivoluzione, la disperazione ha indotto un atteggiamento diverso. Questo fatto chiarifica un punto d'analisi molto conteso. Non la fantomatica “preparazione orchestrata” della rivolta libica ( come vorrebbe la dietrologia stalinista) ma la sua assoluta improvvisazione e impreparazione militare e politica- unite all'assenza di un soccorso rivoluzionario egiziano e tunisino- ha aperto il varco all'inserimento imperialista. E questo intervento mira non al sostegno della rivoluzione- quali che siano le illusioni degli insorti- ma alla sua rimozione: condizione decisiva per recuperare un proprio controllo imperialista sulla Libia in funzione dei propri interessi ( tra loro contrastanti).
 
Questa situazione non solo non giustifica un disimpegno dal sostegno all'insurrezione libica ( in direzione della “pace” o di Gheddafi) ma suggerisce una politica esattamente opposta: un intervento di più marcato sostegno rivoluzionario alla rivoluzione libica, contrastando ogni tentativo di subordinarla agli interessi imperialisti, e spingendola verso un chiaro programma di democrazia conseguente e di emancipazione sociale.
Di più: solo questa svolta può preservare l'autonomia della rivoluzione libica dalle ingerenze imperialiste e consentire un rilancio della sollevazione popolare.
 
DARE UN PROGRAMMA RIVOLUZIONARIO ALLA RIVOLUZIONE LIBICA
 
In primo luogo va posta l'esigenza di un sostegno militare agli insorti da parte della rivoluzione tunisina ed egiziana.
L'assenza   di questo soccorso- riflesso dei limiti attuali delle rivoluzioni arabe e della natura delle loro direzioni- ha pesato enormemente sulla dinamica degli avvenimenti libici: favorendo sia l'intervento imperialista, sia l'appoggio a tale intervento da parte di ampi settori della rivoluzione. E' urgente una svolta, certo difficile, ma necessaria. Milioni di lavoratori e di giovani egiziani e tunisini guardano con favore la rivoluzione libica, vedendola ,giustamente, come un prolungamento della propria rivoluzione. Settori di soldati ed ufficiali democratici dell'esercito, sia in Tunisia che in Egitto, simpatizzano per gli insorti libici. L'esperienza degli aiuti umanitari lungo la frontiera tunisina, o episodi ripetuti di rifornimento informale di armi lungo la frontiera egiziana ( ormai aperta), sono al riguardo indicativi. Questa disponibilità va raccolta e organizzata a livello più alto. I rivoluzionari tunisini ed egiziani, le sinistre coerentemente democratiche in entrambi i paesi, possono rivendicare la formazione di “brigate internazionali arabe” a sostegno degli insorti libici, il loro addestramento, rifornimento, inquadramento militare, col coinvolgimento indispensabile di quadri militari dei rispettivi eserciti. E' una rivendicazione che sarebbe duramente osteggiata dai governi nazionali borghesi di Tunisia ed Egitto, e ancor più dall'imperialismo. Ma troverebbe ampio ascolto in migliaia di giovani, rafforzerebbe la coscienza internazionale della rivoluzione araba,  incoraggerebbe nella stessa Libia quei settori della rivoluzione che diffidano dell'intervento imperialista ma non vedono una prospettiva alternativa.
 
Ma un secondo aspetto è decisivo: una svolta coerentemente democratica e sociale nel programma della rivoluzione libica.
 
Lenin e Trotsky hanno sottolineato in molte occasioni non solo che  la rivoluzione può trascrescere in  guerra civile, ma che la guerra civile può vincere solo coi metodi e i programmi della rivoluzione. Così fu, a positivo, in URSS, negli anni di guerra civile successivi alla rivoluzione d'Ottobre, quando la bandiera dell'esproprio dei latifondisti e della distribuzione della terra ai contadini fu decisiva per indebolire le retrovie sociali della controrivoluzione e preparare la vittoria dell'esercito rosso. Fu così, a negativo, nella guerra civile spagnola del 36-39, dove la politica controrivoluzionaria dello stalinismo, che bloccò la rivoluzione sociale spagnola reprimendo ferocemente i rivoluzionari, fu il principale fattore della vittoria del generale Franco. In ogni caso l'intera storia delle guerre civili insegna che il peso delle rivendicazioni e delle bandiere sociali costituisce un fattore di prim'ordine sullo stesso terreno dei rapporti di forza militari. Perchè in Libia dovrebbe essere diversamente?
 
L'insurrezione di Bengasi non ha futuro se non si estende alla Tripolitania, riprendendo la sua marcia in avanti. Ma difficilmente potrà riprendere in Tripolitania se non coniuga la forza delle armi con un messaggio rivoluzionario comprensibile e mobilitante agli occhi  del popolo libico,  dei suoi settori incerti ed oscillanti, o addirittura di quelli ancora influenzati e confusi dalla propaganda del regime.
 
Ciò vale intanto sullo stesso terreno democratico. Ad esempio,la chiara rivendicazione di una Assemblea costituente libera e sovrana, con suffragio universale dai 18 anni;  come la rivendicazione di piena eguaglianza e libertà per le donne libiche ,a partire dal loro diritto al lavoro, ( contro il segregazionismo reazionario del Libro Verde) potrebbero esercitare una forte attrazione su più vasti settori di massa della gioventù, e contribuire a rompere e disgregare le obbedienze tribali di clan, a tutto vantaggio della rivoluzione.
 
Ma  ciò vale ancor più sul terreno sociale. Alcuni esempi.
 
Il regime familistico di Gheddafi ha investito le ricchezze del petrolio libico in enormi possedimenti finanziari in occidente, che l'imperialismo vuole congelare nei suoi propri interessi. La rivendicazione del ritiro dei fondi sovrani libici all'estero per la loro distribuzione al popolo libico ( sotto forma di indennità di disoccupazione, di servizi sociali , di migliori stipendi..)sarebbe non solo un atto elementare di giustizia, ma una bandiera popolare da agitare contro il regime ( e contro l'imperialismo).
 
Il regime di Gheddafi ha ceduto all'imperialismo lo sfruttamento delle risorse libiche con contratti spesso favorevoli all'occidente e a danno degli interessi del popolo libico ( lo stesso trattato di amicizia con l'imperialismo italiano è al riguardo esemplare). La rivendicazione del pieno recupero al popolo libico delle sue risorse e la ridefinizione sotto controllo popolare degli eventuali rapporti con compagnie straniere, rappresenterebbe uno straordinario fattore di consenso alla rivoluzione e di disarmo della demagogia “antimperialistica” del regime.
 
Il regime di Gheddafi ha svenduto a centinaia di aziende straniere una manodopera semischiavile importata dall'Africa e dall'Asia: sono settori proletari oggi abbandonati dai loro padroni a seguito della chiusura di molte aziende e spinti alla fuga disperata in Tunisia in assenza di ogni altra prospettiva. Una rivendicazione di esproprio delle aziende straniere, di riorganizzazione della loro produzione sotto controllo popolare, di conseguente garanzia del posto di lavoro per i proletari oggi espulsi o minacciati, potrebbe attrarre dalla parte della rivoluzione un settore sociale prezioso, e oltretutto concentrato soprattutto in Tripolitania.
 
Il regime di Gheddafi ha mantenuto settori di latifondo agrario nelle mani di vecchi clan tribali o di proprietà straniere. La rivendicazione del loro esproprio e di una radicale redistribuzione della terra avrebbe un effetto importante di richiamo su settori di massa contadini, spesso ancora legati al regime per via della mediazione tribale.
 
Si potrebbe continuare. Ma il cuore del problema è uno solo: una radicalizzazione sociale dell'insurrezione militare potrebbe incidere straordinariamente sui rapporti di forza complessivi e dunque sull'esito della guerra civile. La lotta per una prospettiva di governo dei lavoratori e delle masse povere delle città e delle campagne in Libia non è solo il coronamento naturale di un programma democratico e sociale conseguente che solamente un governo popolare può realizzare; ma è anche una bandiera incorporata allo stesso sviluppo della rivoluzione libica.
 
PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DELLA RIVOLUZIONE LIBICA.
PER LA COSTRUZIONE DEL PARTITO RIVOLUZIONARIO
 
Il risvolto naturale di questa impostazione è una linea di assoluta indipendenza della rivoluzione libica dall'imperialismo e dalle sue interessate ingerenze.
 
L'operazione delle potenze imperialiste- in feroce sgomitamento tra loro- è subordinare progressivamente la rivoluzione libica ai propri interessi. A partire da un disegno di progressiva assimilazione e integrazione della leaderschip della rivolta. L'intervento militare è cinicamente utilizzato come fattore di condizionamento politico. La rete crescente di contatti, incontri, relazioni, tra le (diverse) diplomazie imperialiste e singole personalità del Consiglio di Bengasi- con naturale precedenza ai vecchi transfughi dall'apparato di regime e agli alti quadri militari passati con la rivoluzione- ha una finalità politica scoperta: non solo uno scopo di conoscenza e verifica, ma uno scopo di coinvolgimento del gruppo di comando dell'insurrezione nella soluzione politica filoimperialista della crisi libica. Sia che essa passi per una mediazione col vecchio regime ( come vorrebbe ad oggi l'Italia) sia che essa passi per la ricostruzione dell'apparato statale e la ridefinizione delle sue relazioni economiche e politiche internazionali ( come vorrebbe la Francia). In ogni caso è decisivo amputare la rivoluzione di ogni autonomia politica, e tanto più di ogni velleità antimperialista.
 
Una parte importante della leaderschip di Bengasi è più che sensibile a questo richiamo. Ed è naturale. Una sollevazione insurrezionale non si sceglie la propria direzione. Ex ministri di Gheddafi e vecchi comandanti del suo esercito non hanno mutato il proprio profilo per il solo fatto di aver cambiato la collocazione di campo. Il tentativo di mostrarsi a questa o quell'altra potenza imperialista come possibile carta di ricambio su cui investire attenzioni e favori, è già operante: in particolare in direzione della Francia. E quanto più si prolunga e struttura l'intervento militare imperialista in Libia tanto più questa operazione può approfondirsi e consolidarsi. A tutto danno della rivoluzione libica, e ,di riflesso, della rivoluzione araba.
 
Per questo, la costruzione di un'alternativa di direzione della rivoluzione libica è e sarà posta sempre più dalla dinamica degli avvenimenti.
E può essere selezionata solamente da una politica coerentemente rivoluzionaria. Che sappia utilizzare, nel suo proprio interesse, le contraddizioni tra imperialisti e Gheddafi; ma che rifiuti e contrasti ogni subordinazione della rivoluzione agli imperialisti; combatta ogni illusione verso l'imperialismo all'interno delle masse; si opponga alle tendenze filoimperialiste interne all'attuale direzione; coniughi l'impegno militare in prima linea con l'avanzamento di un programma di mobilitazione rivoluzionaria e di autorganizzazione democratica delle masse; inquadri lo sviluppo della rivoluzione libica dentro il processo più generale della rivoluzione araba. Solo un partito rivoluzionario può assolvere alla complessità di questi compiti.
 
LA RIVOLUZIONE ARABA COME SCUOLA DI FORMAZIONE
 
L'esigenza di costruire un partito rivoluzionario, già sollevata dalla rivoluzione tunisina ed egiziana, si conferma dunque nel modo più clamoroso nel contesto della rivoluzione libica. Più in generale, l'intero corso dell'ascesa rivoluzionaria nella nazione araba, l'estendersi del suo contagio in Yemen, le sue prime manifestazioni in Siria, pongono ovunque la questione della costruzione di partiti rivoluzionari e dell'internazionale rivoluzionaria, non come tema accademico ma come necessità politica obiettiva. Lo scarto enorme tra la dinamica accelerata dei processi rivoluzionari nel mondo arabo e il ritardo storico nella costruzione di partiti marxisti rivoluzionari in quelle terre, dopo i disastri compiuti dallo stalinismo, deve motivare un impegno straordinario di lavoro in quella direzione.
 
Di certo la rivoluzione araba, nelle sue varie espressioni e articolazioni, si configura sempre più come un terreno formidabile di formazione politica per i giovani rivoluzionari di tutto il mondo, e per la battaglia politica e programmatica del marxismo rivoluzionario. Anche nei paesi imperialisti, anche in Italia. Di certo il Partito Comunista dei Lavoratori, come partito militante, incorporerà l'esperienza della rivoluzione araba dentro il processo della propria costruzione.
 

MARCO FERRANDO

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