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La CGIL, le grandi opere ed il patto dei produttori

7 Febbraio 2019

Riprendiamo dal sito dell'area di opposizione CGIL "Il sindacato è un'altra cosa"

scacchi


Appena si è chiuso il XVIII congresso, sui giornali e nei social sono partire subito le prime polemiche, in particolare intorno alla questione TAV, sulle parole e le posizioni del nuovo segretario della CGIL (eletto con grande successo di critica e di pubblico, oltre il 92% dell’Assemblea Generale, dopo le liti, le polemiche e le tensioni che hanno accompagnato la sua candidatura negli ultimi mesi). Vedi, anche solo ad esempio, Fortebraccio.
Il punto in discussione, in ogni caso, non credo proprio sia quello delle opinioni e delle posizioni personali di Landini. Lo ha chiarito proprio lui, in persona, nella sua intervista a “In mezz’ora” del 27 gennaio. Alla domanda della Annunziata (minuto 36 e 35 secondi): “la FIOM è sempre stata contro le grandi opere, la CGIL è sempre stata a favore. Landini è a favore o contro?”, la sua risposta è stata ineccepibile: “La FIOM era contro e mi risulta che sia contro ancora. Come è noto, la CGIL ha un’articolazione delle sue posizioni in cui c’è una maggioranza della CGIL che non si è detta contraria alle grandi opere. Poi in questo caso vorrei dire, non tutte le grandi opere, la CGIL non è d’accordo sul ponte di Messina, si discute di ogni singolo passaggio. Se sto alla discussione attuale, pur nell’articolazione delle posizioni che ci sono dentro la CGIL, c’è un elemento di maggioranza che dice che i cantieri che son stati bloccati della TAV vanno riaperti. Essendo io oggi il segretario generale della CGIL non devo dire cosa penso o pensavo io. Io avevo le mie idee e le avrò mantenute, ma devo fare i conti con il pensiero della mia organizzazione.” Ha perfettamente ragione Maurizio: essendo lui oggi il segretario generale della CGIL, non deve tanto dire cosa pensa lui, quanto presentare il pensiero della sua organizzazione. È quello che realmente conta, il resto sono solo pettegolezzi. Inappuntabile!

Il punto, allora, è cosa pensa la CGIL sulle grandi opere e sulla TAV. E come è arrivato a pensarlo. Cosa pensa la CGIL lo ha detto lo stesso Landini con chiarezza nella sua intervista a “In mezz’ora”: la CGIL non è favorevole a tutte le grandi opere (per esempio è contraria al ponte di Messina), ma è per riaprire subito gli attuali cantieri, tutti, compreso quello della TAV Torino-Lione. Non è una posizione nuova. La CGIL aveva infatti assunto questo orientamento di merito sulla TAV con degli specifici ordini del giorno già nel 2010 (al XVI congresso) e nel 2014 (al XVII congresso).
C’è però una novità. Non è la posizione personale del segretario generale. Nel 2010 e nel 2014, infatti, l’orientamento della CGIL era stato assunto a maggioranza dopo un acceso dibattito ed una contrapposizione netta, in cui una larga parte dell’organizzazione si era schierata contro questa scelta. Diciamo, a larghe linee, a partire dall’insieme delle sue tante e articolate sinistre: le componenti di Lavoro Società, quella che oggi è Democrazia e Lavoro, il circuito allora della Rete 28 aprile, e poi del Sindacato è un'altra cosa, il gruppo dirigente della FIOM e la maggioranza della Camera del Lavoro di Torino. Oltre che ovviamente tanti altri compagni/e (delegati/e, dirigenti ed iscritti) che non condividevano quell’impostazione.
Nel 2018, al XVIII congresso a Bari, le cose sono andate in maniera un po’ diversa. In Commissione politica e nella platea del congresso si sono confrontati infatti due ordini del giorno, messi in contrapposizione tra loro dalla stessa presidenza della Commissione politica. Qui potete leggere entrambi i testi. Il primo, esplicitamente e nettamente “No alla TAV Torino-Lione” (questo il suo titolo e il suo contenuto), chiedeva al posto delle grandi opere un impegno per la messa in sicurezza diffusa del territorio italiano, salvaguardando l’occupazione e rilanciando un diverso modo di sviluppo. Il secondo, sottolineando il pluralismo delle posizioni in CGIL, sottolineava invece l’importanza di una strategia plurale degli investimenti (dalle infrastrutture alla conoscenza): un testo astratto ed ambiguo, in cui non si vedono mai le parole TAV o “grandi opere”, e che come esplicitamente ricordato nella Commissione politica del Congresso non mette in discussione la posizione nettamente ed esplicitamente sì-TAV assunta dalla CGIL nel 2010 e nel 2014.
Il primo ordine del giorno, presentato non casualmente dai delegati e delegate del secondo documento, “Riconquistiamo tutto”, ha ottenuto 23 voti favorevoli. Il secondo, presentato dalla compagna Re David (segretaria della FIOM, categoria che al proprio congresso aveva confermato una posizione contraria al No Tav, partecipando poi anche al corteo torinese del 8 dicembre 2018) e da diversi delegati e delegate piemontesi e torinesi, ha ottenuto oltre 300 voti.
La novità del XVIII congresso della CGIL, cioè, è stata che nel nuovo grande “afflato unitario” che ha conquistato l’organizzazione nelle giornate di Bari, discutere e votare sul merito è rimasta un’opzione controcorrente. Le altre sinistre della CGIL hanno cioè preferito ripiegare: non hanno messo in discussione l’orientamento maggioritario a favore della TAV, accettandolo ed ottenendo solo il riconoscimento che ci sono anche altre opinioni nell’organizzazione. Il punto, allora, non è per nulla la posizione personale di Maurizio Landini, quanto questa scelta di non contrastare più l’orientamento della CGIL su TAV e grandi opere.

Alcuni possono pensare che questo risultato sia una questione secondaria, un male minore. Di fronte al risultato storico dell’elezione di Maurizio Landini a segretario generale della CGIL, di fronte alla possibilità di una svolta dall’immobilismo di quest’ultimo anno, al ritorno ad un “sindacato di strada” e magari di lotta, la riaffermazione di una battaglia di principio su una questione specifica può esser vista come sostanzialmente inutile, se non dannosa. Il problema è che la questione della TAV e dell’orientamento della CGIL sulle grandi opere non è tanto una questione di principio. Non è cioè solo l’eventuale scelta di partecipare (di esser parte) di un movimento popolare di massa che ha attraversato negli ultimi decenni questo paese, con le ragioni del lavoro e il suo punto di vista di classe.

Il problema è che è oggi la questione del TAV e delle grandi opere è nodo centrale, odierno e attuale, delle strategie di politica economica “in quel paese qui”, con la relativa definizione intorno ad esso dei diversi schieramenti politici e di classe. In quel paese qui, infatti, siamo ancora al centro di un’infinita Grande Crisi, di fronte ad un’incipiente recessione nel quadro di un nuovo rallentamento europeo, probabilmente vicini ad un nuovo showdown mondiale (vedi il tendenziale avvicinamento all’inversione dei tassi a breve e lungo periodo sui titoli di stato americano, da sempre un termometro sensibili alle crisi mondiali). In questo quadro, davanti ad una manovra economica senza investimenti, centrata sul taglio delle tasse per le imprese e ad iniziative di spesa corrente di stampo elettorale (reddito di cittadinanza, quota 100, ecc.), settori importanti del padronato e del capitale italiano stanno chiedendo un rapido e significativo intervento anticiclico. Chiedono cioè che oggi, subito, sin da questa prossima primavera il governo sblocchi cantieri, grandi opere ed investimenti infrastrutturali, per fare di questa spesa un volano attraverso cui contrastare l’incipiente recessione. Un volano tanto più necessario, in quanto le grandi imprese dell’edilizia sono già in crisi e, con questa crisi, sono già a rischio miliardi di investimenti.

Qualcuno potrebbe pensare che non ci sia niente di male nel sostenere, in una fase recessiva nel quadro di una grande crisi, una nuova grande politica di investimenti, magari anche pubblici. Il punto è che in quel paese qui, in campo, non c’è tanto la richiesta di un nuovo grande piano del lavoro, di una ripresa di una politica articolata e complessiva di investimenti pubblici. No. La spinta e la proposta ha un altro taglio ed un altro contenuto. Lo ha spiegato, chiaramente ed esplicitamente, lo stesso Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: serve oggi un nuovo patto del lavoro, un nuovo moderno patto dei produttori, che allarghi sul tema della rappresentanza e delle politiche economiche generali il patto di fabbrica raggiunto qualche tempo fa (l’accordo quadro sulla contrattazione). Serve cioè una nuova iniziativa per «mettere mano ad un piano B, preparandosi ad un rallentamento dell’economia globale, che impatta anche sull’Italia». Un piano B sostanzialmente incentrato su… «un decreto sblocca-cantieri contro il rallentamento dell’economia» (sic!). Una proposta a cui la CGIL, come gli altri sindacati, ha subito risposto con attenzione e interesse. Di più, a Bergamo CGIL, CISL, UIL, Confindustria, rappresentanti artigiani, costruttori, agricoltori, trasportatori e persino la Compagnia delle Opere (sic!) hanno già firmato un patto dei produttori per le infrastrutture, lo sviluppo, l’occupazione e (perché no) anche l’ambiente: “si realizzino subito le grandi infrastrutture, per rendere il paese più competitivo”, dal TAV al terzo valico di Genova alla pedemontana lombarda.

Sì, proprio come esplicitato a Bergamo, quello che Confindustria propone è un nuovo patto dei produttori. Del resto, lo stesso Boccia lo chiedeva sei anni fa, quando era presidente di Piccola Industria. Ma cos’è esattamente un “patto dei produttori”? La formula è stata lanciata da Gianni Agnelli in una famosa intervista del 1973: sostanzialmente, fu la proposta di una grande alleanza tra imprenditori e lavoratori, per modernizzare il paese contro le tante rendite parassitarie. Una proposta che si concretizzò poi nella sua elezione a Presidente di Confindustria, quindi nell’accordo interconfederale sul punto unico di contingenza del 25 maggio 1975 ed infine nella cosiddetta “strategia dell’EUR”: l’accettazione cioè da parte della CGIL di una linea di moderazione salariale e cogestione delle ristrutturazioni industriali (cioè esuberi, cassaintegrazioni e licenziamenti), in cambio di investimenti ed un futuro secondo tempo in cui si sarebbe dovuta concretizzare una politica economica dalla parte del lavoro (un secondo tempo, ovviamente, che non arrivò mai). Il patto dei produttori invocato da Agnelli fu però successivo ad uno dei più significativi cicli di lotte del novecento (iniziato nel '68-'69 e proseguito nei contratti del 1972-'73, a partire proprio da quello della FIAT successivo all’occupazione di Mirafiori): era quindi al contempo un risultato di quelle lotte e una risposta ad esse, una strategia di contenimento e normalizzazione all’interno della fase che sarà poi caratterizzata dai governi di unità nazionale. Oggi un patto dei produttori, nel pieno di una grande crisi, dopo un decennio di continui arretramenti del lavoro e senza neanche l’illusione di un secondo tempo, è semplicemente lo schiacciamento delle ragioni del lavoro sulle necessità dell’impresa per sopravvivere alla crisi ed alla competizione. È la riduzione dell’autonomia del lavoro alla semplice sopravvivenza come forza-lavoro, uno dei fattori di produzione del capitale. È la semplice rinuncia, cioè, alle ragioni di fondo di un sindacato generale.

Anche perché il patto dei produttori è solo un’altra faccia di quello che giornalisticamente qualche mese fa era non casualmente chiamato "il partito del PIL". Cioè, sul terreno sociale e dei soggetti produttivi questa proposta è l’alter ego di quella grande alleanza repubblicana che Calenda e altri vanno chiamando sul terreno politico elettorale, per isolare e sconfiggere Lega e 5 Stelle. L’attuale governo reazionario unisce infatti due partiti tra loro diversi, ma in qualche modo tra loro complementari, incentrati su diversi settori della piccola-media borghesia (piccoli e medi imprenditori della provincia diffusa; piccola borghesia professionale in via di proletarizzazione). Un blocco politico-sociale che però, sfruttando l’ampia insicurezza sociale ed i danni prodotti dalle politiche neoliberali dei governi di centrodestra e centrosinistra, ha saputo costruire una significativa egemonia di massa, in particolare sulle classi subalterne. Allora, da qualche mese diversi settori del cosiddetto establishment stanno provando a costruire nel campo politico ed in quello sociale una vasta alleanza, incentrata sul capitale e sul lavoro, per provare a sconfiggere questo governo e spezzare questo blocco politico-sociale. La proposta di riprendere una politica anticiclica di investimenti pubblici centrati sulle grandi opere e l’immediato sblocco dei cantieri è cioè il fulcro attraverso cui provare a isolare questo governo e rilanciare, sul piano politico e sociale, una nuova fase di gestione capitalistica della crisi sotto la guida degli interessi dell’impresa. Per il lavoro è quindi un tentativo pericoloso e sbagliato. Da una parte pericoloso, perché ripropone in una condizione di debolezza nei rapporti di forza l’illusione di un compromesso con il grande capitale, che come tutte le altre volte non può che finire in un ulteriore e grave arretramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne. Dall’altra parte sbagliato, perché questo tentativo si muove sul piano astratto e burocratico dei rapporti fra le grandi organizzazioni sociali, senza vedere e senza interagire con gli interessi, le sensazioni, le rappresentazioni e le aspettative dei milioni di lavoratori e lavoratrici che esistono in quel paese qui. Così facendo, oltre che probabilmente destinarsi alla sconfitta, di fatto si facilita il consolidarsi dell’attuale egemonia reazionaria sulle classi subalterne.

Il punto, allora, è come si schiera la CGIL (ed il sindacato tutto), rispetto a questa proposta e questa spinta che viene dal padronato italiano. Una spinta ed una proposta che si concentra e focalizza proprio sullo sblocco dei cantieri e delle grandi opere, in una quasi letterale applicazione del precetto keynesiano per cui, per risolvere la scarsità di domanda aggregata durante le crisi, è utile pagar qualcuno con risorse pubbliche per scavare buche anche inutili (magari per poi... riempirle). Nella fattispecie, qui si tratta di buche molto grandi, molto profonde e probabilmente anche molto inutili (un po’, per chi la conosce, come la BRE-BE-MI). Il punto, cioè, è come si schiera oggi la CGIL di fronte alla richiesta di mettere al centro della politica economica del paese la ripresa immediata del lavoro nei cantieri, ribadendo la logica e la strategia delle grandi opere (dal TAV al terzo valico, dalla Pedemontana alle altre autostrade, come ricordava il presidente di Confindustria di Bergamo nel suo commento al patto firmato anche dalla CGIL orobica). Cioè, come si schiera oggi la CGIL rispetto a questa politica che conferma il sostegno all’attuale modello di sviluppo del capitale italiano, rinunciando a metter in discussione come e cosa si produce, accettando le priorità dell’impresa e concentrando quindi oggi gli investimenti sulle grandi opere. Tralasciando di fatto la spesa sociale e gli investimenti relativi. Tralasciandole, visto che quelle stesse forze padronali nazionali e lombarde con cui si discute e si firmano i patti per le infrastrutture, sono quelle che sostengono i processi di autonomia differenziata e il conseguente smantellamento dei sistemi universali di welfare. Dalla scuola ai servizi sociali.

Certo, la CGIL può sempre rivendicare che la sua proposta generale è un’altra. Per dirla con le parole dell’ordine del giorno approvato dal XVIII congresso della CGIL, una nuova grande stagione di sviluppo plurale del paese e dei territori, con la moltiplicazione di infrastrutture non solo materiali ma anche sociali, con la diffusione di istituzioni della conoscenza emancipatrice, secondo i principi di sviluppo sostenibile, della qualità del lavoro e di una rinnovata coesione sociale. Per dirla con le più dirette parole di Maurizio Landini, in una delle tante interviste, un nuovo impegno ad una politica di investimenti pubblici, dagli ospedali agli asili.

Però, purtroppo, quello che emerge come il punto focale della discussione non è né la ripresa di politica generale di investimenti pubblici, né tanto meno la focalizzazione di questi investimenti sulla spesa sociale. Il punto focale sono diventati gli investimenti sulle infrastrutture ed in particolare le grandi opere, come volando di difesa di un settore centrale della grande impresa e del grande capitale italiano. E, intorno a questo punto focale, la costruzione di un tessuto di alleanze politiche e sociali più generali, per contrastare le attuali politiche e l’attuale gestione del governo Lega-5 Stelle.

La mia impressione, purtroppo, è che la CGIL si sta assestando dalla parte sbagliata del fronte. Infatti, il passaggio congressuale sulla questione della TAV, guardato da molti con disattenzione e sufficienza, rischia di esser un passaggio fondamentale attraverso cui la CGIL, nella pluralità delle sue opinioni sulla questione, di fatto accetta e fa pienamente propria la rivendicazione dell’apertura immediata delle grandi opere. Così l’ha infatti subito rivendicato il gruppo dirigente della FILLEA. Così, subito, la CGIL si è schierata nel dibattito politico e sociale di quel paese qui, come risulta anche, non casualmente, dalla piattaforma CGIL-CISL-UIL del prossimo corteo del 9 febbraio (la prima volta dopo il 4 marzo, dopo mesi di immobilismo, in cui le grandi organizzazioni sindacali tornano a battere un colpo nel paese): “le grandi opere, già sottoposte alla valutazione costi/benefici, devono procedere ad una immediata cantierizzazione o prosecuzione”. Cioè, il sindacato unito scende in piazza anche per chiedere di proseguire quel modello di sviluppo distorto e quel modello di sfruttamento, del lavoro del territorio e di sistema.

Contro questo rischio e questa deriva, mi sembra urgente che tutta la sinistra politica e sociale recuperi consapevolezza e reagisca, con forza e determinazione. A partire da tutte le sue diverse componenti sindacali nella CGIL. Con questa determinazione, in direzione ostinata e contraria, si è mosso “Riconquistiamo tutto”: i compagni e le compagne che hanno sostenuto il secondo documento nel congresso della CGIL. Penso e mi auguro che continueremo a farlo, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, come area programmatica congressuale.

Un’ultima annotazione, a mo’ di post scriptum. Il patto dei produttori era uno degli elementi centrali della riflessione di uno dei contributi politici più interessanti e più profondi del dibattito congressuale, quando ancora la discussione sulle diverse candidature di Colla e di Landini a segretario generale sembravano far emergere in controluce un confronto politico vero su diversi modelli e strategie politico-sindacale. Mi riferisco alla riflessione proposta sul Diario del lavoro da Roberto Ghiselli (uno dei due componenti della segreteria CGIL che si era inizialmente opposto alla candidatura Landini). Come, nel dibattito in Commissione politica e nelle Assemblee generali della scorsa primavera, la costruzione di una nuova unità organica con CISL e UIL era il cavallo di battaglia di molti di quegli esponenti del gruppo dirigente CGIL che, nei mesi successivi, avrebbero più contrastato la candidatura di Landini (da Pedretti a Miceli). Allo stesso modo, la centralità delle grande opere e della riapertura dei cantieri, è da sempre uno dei punti qualificanti della FILLEA e del suo segretario, Alessandro Genovesi (che non ha caso hanno appoggiato i cortei Sì TAV torinesi di questi mesi).
Maurizio Landini, allora, sembra quasi riattulizzare inconsapevolmente una vecchia strategia politica dei e nei partiti comunisti d’antan, insegnata come d’uopo alla rigida scuola di partito della Mosca stalinista: battere il dissenso e le minoranze interne, per poi assumerne subito dopo la linea e quindi cancellarle definitivamente dallo spazio politico. Così, la nuova CGIL di Landini nei suoi primi passi sembra esser quella che con più decisione sta abbandonando il terreno dei conflitti nella produzione e sta costruendo un’iniziativa tutta politica sul fronte dell’unità sindacale burocratica con CISL e UIL, delle grandi opere e del patto dei produttori. Non so se è la nemesi storica del landinismo, cioè di una stagione di direzione della FIOM e di interpretazione di una sinistra sindacale che è iniziata in fabbrica, nei conflitti del lavoro, con l’opposizione al modello Marchionne ed all’offensiva generale del padronato dopo la crisi del 2007-08. Certamente non lo trovo un bello spettacolo.

Luca Scacchi

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