Rassegna stampa

crisi del capitale fittizio, processo di accumulazione del capitale e rapporti di classe

15 Febbraio 2009

CRISI DEL CAPITALE “FITTIZIO”, PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE E RAPPORTI DI CLASSE


La attuale crisi del capitale finanziario è partita dagli Stati Uniti come crisi dei mutui ipotecari “senza adeguata copertura”(cd. mutui “subprime”), si è trasformata, nel corso del 2007, in una crisi del credito, ossia di credibilità/liquidità del sistema finanziario complessivo, ed è inevitabilmente arrivata a ripercuotersi nella sfera della produzione reale, innescando una vera e propria fase recessiva nelle “vecchie” metropoli imperialistiche (USA, UE e Giappone) ed un marcato calo dei ritmi di crescita nelle economie emergenti (Cina, India, Russia, Brasile etc.).
La bolla speculativa che ha avuto origine nel settore immobiliare e che ha innescato la crisi in questione, non costituisce affatto un'eccezione patalogica del sistema di accumulazione capitalistica, ma la regola fisiologica ed ordinaria del suo naturale funzionamento. Il concetto scientifico utilizzato da Marx per analizzare questo meccanismo economico-sociale è quello di “capitale fittizio”, che, in sostanza, è il capitale “cartaceo” (titoli, azioni, obbligazioni, moneta etc.), prodotto dall'espansione della circolazione finanziaria e del credito; da qui, scrive Marx nel “Capitale”, scaturiscono le periodiche “vertigini” dell'illusione di “far denaro senza la mediazione del processo di produzione”.

La “bolla immobiliare” e le sue conseguenze

La “bolla immobiliare” è subentrata alla bolla speculativa sui titoli tecnologici, innescata dal ciclo USA di ristrutturazione/investimento nei settori industriali delle nuove tecnologie di informazione/comunicazione (ITC): la marcata flessione dei ricavi e dei profitti in questi specifici settori (determinata dall'inevitabile fenomeno di sovrapproduzione/sovraccumulazione di capitale), ha prodotto, nel 2001/2002, la “rottura” della connessa bolla finanziaria cresciuta a dismisura proprio sui titoli azionari a contenuto tecnologico (cioè riferibili a società ITC).
Consistenti flussi di capitali defluirono pertanto dai mercati finanziari, riversandosi nell'investimento immobiliare, favoriti dalle politiche dei bassi tassi d'interesse della FED e di riduzione della pressione fiscale del governo americano, per incentivare liquidità, consumi ed investimenti interni.
Il ciclo espansivo asiatico ha peraltro oggettivamente sostenuto tali politiche: ha mantenuto bassa l'inflazione (con esportazioni - soprattutto verso gli USA, ma anche verso l'UE - di enormi quantità di merci a basso prezzo), ed ha finanziato massicciamente il deficit federale, mediante l'acquisto, soprattutto da parte dei fondi sovrani cinesi, dei titoli del debito pubblico americano.
La dinamica è stata abbastanza semplice e vale la pena di riassumerla brevemente: le banche ipotecarie moltiplicarono la concessione di mutui per acquisti immobiliari a soggetti con reddito medio-basso, con scarsa solvibilità e poco capitale da anticipare; la struttura giuridico-contrattuale prevedeva rate basse per i primi due anni, con successivi aumenti del 25-50% e possibilità di rifinanziamento del prestito con un ulteriore mutuo concesso sulla base dell'aspettativa di rivalutazione dell'immobile. La diffusione dei mutui (e dunque del credito e dei capitali liquidi in circolazione) ha, d'altro canto, alimentato, per un quinquennio circa (2001-2006), la crescita della domanda e dei prezzi degli immobili, sostenendo l'aspettativa di rivalutazione degli stessi.
Tuttavia, come ogni fenomeno economico-sociale, il processo non era infinito ed i nodi vennero al pettine tra il 2005 ed il 2006, con l'inevitabile rincaro dei tassi federali ed il connesso aumento dell'interesse sui mutui a tasso variabile, l'insolvenza di molti debitori ipotecari, la saturazione del mercato immobiliare ed il conseguente calo dei prezzi delle case.
Ma il punto cruciale (e completamente nuovo per le sue dimensioni) di tutta la faccenda, è che proprio lo sviluppo del sistema economico-sociale capitalistico (in termini leninisti si direbbe la fase “imperialistica” del capitalismo) ha consentito l'inserimento del contratto di mutuo ipotecario (vincolante strutturalmente ed in origine due parti: la banca prestatrice ed il debitore acquirente) nei circuiti finanziari internazionali, attraverso complesse operazioni di cartolarizzazione del credito sottostante: le banche prestatrici, infatti, hanno “diluito” il rischio di insolvenza cedendo i propri crediti ipotecari “scadenti” a fondi di investimento e banche d'affari, che li hanno “trasformati” in titoli, combinazioni di titoli e strumenti finanziari da allocare e vendere sui mercati internazionali.
Così i mutui “subprime”, originati negli USA, si sono propagati e dispersi nei bilanci dei gruppi bancari ed assicurativi, nonché nei portafogli titoli dei fondi di investimento e dei fondi pensione di tutti i grandi paesi capitalistici; l'interesse ipotecario andava in tal modo ad alimentare una lunga catena di percettori di cedole e, ovviamente, quando il credito ipotecario è divenuto inesigibile alla fonte, i titoli finanziari fondati su di esso, si sono trasformati in “veicoli di panico finanziario”, causa delle esorbitanti perdite dei più importanti gruppi bancari-finanziari, delle svalutazioni a bilancio, dei fallimenti, delle bancarotte e, poi, dei “salvataggi” con i soldi “pubblici”(ma nell'interesse di pochi padroni “privati”), che si sono verificati, nel corso del 2007-2008, negli USA, in Europa, ma anche in Asia (solo per fare alcuni nomi: HSBC, Morgan Stanley, Fanny Mae e Freddy Mac, New Century Financial, Bear Stearns, Lehman Brothers, Goldman Sachs, JP Morgan, Countrywide, American Home Mortgage, UBS, Axa, BNP Paribas, Deutsche Bank, Commerzbank, Allianz, West LB, Natixis, Barclays, IKP, Banca Intesa, Unicredit, Bank of China, etc.).

“Bolla immobiliare”, crisi finanziaria e sviluppo capitalistico

Le profonde correlazioni della bolla immobiliare con il sistema finanziario-creditizio, costituiscono in realtà la piena conferma del più ampio processo di concentrazione/centralizzazione del capitale, della connessa compenetrazione tra capitale industriale e capitale bancario/creditizio (attraverso rapporti di partecipazione societaria reciproca e diffusi/permanenti rapporti di debito-credito), della formazione di grandi gruppi economico-finanziari (cd.“conglomerati” finanziari) operanti sui mercati internazionali delle merci e soprattutto dei capitali, della “finanziarizzazione” dell'economia mondiale (ossia del fenomeno dell'esportazione dei capitali, della “sovraespansione” della sfera finanziaria del sistema economico e dell'accentuazione dei tratti spiccatamente finanziari delle stesse imprese industriali), nonché dei riflessi immediati di tutti i predetti fattori oggettivi sul particolare segmento del mercato (e del capitale) “immobiliare”.
In termini più generali, banche, gruppi finanziari ed assicurativi, società di gestione del risparmio, fondi comuni di investimento, fondi “speculativi”, fondi pensione, sono, nell'attuale fase di sviluppo del sistema economico, i veri protagonisti di questo enorme meccanismo di centralizzazione: essi raccolgono i capitali da privati, imprese ed anche enti pubblici, li accentrano e li convogliano in investimenti azionari, obbligazionari, immobiliari, in strumenti e contratti finanziari di vario genere, agendo su tutti i mercati mondiali (finanziari e non).
Si tratta in sostanza di una fase di marcata “finanziarizzazione del capitale”, caratterizzata dall'enorme sviluppo dei mercati dei capitali, dall'incremento rilevante delle attività finanziarie (investimenti in titoli, azioni, obbligazioni etc.) e dall'acquisizione di una crescente autonomia “egemonica” da parte dello stesso capitale finanziario.
Il fenomeno, come detto, rappresenta l'effetto normale dello sviluppo economico capitalistico ed è generato direttamente dal processo di riproduzione ed accumulazione, che determina ciclicamente “eccedenze” (o “surplus”) di capitale, le quali vengono “valorizzate” dai soggetti detentori (in ragione dei fisiologici cali di redditività degli investimenti nei settori propriamente industriali) nella sfera speculativo-finanziaria, cioè sui mercati finanziari internazionali (nel più ampio quadro oggettivo dell'esportazione/circolazione dei capitali).
Questo comporta indubbiamente un notevole impulso alla progressiva compenetrazione ed interdipendenza tra capitale industriale e capitale bancario-assicurativo, un maggior rilievo (quantitativo e qualitativo) dei connotati e degli elementi (assets) finanziari dei gruppi industriali-commerciali ed una sempre più stretta interconnessione tra attività produttive ed attività finanziarie: non esistono infatti attualmente separazioni nette tra gruppi di imprese industriali e/o commerciali e gruppi finanziari/bancari (e, quindi, tra percettori di profitti e percettori di interessi/rendite); i gruppi capitalistici più concentrati e più forti (ma anche, in una certa misura, i gruppi di media dimensione) operano costantemente sui mercati finanziari, acquisendo titoli societari partecipativi, titoli obbligazionari (privati e pubblici) ed in generale investendo in tutte le attività finanziarie ed intervenendo sui mercati dei cambi valutari (cfr. Maitan L., Finanziarizzazione del capitale: causa o effetto? in Tempeste nell'economia mondiale, Roma, 1998).
Si è parlato, a ragione, di un “regime di accumulazione finanziarizzata mondiale” (cfr. Chesnais F., La mondializzazione finanziaria, 1996), che orienta lo sviluppo del capitalismo determinandone le condizioni di finanziamento (cfr. Aglietta M., Macroeconomia finanziaria, 1995).
Lo sviluppo capitalistico asiatico, ed in particolare la poderosa crescita, nell'ultimo quindicennio, della potenza industriale e commerciale cinese, trainata dall'esportazione di merci a basso costo e da cambi sottovalutati (ma fondamentalmente generata dallo sfruttamento intensivo di un enorme serbatoio di forza-lavoro salariata, strappata all'arretratezza delle campagne e trascinata nella modernità delle fabbriche capitalistiche), ha prodotto un enorme sovraccumulazione di plusvalore e corrispondenti flussi di capitali “eccedenti” in uscita, da riciclare ed investire prevalentemente nella metropoli imperialistica statunitense, la cui industria dei servizi finanziari (grandi banche e Borsa) garantiva la migliore capacità tecnico-oganizzativa di gestione ed allocazione degli stessi flussi sui mercati.
Ma i predetti flussi di capitale (o di risparmio, cioè il cd. “saving glut”) provenienti dalle economie emergenti, sono stati talmente consistenti da non trovare collocazione e rendimenti adeguati nel solo investimento produttivo, “tracimando” quindi negli investimenti puramente speculativi, che hanno generato la bolla.
In altri termini, l'esportazione di capitali provenienti dall'Asia (oltre che dalle economie della rendita petrolifera arabo-mediorientale) e riciclati (attraverso i “fondi sovrani”) nelle piazze finanziarie di New York e Londra, ha alimentato il credito facile e l' “innovazione” finanziaria, che, a sua volta, ha costruito la piramide del “capitale fittizio” e gonfiato la bolla immobiliare-finanziaria.
In tale ottica, è evidente che non può esistere alcuna separazione fra “sfera finanziaria” e “sfera produttiva” del processo complessivo di circolazione del capitale, poiché la prima dipende direttamente (e dialetticamente) dalla seconda; in modo speculare, trattandosi appunto di parti interconnesse di un fenomeno economico-sociale unitario, gli effetti della crisi nel segmento finanziario-creditizio non possono non ripercuotersi ed estendersi al complesso dell'economia “reale” (ossia alla produzione ed al consumo, non solo americani ma, ovviamente, mondiali).
Si tratta cioè di una crisi delle condizioni e dei meccanismi globali di creazione del credito, generata in ultima istanza dallo sviluppo “ineguale” (differenziato per aree geografiche e settori economici) del sistema economico capitalistico e del mercato mondiale, che si trasforma, con i riflessi del rallentamento americano ed europeo sulla crescita asiatica, in una vera e propria crisi del ciclo internazionale, con una ampia caduta generale di investimenti, consumi e produzione.

Crisi, sistema economico-sociale capitalistico e rapporti di classe

Il fenomeno descritto si innesta immediatamente ed oggettivamente sul rapporto economico-strutturale fondamentale del modo di produzione capitalistico, ossia il rapporto capitale-lavoro: esso è un rapporto di produzione materiale, che assume la veste giuridica di “rapporto di proprietà”, tra il soggetto (o, più precisamente, la classe di soggetti) che ha il possesso-controllo del capitale costante (mezzi di produzione) ed il soggetto (la classe di soggetti costituente la stragrande maggioranza della società) che dispone soltanto della propria forza-lavoro da vendere sul mercato, alla classe sociale che detiene i mezzi produttivi ed al valore di scambio (o prezzo) costituito dal salario, per procurarsi i mezzi di sussistenza.
Il rapporto di produzione capitale-lavoro è, nella sua intima essenza, un rapporto di dominio/controllo del capitale stesso sulla forza lavoro produttiva (vale a dire innanzitutto sulla classe operaia industriale) ed in generale su tutta la forza-lavoro salariata, nelle sue varie articolazioni e stratificazioni: tale dominio/controllo è finalizzato prioritariamente allo sfruttamento intensivo e prolungato della stessa forza-lavoro, funzionale all'estrazione del massimo livello di plusvalore possibile (attraverso l'aumento della produttività/ritmi lavorativi, il prolungamento del tempo di lavoro assoluto e/o la riduzione-compressione dei salari).
Ciò consente al capitale di realizzare mediamente il più elevato tasso di profitto possibile, nelle varie e concrete condizioni dei rapporti di forza tra le classi: il tasso di profitto (ovvero il margine di utile per l'impresa) si pone, infatti, in rapporto di immediata e diretta correlazione con il plusvalore, inteso come valore ulteriore (aggiuntivo) generato dalla forza-lavoro nel processo produttivo, di cui si appropria, senza alcuna contropartita, il capitale e la classe che lo detiene (la borghesia).
Proprio sul plusvalore si fonda in realtà l'intero processo di accumulazione capitalistica, che altro non è se non accumulazione di plusvalore, cioè trasformazione del valore “ulteriore” creato dal lavoro salariato (proletariato), in capitale “costante” detenuto e controllato dalla classe capitalistica, esigua minoranza sociale parassitaria.
E' questo, in ultima istanza, l'immenso ed ingovernabile meccanismo sociale di sfruttamento che, periodicamente ma regolarmente, produce crisi di sovrapproduzione/sovraccumulazione di capitale, crescita di capitale “fittizio”, espansione e rottura di bolle finanziarie con inevitabili ricadute sul circuito finanziamento-produzione-distribuzione-consumo, progressiva concentrazione/centralizzazione del capitale (e del potere) nelle mani di pochi e corrispondente aumento della “massa della miseria” del proletariato mondiale.
L'attuale crisi, indubbiamente la più grave del dopoguerra, trova appunto origine nello sgonfiamento dell' “economia del debito” (che aveva generato una domanda addizionale, la quale, a sua volta, aveva assorbito il sovrappiù di capacità produttiva proveniente dalle economie “emergenti” ), che si riversa sulla produzione industriale e sui servizi, a causa della conseguente restrizione del credito da parte del sistema bancario, della maggiore difficoltà di reperimento di capitali sui mercati finanziari e del concomitante calo della domanda per consumi/investimenti.

Crisi, fase imperialistica e Stato del capitale

Ciò a cui stiamo assistendo (e che si è tentato di sintetizzare) rappresenta un'ulteriore ed oggettiva conferma non soltanto della piena validità scientifica della teoria e del metodo marxista come strumento di analisi della realtà economico-sociale, ma anche dell'esattezza del suo “sviluppo” leninista; le crisi finanziarie sono in effetti una delle manifestazioni “naturali” del particolare (e più elevato) stadio evolutivo “imperialistico” del sistema del capitale.
Le caratteristiche principali dell' “imperialismo” sono state individuate da Lenin (ne “L'imperialismo fase suprema del capitalismo”) e costituiscono i connotati essenziali del'attuale fase storica di estensione mondiale del modo di produzione capitalistico; esse, brevemente, sono: 1) la tendenziale concentrazione del capitale e della produzione in imprese di dimensioni sempre più ampie, con conseguente formazione dei “monopoli” (cartelli, trust, accordi ed associazioni monopolistiche tra imprese) che si ripartiscono i mercati internazionali (in proporzione alla loro “forza economica”); 2) la compenetrazione tra capitale bancario e quello industriale, con progressiva formazione del capitale “finanziario”, fortemente centralizzato; 3) la notevole rilevanza acquisita dall'esportazione di capitale e, conseguentemente, del modo e dei rapporti di produzione capitalistici, in tutto il mondo (in maniera, ovviamente, differenziata e diseguale, per ritmi di sviluppo, settori economici ed aree geografiche); 4) la compiuta ripartizione della Terra tra le più grandi “potenze” statali capitalistiche.
L'imperialismo, dunque, non è altro che il capitalismo giunto a quella fase “suprema” di sviluppo contrassegnata dal dominio del capitale finanziario monopolistico, dalla massiccia esportazione/circolazione mondiale dei capitali e dalla concorrenza per la spartizione del mercato mondiale tra i grandi gruppi di imprese che rappresentano la quota più concentrata ed internazionalizzata del capitale complessivo sociale.
Lo stadio monopolistico del capitalismo non elimina affatto la concorrenza fra i grandi gruppi della concentrazione industriale e finanziaria, semplicemente ne allarga la scala alle dimensioni dei mercati internazionali.
Nella concorrenza sul piano mondiale, i gruppi societari fortemente internazionalizzati utilizzano necessariamente lo “strumento politico” costituito dagli Stati nazionali (e dalle loro “unioni continentali” - ad es. l'UE): ad essi, i conglomerati capitalistici richiedono di centralizzare il massimo di “potenza” politica in funzione della proiezione esterna della propria propria forza economica, per acquisire o consolidare le rispettive sfere di influenza e posizioni di predominio strategico sul mercato mondiale.
E' proprio qui che può individuarsi il nesso strettissimo tra la crisi che si profila sui mercati mondiali e la ridefinizione delle relazioni e degli equilibri tra le potenze imperialistiche. Le crisi sono infatti inevitabilmente anche momenti di modificazione (più o meno “traumatica”) dei rapporti di forza oggettivi tra gli Stati, cioè di spostamento e ricollocazione di porzioni di forza economica che producono (dialetticamente) adeguamenti sul piano della potenza politica e strategica: il declino “relativo” degli USA, l'ascesa poderosa di Cina ed India, il faticoso tentativo di consolidamento politico europeo (a fronte di una ormai raggiunta integrazione economico-monetaria), il riemergere della potenza russa rinvigorita dallo sfruttamento della leva energetica, l'emergere del Brasile come potenza continentale, costituiscono le “forze tettoniche” che modificano gli equilibri internazionali, provocandone la rottura (parziale o generale) e, di conseguenza, causando le guerre (commerciali o militari, locali o globali).
In altre parole, i rapporti di forza economica e di potenza politica fra gli Stati dipendono, in ultima istanza, dallo sviluppo ineguale del sistema produttivo capitalistico (del mercato mondiale) e dalle sue periodiche crisi; essi, dunque, variano e si evolvono nel corso del tempo, dando luogo al fenomeno dell'ascesa e del declino delle potenze imperialistiche.
Gli Stati capitalistici (ossia tutti quelli attualmente esistenti in “natura”, a prescindere dalla forma più o meno “democratica”) costituiscono l'involucro politico attraverso il quale vengono rappresentati e sintetizzati gli interessi materiali e le volontà politiche “generali” dei grandi gruppi industriali-finanziari (sia privati che “pubblico-statali”), che rappresentano la parte più concentrata e rilevante delle diverse frazioni nazionali del capitale. Essi sono quindi oggettivamente gli Stati (ed i governi) del capitale “finanziario”, espressione, in prevalenza, degli interessi economici e delle “volontà politiche determinate” della parte più “forte” del capitale e della classe che lo detiene.
Si può dunque, a ragione, affermare che le attuali “democrazie capitalistiche” centralizzano e traducono politicamente gli interessi generali e strategici della classe di soggetti dominante nei rapporti economici; ciò significa che esse costituiscono la “forma” politico-giuridica migliore e più efficace, tramite la quale si esprime il fondamentale rapporto di dominio-sfruttamento esistente, sul terreno economico, tra capitale (e classe di soggetti che lo controlla, cioè la borghesia) e lavoro salariato (ovvero, in particolare e direttamente, la classe operaia e, più in generale, la classe lavoratrice), cioè tra un'esigua minoranza di “predoni” e la stragrande maggioranza della società (cfr. in questo senso, non solo Lenin, sulla stretta correlazione tra ineguale sviluppo economico e politico, ma anche lo stesso Marx, che, nel terzo libro del Capitale, individua, nella forma democratica, la “forma specifica” dello Stato capitalistico).
L'imperialismo, come attuale fase storica di sviluppo del sistema economico-sociale capitalistico, è, in sintesi, il rapporto dialettico tra l'interesse generale e comune delle varie frazioni della classe capitalistica internazionale allo sfruttamento del lavoro salariato, e gli interessi “particolari” delle diverse “frazioni nazionali” del capitale, che portano le stesse a scontrarsi (anche attraverso gli Stati ed anche con mezzi militari), per la spartizione (mediante la conquista dei mercati e la ricerca di maggiori profitti) del plusvalore mondiale prodotto dalla classe lavoratrice internazionale.
La stessa evoluzione delle forze produttive e del processo ineguale di circolazione/accumulazione internazionale del capitale, ha, correlativamente, determinato lo sviluppo della “forma politica” di tale processo dinamico, ossia dello Stato moderno del capitalismo moderno: si tratta dello Stato del “capitalismo finanziario”, cioè dell' “imperialismo” che è il capitalismo monopolistico dei grandi gruppi industriali-finanziari, prodotto concreto della tendenza “storico-naturale” alla concentrazione-centralizzazione del capitale.
Nel presente stadio di pieno sviluppo del modo di produzione complessivo del capitale, esiste infatti una pluralità di centri di potere economico, riconducibili ai vari gruppi e frazioni capitalistiche, le cui “volontà politiche” condizionate dagli “interessi materiali”, trovano una sintesi, un equilibrio dialettico ed una “centralizzazione”, nel potere politico e nella pluralità di sovrastrutture politico-giuridiche in cui si articola la specifica forma democratica dello Stato capitalistico contemporaneo; il che, ovviamente, non esclude, anzi accentua, la tendenza oggettiva al particolare rafforzamento del potere esecutivo, in funzione di una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni politiche.

Crisi ed intervento statale nell'economia

E' pertanto evidente che l'aumento dell'entità/complessità delle funzioni dello Stato moderno deve essere posto in relazione con l'evoluzione del sistema economico e con l'obiettivo fondamentale della classe dominante di garantire, preservare e perpetuare lo stesso meccanismo economico-sociale complessivo ed il centrale rapporto di dominio gerarchico tra capitale e lavoro.
In questo nesso essenziale risiede, infatti, la funzione ineliminabile dell'intervento dello Stato capitalistico nel ciclo economico, cioè nel ciclo dell'accumulazione del capitale: lo Stato diventa un elemento fondamentale del processo generale di produzione/circolazione/accumulazione del capitale; un elemento che interagisce con la struttura economico-sociale con il ruolo prioritario di sostenere e regolare l'intero sistema, soprattutto nelle periodiche crisi recessive da sovrapproduzione.
L'intervento sempre più esteso, regolare e sistematico dello Stato e dei pubblici poteri nell'economia, in funzione anticiclica o anticrisi, trova la sua ragione ultima nell'incapacità strutturale dei meccanismi del mercato capitalistico di evitare le crisi economiche.
Lo Stato capitalistico interviene nel processo economico (direttamente o indirettamente) attraverso l'acquisizione del ruolo di “imprenditore” (cioè la gestione diretta di imprese a capitale pubblico che operano sul mercato, o l'acquisto di partecipazioni al capitale di imprese private), l'erogazione di finanziamenti a fondo perduto, prestiti, aiuti pubblici (ad esempio, cassa integrazione, agevolazioni fiscali etc.) alle imprese private, la politica fiscale e monetaria funzionali, rispettivamente, al sostegno della domanda per consumi e investimenti ed alla stabilizzazione antinflazionistica del ciclo economico, nel contesto più generale del circuito della finanza pubblica, alimentato da un prelievo tributario gravante prevalentemente sul salario (ad esempio, circa l'80% delle risorse pubbliche derivanti dalle entrate fiscali dell'IRPEF, in Italia, provengono dai redditi di lavoro dipendente o assimilati).
In questo senso il capitale (e la classe capitalistica) utilizza il “suo” Stato per scaricare i costi delle “sue” crisi sistemiche sulla classe lavoratrice, prelevando/accentrando quote consistenti di salario e trasferendole, tramite i meccanismi della finanza pubblica, al profitto e alla rendita.
Sullo sfondo emerge, in conclusione, la contraddizione ultima ed insanabile fra sviluppo storico delle forze produttive della società e rapporti di produzione/proprietà capitalistici: cioè l'inconciliabile contrasto, scoperto dalla scienza marxista, tra l'oggettiva e progressiva “socializzazione” della produzione e dei processi lavorativi, da un lato, ed i rapporti di appropriazione “privata”, da parte di pochi, del prodotto sociale del lavoro collettivo.
Ancora una volta è illuminante Lenin, in “Che cosa sono gli amici del popolo”: “Le cose vanno in un modo del tutto diverso quando si giunge, grazie al capitalismo, alla socializzazione del lavoro. (…). Ne risulta che nessun capitalista può fare a meno degli altri. E' chiaro che il detto “ognuno per sè” non è più applicabile in nessun modo ad un simile regime: qui oramai ognuno lavora per tutti e tutti lavorano per ciascuno. (…). Tutte le produzioni si fondono in un unico processo sociale di produzione, mentre ogni produzione è diretta da un singolo capitalista, dipende dal suo arbitrio, e gli dà i prodotti sociali a titolo di proprietà privata. Non è forse chiaro che la forma di produzione entra in contraddizione inconciliabile con la forma dell'appropriazione? Non è forse evidente che quest'ultima non può non adattarsi alla prima, non può non divenire anch'essa sociale, cioè socialista?” .
Ma.Cer.

LA CRISI DEL CAPITALE "FITTIZIO"

ma.cer

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FONTE

  • info@pclabruzzo.it